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Genesi della Questione Meridionale
La storia si scrive sempre due volte, commenta lo storico Paolo Mieli nel suo libro “Storia e Politica”. La prima volta è quella scritta dai vincitori, la seconda tocca agli storici scovare quelle verità nascoste dai vincitori “pro domo sua “, ricercare documenti per insinuare quel ragionevole dubbio sulla versione precedente e porre interrogativi su dove possa essere effettivamente la verità storica degli eventi. Scrive ancora Joseph Brodsky (premio Nobel per la letteratura nel 1987): “Si tace ciò di cui ci si vergogna; si tace la colpa o la si sminuisce con una diversa narrazione delle cose”. Ha senso oggi parlare ancora di Questione Meridionale? Prima dell’unità d’Italia esisteva una Questione Meridionale?
Quando nel 1926 Antonio Gramsci scriveva i suoi “Temi sulla Questione Meridionale”, poco prima che venisse arrestato, non faceva altro che riprendere una dizione che era stata utilizzata per la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, con la quale lo stesso Billia metteva in risalto la disastrosa situazione economica del Meridione post unità d’Italia.
Gramsci, che aveva già pubblicato articoli sulla “Questione Meridionale” sulla rivista “L’Ordine nuovo”, da lui fondata nel 1919, affermava che l’unità nazionale era stata vista dai liberali e dai moderati di Camillo Benso conte di Cavour come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia dei Savoia, quindi non come movimento nazionale dal basso, bensì come conquista regia. Praticamente Gramsci sosteneva che il popolo nelle vicende risorgimentali aveva avuto un ruolo decisamente marginale, subalterno alla borghesia liberale del tempo, come se il Risorgimento fosse solo “una conquista regia” e non una rivoluzione popolare alla stregua di quella francese, in quanto a differenza della Rivoluzione francese al popolo italiano mancava una coscienza nazionale.
Quindi si sarebbe trattato solo di un Risorgimento elitario, un Risorgimento inteso come operazione “dall’alto”, dove il popolo non fu assolutamente protagonista e, come scrive Paolo Mieli in Storia e Politica, “anziché essere una riserva di consenso, il popolo dal 1861 costituì un problema alle élite liberali che fecero l’Italia”, di fatto la “Questione Meridionale” che non esisteva prima dell’unità d’Italia, nasce con essa: il Mezzogiorno diventa la palla di piombo che impedirà lo sviluppo civile dell’Italia! (Gramsci).
Un Risorgimento visto da taluni storici come una “rivoluzione fallita” se non addirittura “tradita”, non solo una gloriosa epopea di atti eroici e sacrifici, un’unità nazionale che vide protagoniste le forze moderate magistralmente guidate da Cavour, unità però che non poté prescindere dalla spedizione dei Mille, “la radunata rivoluzionaria” come Gramsci etichettò l’impresa garibaldina, unità ottenuta non come risultato di una sollevazione popolare, ma come invasione e conquista del Mezzogiorno, e che ebbe come conseguenza una guerra civile tra italiani!
Carlo Pisacane
Che il popolo non fosse ritenuto un soggetto protagonista nel periodo risorgimentale come fenomeno di massa ne era convinto anche Giuseppe Mazzini, che del Mezzogiorno non se ne era mai curato abbastanza, convinto che di ideale rivoluzionario ce ne fosse gran poco e comunque molto meno che nelle province del centro-nord. Carlo Pisacane la pensava esattamente in modo opposto.
Lui credeva nei contenuti sociali alla base di una forza rivoluzionaria, pensava che le masse contadine del mezzogiorno sarebbero state pronte per una ribellione non solo ideologica, ma soprattutto sociale, contro i Borboni e contro i baroni che li dominavano e quindi mise in atto una improvvida spedizione verso il Sud, neanche molto condivisa da Mazzini, ma nemmeno contrastata.
Partito da Genova con una ventina di compagni, Pisacane prima s’impadronisce del piroscafo Cagliari per poi a Ponza liberare 323 detenuti (di cui solo una dozzina politici, il resto disertori e criminali comuni) per sbarcare a Sapri, convinto che la popolazione li avrebbe accolti come liberatori. Tutt’altro!
La gente del luogo li accolse con diffidenza e ostilità, vedendo in loro più degli invasori che dei liberatori, al punto da dar man forte ai soldati borbonici (i loro soldati…) che in poco tempo il primo luglio del 1857 a Padula sconfissero e annientarono quei 300 “giovani e forti”, arrivati per liberare popolani e contadini dalla cosiddetta tirannide borbonica. Pisacane stesso trovò la morte a Sanza, dove si era rifugiato con alcuni dei suoi uomini, uccisi da quei contadini che egli stesso, con le sue idee rivoluzionarie, era venuto a sollevare contro il Re Borbone.
