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Nel secolo decimo nono germogliano e fioriscono due ideologie che nella loro competizione di primazia in Europa, dapprima favoriscono e convivono in Occidente con l’ideologia liberale e liberista posteriore alla Rivoluzione Francese. Poi nettamente si oppongono all’espansionismo napoleonico ed infine si pongono in forte antitesi per la supremazia in Europa. Spicca la nascente ideologia pangermanista, fra l’occidentalismo liberale ed il panslavismo russo.
Dopo la guerra di Crimea (1853-1855) e la rottura dell’equilibrio del Congresso di Vienna (1814-1815), il processo unificativo tedesco, promosso da Otto von Bismarck e dopo la guerra Franco-Prussiana del 1870-1871, inaugura la forte presenza imperiale tedesca che apre un lungo periodo di pace europea fondata sull’equilibrio fra le Nazioni. Emergerà un modello di Stato interventista in economia, autoritario in politica e rivolto alla primazia in Europa, fondato sull’ideologia pangermanista nata nella società civile degli Imperi Centrali.
1806-1834: il nazionalismo romantico antifrancese. Il confronto col modello panslavista. Lo Zollverein (1834)
Chiunque voglia accostarsi allo spinoso tema del Pangermanesimo non può non cominciare dal famosissimo saggio del maturo Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, scritto fra il 1915 ed il 1918, pubblicato a Berlino a pochi mesi prima della fine della Prima Guerra Mondiale. In una delle sue celeberrime riflessioni, non priva di un autopessimismo retrospettivo, il mago di Lubecca, sicuramente scosso dalle notizie dalla Russia e da Verdun, si domanda se anche in Germania l’idea pangermanista può fare la triste fine di quella panslavista, non solo foriera della Grande Guerra, ma anche causa della reazione bolscevica, sicuramente legata al materialismo scientifico e storico additato come nemico naturale dello Spiritualismo Russo antioccidentale.
La slavofilia espansionista invero predica il ritorno alle origini bizantine ed ortodosse e la scelta della guerra europea nel 1914 si motiva formalmente in difesa della fratellanza slava, ma in sostanza fin dagli scritti di Puskin emerge il perseguimento dell’ideologia romantica di Schelling e di Fichte. In particolare, lo scrittore russo riesce a far pubblicare poco prima di morire (1841) l’epico Il cavaliere di ferro, dove immagina che la statua di Pietro il grande, posta a Pietroburgo e scolpita dal Falconet, si rianima per proteggere il popolo russo ed i suoi fratelli del sud contro l’assalto liberale e laicista francese guidato da Robespierre.
Herzen riattiverà quell’immagine un decennio dopo, sostituendo Nicola I a Pietro e mettendo Louis Blanc, il nuovo Marat, alla testa dei sanculotti alle porte della sacra Kiev. Nondimeno, lo stupore del filo germanico Mann è evidente quando vede lo Zar Nicola II parteggiare nel 1914 non per il cugino Guglielmo II Hohenzollern, quanto e piuttosto per l’altro cugino Giorgio V di Gran Bretagna. Cosa che lo amareggia, perché quest’ultimo è più disponibile a versare capitali ed inviare tecnici per le fabbriche militari di armi più aggiornate a fronte della grave sconfitta subita contro il Giappone nel 1905, peraltro invece ben armato con navi da guerra più moderne fornite dal concorrente imperatore prussiano.
Mann cioè scopre il volto alla maschera panslavista: non si tratta di ideologia nobilmente ispirata dalla resurrezione spirituale ortodossa contro il materialismo religioso protestante e soggettivista. Dietro l’idea panslavista altro non c’è che la cinica logica aggressiva della nazione Russa tesa alla conquista dei nuovi mercati e nuove tratte commerciali nei Balcani. In realtà, la corrente slavofila ritiene che il capitalismo razionalistico occidentale porti alla rovina l’occidente, corrotto per l’assenza di una giustizia sociale e lacerato da guerre di partiti divisi al loro interno.