Di quella spedizione rimase così solo la poesia di Luigi Mercantini “la spigolatrice di Sapri”, cara a Garibaldi che di lì a poco proverà la spedizione dei Mille, ma con ben altre coperture finanziarie, politiche e militari. Ma perché Garibaldi si convinse della bontà di una spedizione al Sud, consapevole dei rischi che una tale impresa avrebbe comportato? Come e perché nacque l’idea della spedizione dei Mille?
I mille di Garibaldi
Una “Dittatura senza egemonia”, la definì Gramsci, con la naturale conseguenza che il Regno delle due Sicilie non doveva essere altro che un “allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia dei Savoia”! Aveva quindi ragione lo scrittore sardo quando affermava che il Piemonte e i Savoia con la loro “rivoluzione/restaurazione” assunsero una funzione di “dominio” e non di dirigenza democratica del processo unitario, tanto è vero che nel Meridione si passò dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese.
A questo proposito vale la pena di ricordare la lettera che Vittorio Emanuele scrisse al “caro cugino” re delle due Sicilie Francesco, della quale fa menzione Indro Montanelli nel suo libro “L’Italia del Risorgimento”. Il Re sabaudo prospettava “al caro cugino” la creazione di due potenti Stati, quello del Sud e quello del Nord, sulle spoglie dello Stato Pontificio ridotto solo a Roma e provincia. La lettera finiva così: “Se permetterà a qualche mese di passare senza porre in atto il mio amichevole suggerimento, Vostra Maestà sperimenterà forse l’amarezza delle terribili parole: troppo tardi”! Praticamente un Ultimatum!
Non sapremo mai se accettando il compromesso del “caro cugino” piemontese Francesco avrebbe salvato il suo Regno, magari lo avrebbe perso ugualmente, ma intanto Cavour fomentava i disordini in Sicilia, (rivolta di Palermo 3 e 4 aprile 1860), attraverso i suoi contatti con i Comitati siciliani, ma non si sognava minimamente di annettere la Sicilia. Egli voleva solo tenere l’isola in stato di agitazione così da spaventare Re Francesco ed indurlo ad accettare l’alleanza con Vittorio Emanuele. Effettivamente troppo tardi.
Nonostante le riserve di Cavour per una spedizione al Sud, le sue perplessità all’idea mazziniana di una “unità nazionale” piuttosto di un’Italia federata, la sua assoluta volontà di non mutare lo “status quo” sociale, spalleggiato in questo da una borghesia liberalconservatrice, il Re Vittorio Emanuele ruppe gli indugi incontrando direttamente Garibaldi. Di lui aveva una considerazione negativa sia come uomo che come militare, ma condivideva la comune insofferenza alla politica e alla diplomazia, oltre al fatto che entrambi detestavano Cavour.
In quel momento il Generale pensava solo a sobillare un’insurrezione nella sua Nizza, in quanto incolpava Cavour di averla ceduta a Napoleone contro la sua volontà insieme alla Savoia, e lui la voleva riconquistare a tutti i costi. La perdita di Nizza aveva mandato il Generale in uno stato di prostrazione tale da scrivere ad un amico:” L’anima mia è piena di lutto, tutto mi schiaccia ed atterra. Abbandonerò questo ambiente che mi soffoca e mi ripugna fino alla nausea e lo farò presto, per respirare più libero, come un prigioniero che rivede alla fine la luce di Dio…”. Non immaginava che da lì a poco avrebbe intrapreso un’impresa passata poi alla Storia!
Infatti, Nino Bixio insieme ai suoi amici Medici e Bertani riuscì a dissuadere il Generale dall’intraprendere ogni operazione su Nizza, cercando di preparare in gran segreto la spedizione al Sud, convincendolo della bontà dell’iniziativa che anche il Re gli aveva proposto. Cavour a questo punto dovette fare buon viso a cattivo gioco, perché sapendo della combutta del Re con Garibaldi contro di lui, aveva capito che si era messa in moto una forza impossibile da fermare, ma al massimo controllare.
La sera del 5 maggio 1860 Nino Bixio, su ordine di Garibaldi, si accordò con il procuratore dell’armatore Rubattino di acquistare (e non rubare …) i due piroscafi Piemonte e Lombardo, per poi salpare al mattino seguente con i “mille” e il Generale dal porto di Quarto. Dopo una breve sosta a Talamone in Toscana per approvvigionarsi di armi e munizioni, al mattino dell’11 maggio i due piroscafi avvistarono il porto di Marsala.