Diversamente, in Russia l’amore per la pace e l’attaccamento alla fede cristiana sono segni di civiltà assoluta e la loro Kultur non è tanto distante da quella arcaica della Germania (per un’analisi approfondita dal nazionalismo Russo e del relativo movimento panslavista nel diciannovesimo secolo, si rinvia agli articoli che compaiono su questo blog, dove lo Scrivente esamina l’evoluzione storica del fenomeno nei numeri del 17.1.2023; 5.3.2023; 19.3.2023 e 16.4.2023).
I panslavisti russi – per esempio, Nikolaj Danilevskij (1822-1895) – fidano che la lotta fra Russia ed Occidente si sarebbe risolta a loro favore perché Dio lo vuole, cioè per la loro primazia morale e sociale, figlia del primo romanticismo. Solo che a poco a poco la Germania passerà dalla parte dell’Occidente civilizzato e dunque sarà la Germania di Bismarck e poi quella di Guglielmo II il vero nemico da abbattere. Ma anche la Germania di Wagner, Nietzsche, Rosenberg e di Hitler non sarà da meno nella reciproca conflittualità, specialmente dopo il 1914 e fino ai giorni nostri, peraltro a corrente alternata, come vedremo.
Tornando ora alla Germania del secolo decimo nono, anche colà teutonici e liberali combatteranno un guerra ideologica fra il 1806 ed il 1914, date che simboleggiano l’invasione della Francia Napoleonica al di là del Reno e la mobilitazione delle genti tedesche contro l’occidente con la Prussia in testa, passando per l’impero tedesco di Bismarck, fino alla Germania militarista di Guglielmo II di Hohenzollern. Eppure, la distinzione fra le due scuole di pensiero non è assoluta perché chi esprimerà simpatie occidentali non è pienamente germanofilo e chi è pangermanista spesso apprezza l’ideologia capitalista. Ma vediamo nella specie, il concetto di Stato. Naturalmente, il tema di fondo sfiora l’inizio dell’età moderna e quindi si potrà accennare per sommi capi dei pensatori cui si rinvia per approfondimenti.
Si può brevemente ripartire dalla classica polarizzazione fra pensiero giusnaturalista e quello contrattualista legato al momento dell’azione associativa fra i sudditi. I pensatori moderni, da Hobbes a Kant, concordano nell’evoluzione della società naturale – per esempio, la famiglia – alla società politica e quindi allo Stato, un processo dove dalla realtà naturale soggettiva, ci si è evoluti in una società che affida ad un terzo – il Re di Hobbes, per esempio – la tutela di beni e diritti fondamentali, che assuma la suprema difesa della società al di fuori dell’autotutela personale.
Non è un caso che sia la scuola anglosassone a delineare la cessione di sovranità individuale ad un soggetto – ovvero ad una classe dirigente oligarchica – perché è conforme al processo di colonizzazione del nuovo mondo, dove il cinema western rappresenterà tale sviluppo nell’immaginario collettivo. L’illuminista Rousseau, nel famoso discorso sull’origine ed i fondamenti dalla diseguaglianza fra gli uomini (1755), illustra la forma sociale civile successiva allo stato naturale di Hobbes. E’ il contratto sociale il necessario presupposto della guerra permanente e che impone una entità superiore che funga da baluardo e da giustiziere nella società naturale finché il grado di civiltà non si è ancora consolidato. E’ però Hegel a fornire la mediazione perfetta del conflitto fra uomo e società.
Nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto, (1821) considera la società civile ancora una condizione insufficiente e passeggera, un mero passaggio che tende alla piena attuazione dell’idea di Stato. presente in modo informe nella morale individuale. Di qui, la concezione totale dello Stato, la istituzione assoluta di tutti i bisogni della società, la cerniera e la fonte polarizzante dell’amministrazione della giustizia, della polizia, dell’economia e la struttura piramidale che hanno come fine la tutela dei soggetti, o meglio dei cittadini dello Stato. Di fatto, la lettura di Hegel rispecchia la Russia slavofila di Nicola l e la Prussia di Federico Guglielmo IV, coevi delle rispettive scuole nazionaliste, circostanza che accredita la comune diffidenza verso l’occidente che mette in primo piano i diritti civili.