Con l’appoggio” interessato” di due navi da guerra inglesi (non si sa bene se promesso o casuale…) che fecero da scudo nei confronti della flotta borbonica, la quale a quel punto non poté aprire il fuoco per non creare un incidente diplomatico con la Gran Bretagna (i rapporti con gli inglesi non erano mai stati idilliaci), i garibaldini riuscirono a sbarcare sull’isola lasciando i due piroscafi in mano ai borbonici che li catturarono e incendiarono. Non si poteva più tornare indietro: vincere o morire come i 300 di Pisacane!
L’inizio dello sbarco non fu promettente, gli abitanti di Marsala accolsero i garibaldini come “cani in chiesa” chiudendosi in casa. L’unico ad accogliere Garibaldi e i suoi mille volontari fu il Console inglese e un manipolo di picciotti che si unirono strada facendo alle giubbe rosse, ma il Generale ben sapeva che prima o poi avrebbe dovuto scontrarsi con le forze borboniche, ben più numerose e meglio armate.
Ciò avvenne il 15 maggio a Calatafimi, dove 25.000 borbonici al comando del generale Landi attaccarono 1.000 garibaldini appostati in cima ad una collina. Non avrebbe dovuto esserci partita, tale era la differenza tra i due contendenti sia in armamento che in numero di soldati, eppure tra la meraviglia degli stessi garibaldini che stavano soccombendo allo stremo delle loro forze, e mentre Bixio stesso chiedeva a Garibaldi se fosse il caso di battere in ritirata, Landi diede l’ordine ai suoi soldati di ritirarsi, tra lo sgomento generale.
La strada per Palermo era aperta, dove Garibaldi sconfisse il nuovo comandante borbonico subentrato a Landi, il generale Lanza: per il cosiddetto “eroe dei due mondi” si aprivano le porte dell’intera Sicilia, non tralasciando di svuotare le casse del Banco di Sicilia di Palermo come bottino di guerra, i latifondisti siciliani salirono immediatamente sul carro del vincitore, moltissimi ufficiali dell’esercito borbonico passarono con l’ex nemico lautamente pagati dagli inglesi, e cosi nel giro di due mesi la Sicilia era completamente in mano ai garibaldini, perpetrando anche massacri, come fece Nino Bixio a Bronte.
Ma si sa:” La guerre c’est la guerre”! E di lì a qualche mese l’intera Italia meridionale era conquistata. Giunti a questo punto bisogna porsi l’ennesima domanda su questa intricata Questione Meridionale: perché gli inglesi aiutarono in modo così palese Garibaldi e le sue giubbe rosse?
Ferdinando II: amico di tutti, nemico di nessuno
Quando Ferdinando Carlo Maria di Borbone salì al trono del Regno delle due Sicilie nel 1830 col nome di Ferdinando II, in seguito alla morte del padre Francesco I, venne accolto dal popolo con molta diffidenza sia in quanto Borbone sia per la pesante eredità lasciata dal padre nel non fare nulla per i propri sudditi. Invece i suoi primi atti di governo furono ispirati ad apportare un grande cambiamento nel Regno, guadagnandosi la fiducia e la simpatia del suo popolo. Cominciò con una importante riforma finanziaria e della amministrazione pubblica, ridusse le imposte, riformò le tariffe doganali, promosse l’industria, protesse l’agricoltura, diede impulso a tutta l’economia del mezzogiorno che era profondamente arretrata.
Non a caso venne varata la prima nave a vapore proprio a Napoli, come anche la prima ferrovia la Napoli-Portici. Diminuì le spese di corte: l’appannaggio reale aveva sempre pesato negativamente sul bilancio dello Stato, le rendite private istituite dal padre Francesco dimezzate, condonò o sospese le condanne ai detenuti politici e agli esuli e annullò tutte le sentenze di morte, inflitte dai tribunali di suo padre. In politica estera prese le distanze dall’Austria, ma anche dalle sue dichiarate nemiche Francia e Inghilterra, cercò di mantenere una certa equidistanza dalle tre potenze europee, tale da meritare l’appellativo di “Amico di tutti, nemico di nessuno”.
Quindi una politica estera molto cauta se non addirittura neutrale che sfociò nel non intervento nella guerra di Crimea. Francia e Inghilterra sin dall’inizio del regno di Ferdinando II usarono ogni mezzo per screditare la posizione diplomatica estera del Re, soprattutto l’Inghilterra che aveva preso di mira la Sicilia per farla diventare la propria roccaforte nel Mediterraneo. Ostilità inglese che ebbe un prologo nel 1831 con lo sbarco di fanti inglesi sull’isola Ferdinandea, un isolotto vulcanico di soli quattro chilometri quadrati emerso dal mare tra Sciacca e Pantelleria (poi inabissatosi qualche mese dopo), sfociata poi nella questione dello zolfo siciliano di cui gli inglesi avevano l’esclusiva, che Ferdinando II non esitò a revocare.
Inequivocabili segnali di attrito che divennero ancora più eclatanti dopo i moti rivoluzionari scoppiati sempre in Sicilia nel ’48 con la decisione di bombardare le città insorte, tanto da far guadagnare a Ferdinando II il famoso nomignolo di “Re Bomba”. Il 15 settembre 1849 l’Inghilterra inviò una durissima nota al governo delle Due Sicilie, nella quale tra l’altro affermava che “qualora Ferdinando II avesse ancora perseverato nella sua politica di oppressione, il Regno Unito non avrebbe assistito passivamente ad una nuova crisi tra il governo di Napoli ed il popolo siciliano”.
L’Inghilterra approntò una fitta rete diplomatica e mise a disposizione ampie risorse finanziarie e militari per spodestare i Borboni dal Regno delle due Sicilie, la cui naturale conseguenza sarà poi la presenza di navi militari inglesi durante lo sbarco dei Mille a Marsala.
In conclusione, alla Francia, ma soprattutto all’Inghilterra, dava fastidio che il Regno delle due Sicilie insidiasse i loro traffici commerciali, dato che il Regno ormai trafficava con tutto il mondo, tanto da essere considerato, prima dell’arrivo de “la radunata rivoluzionaria” come Gramsci definì l’arrivo dei Mille di Garibaldi in Sicilia, l’effettiva Terza Potenza economica europea dopo Francia e Regno Unito.
La fine del Regno delle Due Sicilie
Il Regno delle due Sicilie non fu mai un paradiso terrestre, sia Ferdinando II che suo nonno Ferdinando I avevano represso nel sangue ogni tentativo di costituzionalizzare il Regno, come era stato nel caso dei moti rivoluzionari di Morelli e Silvati prima e dei fratelli Bandiera poi. Questo la dice lunga sulla politica repressiva che i due Re attuarono, senza dimenticare però lo stimolo all’economia che riuscirono a dare al Regno.
Lo sviluppo del polo siderurgico di Mongiana in Calabria, fondato già nel 1771, una miniera di ferro con annesso stabilimento di fusione, che Ferdinando II visitò nell’ottobre del 1852 per rimarcare l’importanza del sito; senza dimenticare il Real sito di San Leucio, fondato nel 1752, divenuto a quei tempi l’opificio con il più alto livello tecnologico in tutta Europa e nominato nel 1997 patrimonio dell’Umanità protetto dall’UNESCO.
Significativa poi la storia della grande fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa, tra Napoli e Portici, e l’annessa scuola per macchinisti e fuochisti, fiore all’occhiello per Ferdinando II, divenuta simbolo del rilevante sviluppo economico industriale del Meridione. Senza dimenticare l’importanza del porto di Salerno e i cantieri di Castellammare di Stabia, tutte eccellenze che vennero man mano smantellate in seguito all’unità nazionale sancita nel marzo 1861.
Ecco quindi nascere i primi dualismi tra le industrie del Sud e quelle presenti al Nord: prima Mongiana poi Pietrarsa, concorrente dell’Ansaldo la cui proprietà era di Carlo Brombini (amico di Cavour), vennero messe in condizioni di fallire ed essere smantellate. Lo stesso Brombini arrivò a dire che [i meridionali] … “non dovranno essere più in grado di intraprendere”!
Pietrarsa stessa fu al centro d’un episodio che si consumò il 6 agosto del 1863 all’interno dello stabilimento siderurgico, quando gli operai decisero di incrociare le braccia a causa del fatto che avevano dovuto subire l’abbassamento della paga giornaliera. Fu una strage causata dall’intervento dei bersaglieri chiamati a riportare l’ordine in fabbrica, come scrive il giornale “il Popolo d’Italia” tra le sue colonne il giorno seguente:” […….] gli operai stessi tutti inermi aprirono il cancello da dove i soldati con impeto inqualificabile si lanciarono su di loro con la baionetta in canna sparando e tirando colpi di baionetta alla cieca. […….] Fu una scena di sangue, che amareggerà ogni italiano, che farà meravigliare gli stranieri e gioire i nemici interni!”.