Ma ciò che li differenzia non è al momento il mero sviluppo tecnologico ed economico, del tutto impari alle nazioni occidentali – Francia e Gran Bretagna in forte incremento industriale – quanto e piuttosto l’aspetto Spirituale. Se lo slavismo russo e la missione della Chiesa ortodossa nuotano nella stessa acqua; lo stesso non può dirsi del Luteranesimo, religione che assume toni diversi fra paesi nordici, l’Olanda più radicale e la Svizzera nettamente più avanzata. Addirittura a fine ‘800 nascono scuole luterane germanofile che influenzeranno la nascente ideologia nazionalsocialista perché si richiamano agli dei germanici precristiani.
Comunque, Pangermanesimo e Panslavismo hanno origine comune nell’anticapitalismo occidentale e nella comune certezza di essere i campioni della morale ortodossa cristiana. E qui torniamo al concetto germanofilo di Stato. Tutto ciò premesso, i primi due pensatori germanofili da sottoporre all’attenzione, pur nella radicale diversità di formazione laica e religiosa, sono Leopold Ranke (Turingia, 1795 – Berlino 1886) ed Ernst Troeltsch (Augsburg, 1865 – Berlino, 1923). Il primo, nello scritto Epoche della storia Moderna (una raccolta di conferenze fra il 1824 ed il 1854), supera il pensiero hegeliano della Storia giacché nega ogni influenza religiosa sulla Storia, considerata erroneamentedal filosofo di Stoccarda una proiezione di idee astratte da parte di colui che la incarna, uno Spirito assoluto visto presente nel Napoleone a cavallo per le vie di Bamberga.
La storia per Ranke è invece figlia delle fonti narranti i fatti e della loro relativa analisi concreta. Dunque, non un fenomeno universale retto da un fine supremo, né casuale, né scientifico. Quanto e piuttosto una rivelazione spirituale dell’uomo. E’ la coscienza realista machiavellica il fine logico, la Ragione di Stato il filo rosso. Non una generica tensione fideistica a tutela dei diritti individuali rivolte ad un teorico bene comune. Ma la condotta di un Grande Individuo, Una persona Unica che non conosce forza superiore. Di qui, la politica di potenza rispetto agli altri Stati e quindi la presunzione universale sovranisteggiante.
Troeltsch rafforza questa intraprendente lettura della storia. Forte del pensiero protestante che vede nel fedele unico soggetto della storia e al quale non interessa alcuna tutela della felicità che Jefferson vuole fra i diritti fondamentali nella Costituzione americana del 1776; considera lo Stato un apparato di Potere rivolto ad autoconservare se stesso, una realtà organizzata a dominare all’interno dello Stato stesso altri uomini, fondato sulla forza legittimata di se stesso. Realtà che il Troeltsch trae dal maggior discepolo di Kant, Johann Gottlieb Fichte, che fin dal 1800, con il saggio Lo stato commerciale chiuso, affida a tale Ente è l’unica regolamentazione della vita economica e sociale. Cioè una cessione all’Ente/Stato del potere di supremazia sociale dell’Uomo sull’Uomo affinché la somma degli uomini raggiunga quello scopo comune di Sicurezza, finalità che prelude al Sovranismo dello Stato meglio organizzato, vale a dire la Prussia di Federico Guglielmo IV (ed in qualche modo, anche dello zar Nicola I).
Questo strano impasto di luteranesimo e romanticismo post hegeliano diffuso nel pensiero politico tedesco fra gli anni ’20 e ’50 dell’800, peraltro ha una notevole risonanza – o forse anche una causa – nella miseria crescente del proletariato tedesco, al pari di quello russo e non inferiore di quello inglese e francese del primo capitalismo, realtà che aspira collettivamente al riscatto futuro di quella classe di sfruttati, passaggio già maturato ideologicamente dal socialismo di Proudhon e poi di Marx. La fonte letteraria di questo disagio sociale è data dal Manzoni in Italia, dall’Hugo in Francia, dal Dickens in Inghilterra, dal Gogol in Russia e dalle notazioni di una donna, Bettina Brentano, che dal 1840 al 1859 segue ed assiste con premura i poveri di Berlino.