Alla fine, si contarono quattro morti accertati e una ventina di feriti, Pietrarsa venne smantellata, e cominciò la lenta e inesorabile emigrazione del popolo meridionale verso nuove terre. E chi non emigrava si dava alla macchia, diventava come Carmine Crocco, il “Brigante Donatelli”, o come “Ciccilla” al secolo Maria Oliverio, la Brigante di cui racconta la vita tra storia e leggenda Giuseppe Catozzella in “Italiana”: “o briganti o emigranti” affermò Nitti!
Lo stesso Nitti (Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia tra il 1919 e il 1920) che nel suo libro “Scienze delle Finanze Nord e Sud” ebbe a scrivere testualmente: “…dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, praticamente solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”
Venne attuata la cosiddetta “piemontesizzazione”, definita da Gramsci la “Mala Unità” d’Italia, la quale avendo posto in contatto le due parti della penisola, meridionale e settentrionale, assolutamente antitetiche tra loro, provocò l’accentramento del potere in mano alla casa Savoia, permettendo alla “borghesia settentrionale di soggiogare l’Italia meridionale e le isole riducendole a colonie di sfruttamento”. Continua ancora Gramsci:” L’accentramento bestiale ne confuse i bisogni e le necessità, e l’effetto fu l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”, oltre a coprire l’enorme debito contratto dal regno di Sardegna per le guerre d’indipendenza.
L’altro effetto fu la militarizzazione del Sud (oltre 120.000 militari per combattere la guerra civile contro il brigantaggio), un regime fiscale pesantissimo (22 imposte contro le 5 precedenti del Regno delle due Sicilie), la leva obbligatoria per otto anni: in poche parole la Questione Meridionale era cominciata.
In conclusione le parole di Massimo D’Azeglio tratte da una lettera al senatore Matteucci del 2 agosto 1861:
“La questione di Napoli, restarvi o non restarvi, mi pare debba dipendere più di tutti dai napoletani; salvo che non si voglia per comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato. Ci siamo mossi dichiarando sempre che i governi non approvati dai popoli erano illegittimi…anche a Napoli abbiamo cacciato un Sovrano per instaurare un governo eletto con suffragio universale; ma sembra non bastino 60 battaglioni per tenere il regno, ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volerne sapere della nostra presenza. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so nulla del suffragio, ma so che al di qua del Tronto (fiume che separava lo stato pontificio dal Regno delle due Sicilie…) non servono battaglioni, mentre al di là sì. Dunque, dev’essere stato commesso un errore. Dunque, o cambiar principio o cambiar atti e trovare il mezzo una volta per tutte di sapere dai napoletani se ci vogliono o non ci vogliono. […..] Agli italiani che, pur rimanendo italiani non volessero unirsi a noi, non abbiamo il diritto di prenderli con le archibugiate, ma con gli argomenti”.
La risposta fu la promulgazione da parte del Re Vittorio Emanuele della famigerata “Legge Pica”, nella quale si proclamava che tutto il Sud, salvo qualche provincia, era in “stato di brigantaggio”: una specie di stato d’assedio dove veniva trasferito il potere dei tribunali ordinari a quelli militari. Una guerra civile che provocherà migliaia di morti ammazzati e in seguito un esodo migratorio epocale dalle terre del Sud verso il nuovo mondo al di là dell’oceano e non solo.
Bibliografia
- Paolo Mieli – Storia e Politica – Risorgimento, Fascismo e Comunismo – RCS Libri 2001.
- Indro Montanelli – L’Italia del Risorgimento – Rizzoli, 1972.
- Giampiero Carocci- Storia d’Italia dall’Unità ad oggi – Feltrinelli, 1975.
- Giuseppe Catozzella – Italiana – Mondadori, 2021.
- Antonio Gramsci – La Questione Meridionale – A cura di Franco De Felice e Valentino Parlato – Editori Riuniti 2005.
I libri consigliati da Fatti per la Storia sull’argomento!
- Paolo Mieli – Storia e Politica – Risorgimento, Fascismo e Comunismo – RCS Libri 2001.
- Indro Montanelli – L’Italia del Risorgimento – Rizzoli 1972.
- Giampiero Carocci- Storia d’Italia dall’Unità ad oggi – Feltrinelli 1975.
- Giuseppe Catozzella – Italiana – Mondadori 2021.
- Antonio Gramsci – La Questione Meridionale – A cura di Franco De Felice e Valentino Parlato – Editori Riuniti 2005.