Ma al rilevato immiserimento della classe proletaria tedesca, corrisponde un notevole sviluppo dell’economia degli scambi commerciali al di là del Reno, perché l’Unione Doganale fra i tanti Stati tedeschi della c.d. Confederazione – costituita dal Metternich durante il congresso di Vienna dal 1814-1815 – costituisce una notevole matrice di crescita economica il volano di sviluppo lo Zollverein del 1834. Patto commerciale fra i 39 Stati tedeschi della suddetta Confederazione che si fonda sulla libera circolazione di persone, merci, capitali e lavoro fra i predetti Stati, un’ampia libertà di commercio che non solo fa rifiorire l’agricoltura verso metodi produttivi a scala industriale; ma produce la fine del protezionismo locale e l’apertura progressiva ai mercati di Stati del centro Europa, dove primeggia la Prussia di Federico Guglielmo IV.
Un progetto riuscito di integrazione economica e politica che negli anni ’40 arriva alla unificazione delle monete, dei pesi e delle misure. Finalmente l’agognato Stato commerciale unitario di Fichte viene raggiunto. Manca ora quello politico ed a breve lo si avrà anche per l’effetto lungo di crescita demografica da cui Bismarck riceverà sostegno per la sua politica di potenza europea.
Il primo romanticismo: da Fichte a Friedrich Ludwig Jahn (1800-1816)
La polarizzazione del pensiero politico teutone – filofrancese nelle aree renane e filoprussiana nel nord prospiciente il Baltico e la Polonia, con loro parallelo refluire fra Luteranesimo e Cattolicesimo – ha un’origine ben più lontana, radicata e nella cultura e nella storia della Germania per poi riflettersi nella profonda revisione post illuminista or ora rilevata. Vale a dire nella vendetta collettiva del popolo tedesco contro la Pace di Münster del 1648, conclusiva della tremenda guerra dei 30 anni, che insanguina quelle terre nella prima metà del secolo decimo settimo.
Il risentimento prussiano per quella pace umiliante – stranamente analoga nelle linee guida e per gli effetti della futura pace di Versailles del 1919 – deriva dai massacri e dalle carestie che hanno distrutto quei paesi fino a farne aree abbandonate a se stesse fino alla rinascita politica ed economica della Prussia nel secolo successivo. In più la borghesia nascente ed i contadini tedeschi vengono spazzati via dalle orde di lanzichenecchi di manzoniana memoria e dunque la schiavitù intellettuale straniera rimane una tara che non può non influire nell’illuminismo politico che tende a vedere il Francese come un bieco aguzzino.
Se poi guardiamo alle tracce letterarie del primo ottocento, basterà citare fra i tanti protoromantici germanici, Franz Grillparzer (Vienna, 1791-1872) che nella significativa tragedia L’ebrea di Toledo (composta nel 1824-1851), scarica sui giudei francesi, fornitori delle armate di ventura che imperversano nelle campagne bavaresi, la responsabilità delle stragi di Magdeburgo e di Würzburg. Nondimeno, se si va a riscoprire la lettura sociologica di Herder – uno dei grandi della letteratura illuminista tedesca e già precursore di Goethe e Schiller – si legge come la rinascita della Germania sia come lo sbocciare organico, simile a quello delle piante e dunque la resurrezione dell’anima popolare.
Nondimeno, il poeta sociologo di Mohrungern – oggi Lituania, ma già Prussia Orientale – dopo una giovinezza cosmopolita passata nella diocesi protestante di Riga; sviluppa la sua teoria del Giovane selvaggio, buono d’animo naturale, in legittima difesa del suolo natio e del mito della purezza di lingue e costumi imbarbariti dalla odiata presenza francese. Leggendo il suo testo etnico principale – Frammenti sulla moderna letteratura tedesca, ripresi nel saggio sull’origine del linguaggio del 1772 – nasce in superficie la difesa e la promozione paritaria di tutte le letterature nazionali e dunque l’eguaglianza formale fra i popoli.
Ma a far data dal 1806 – quando Napoleone, dopo aver invaso la Baviera (12 luglio) e poi sbaraglia i Prussiani a Jena (14 ottobre), fino ad occupare Berlino ricacciando l’esercito prussiano a nord del Baltico – Herder ed il discepolo Fichte mutano radicalmente opinione. Dalla pace perpetua di Kant che li entusiasma e che sembra confermare la loro speranza di convivenza non conflittuale fra i popoli, dove il nazionalismo è visto come un primo gradino di una scala di pacifica finale relazione d’amore; subito mutano d’atteggiamento. La naturale buona familiarità fra gli uomini. si scontra con la reale presenza dell’Io nazionale, figlio del romantico Io soggettivo che si ribella al condizionamento esterno.
L’ostacolo dell’oggetto – ovvero dell’altro che ti vincola, o peggio che ti aggredisce – è la molla che svela la vera natura dell’Io. Tale processo degenerativo partirà secondo tre fasi distinte lungo il romanticismo propriamente detto: da Fichte a Herder fino alle squadre d’assalto di Friedrich Ludwig Jahn (1806-1814); dal determinismo razziale ed il culto ariano di Wagner e Houston Chamberlain (1840-1870) e poi con l’Impero guglielmino e la repubblica di Weimar, due situazioni storiche fra la fine dell’800 e la metà del ‘900. Fasi che fanno da brodo di cottura del Nazionalsocialismo e della analoga ideologia di primo dopoguerra che si ricorda con la sintesi verbale Rivoluzione Conservativa, promossa da Weber, Spengler e Jünger.
Di seguito, osserveremo alcune oasi di ideologia democratica liberale, quali il movimento rivoluzionario del 1848/1849; il lungo governo di equilibrio di Bismarck e l’avventurosa storia repubblicana tedesca degli anni ’20, oasi di occidentalizzazione, il nazionalismo cattivo appare alquanto sminuito dalle domande di democrazia apertosi alla fine della Grande Guerra. Tornando ora alla fase di primo nazionalismo, si è detto del suo nazionalismo più universitario che politico. Si pensi al mondo accademico di Fichte, degli Schlegel, delle leghe universitarie, dei ginnasti e dei campi di battaglia di Jena e Waterloo, dove Körner e Kleist cantano e muoiono per la difesa della Patria. Stefan Zweig, in piena repubblica (1925) ne descrive i valori di quella lotta col demone per la vittoria dell’Io sul mondo della ragione che fanno di Kleist un precursore di Nietzsche.
Di questo primo ventennio del secolo decimo nono, testimone d’accusa del nascente nazionalismo militante, è Friedrich Ludwig Jahn (Lanz,1778-Freyburg,1852), un pedagogista che il Nazismo riesumerà come fondatore del movimento ginnico germanico. Si laurea a Lipsia nel 1806 con una tesi in filologia classica, aderisce giovanissimo alle idee di Herder e Fichte. Insegna da privato, conferenziere ed agitatore, crede da seme nella gioventù universitaria. Avverso a Napoleone, combatte contro i francesi, ma mal sopporta la condiscendenza della casa prussiana. Fonda un’associazione segreta, modello dei futuri carbonari italiani, non solo contro i francesi, ma anche contro l’Austria di Metternich.
Dal 1811 al 1819, da errabondo è spesso segnalato dalle polizie e vive da anticipatore dei futuri sovversivi liberali, considerato pericoloso come il nostro Mazzini. Vater Jahn viene indicato dai tanti romantici di Berlino e Heisenberg, spesso incarcerato, ma anche temuto, tanto da essere arrestato perché giacobino e vagabondo. Solo nel 1840, quando sale al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, un giovane Re non tanto dissimile nelle speranze democratiche del nostro Carlo Alberto di Piemonte. La sua figura carismatica – tale da influenzare Hegel, Ranke ed il giovane Bismarck – lo fa designare dai giovani intellettuali perfino all’Assemblea Costituente dei Francoforte nel 1848.
Alto ed imponente, con una barba bianca e fluente, Jahn impressiona perfino Wagner e Bakunin, all’epoca legati da spirito democratico sulle barricate di Dresda. Dopo la repressione austroprussiana del 1849, il vecchio Vater viene adorato per un ventennio dai giovani nazionalisti perché predica l’Unità della Germania, per aver rievocato i fasti espansivi di Federico il Grande e per odiare le idee filo francesi di libertà e di democrazia che mascherano la realtà espansiva di Napoleone e della borghesia industriale parigina, avida di acquisire le fonti energetiche sulla alta sponda orientale del Reno. Jahn viene strumentalizzato da Metternich e dal capo di Governo prussiano Stern: respinta la minaccia napoleonica, si concedono alla borghesia industriale e commerciale le libertà amministrative di stampo economico.
Le velleità politiche nazionaliste della classe liberale volute dal giacobino tedesco Jahn, vengono drasticamente escluse ed il nazionalismo democratico viene schiacciato. Infatti nel 1819 viene imprigionato ed anche lui come Mazzini ha la sua tempesta del dubbio. Il suo revanscismo antifrancese lo induce a ridimensionare lo spirito libertario ed a mutare il suo pensiero su orizzonti conservatori. Ecco perché Vater Jahn nel decennio preparatorio al 1848, malgrado la fiammata liberaldemocratica di Luigi Filippo nel 1830, perde parecchio successo fra i giovani del secondo romanticismo, primo fra tutti Heine.
Tornato in libertà, limita l’azione sovvertitrice alla mera educazione fisica dei giovani e a poco a poco diserta le adunanze politiche. Infatti, il buon borghese tedesco – specie se prussiano – rivede in lui soltanto un barbaro rumoroso, perché la sua irruenza grossolana e contadina, non è più utile alla nobiltà per reagire all’invasione francese; ora in tempo di pace le necessita un modello sociale franco, dialogante e non tanto furbo, né colto. Del resto, il vecchio Goethe, nel coevo Faust secondo, lo considera un villano intelligente, ora necessario per formare una massa di contadini ed operai non più rozzi, ma coscienti del loro stare al suo posto nella rigida scala gerarchica sociale prussiana.
Di qui la lettura compiaciuta di von Treitschke, che da storico partigiano militarista ben comprende il valore sociale della ideologia di Jahn; cioè la piena accettazione del modello nuovo tedesco. Il Volk da questi disegnato per i futuri tedeschi, parte dal richiamo ai Vandali, la teutonica tribù primitiva. In età avanzata veste sciatto, coi capelli lunghi, quasi un eremita francescano, con camicioni larghi, senza ghette ai piedi, con pantaloni lunghi e larghi, come i vecchi Sanculotti parigini ed i descamisados sudamericani. Ma la Bibbia di Jahn – Das deutsche Volkstum del 1817 – non solo magnifica la ginnastica individuale e di gruppo, non solo privilegia la purezza biologica e critica ogni forma di cosmopolitismo e guarda trucemente l’ebreo malato e storpio; ma chiama a battaglia il popolo e dunque vede nello Stato Unito Germanico l’ideale finale, sempre votato alla guerra di liberazione nazionale.
Non manca nel primo dopoguerra del ‘900 chi rilegge questi principi alla luce dello stesso principio antioccidentale che Jahn proclama. Ancora ed infine altre idee cominceranno a circolare, infarcite dal cinismo politico che le caratterizzerà già durante gli ultimi decenni del ‘800: da una parte la tesi di chi auspica nel destino della Germania la via dell’Est per raccogliere gli sbocchi inevitabili dell’incremento demografico (il c.d. spazio vitale).
Ma anche la rivoluzione anticristiana e paganeggiante, connessa ai raduni di massa rivolti a riesumare i fasti della religione atavica e dei Miti del nord, nonché la creazione delle squadre sportive che avrebbero gareggiato in massa contro gli avversari stranieri. I pochi cenni sulla storia di Vater Jahn e sulle sue idee nella realtà tedesca di primo ‘800, ci sembrano comunque sufficienti per spiegarne il successo ideologico sulle masse e le successive influenze sullo sviluppo del Pangermanismo fino alle adunanze neonazista di ieri e di oggi.
L’oasi rivoluzionaria liberale (1848-1849)
Il punto di svolta della situazione sociale ed economica, maturato dalle spinte e controspinte or ora brevemente descritte nei Paesi occidentali e la parallela realtà politica generale nella Russia di Nicola I ed Alessandro II, dove invece la nozione di Stato non discosta dalla concezione paternalista tardo medievale, ostili alle riforme sociali borghesi dell’Europa Occidentale; portano al terremoto rivoluzionario che investì l’Europa da Lisbona a Varsavia, da Palermo a Vienna, da Parigi a Berlino nel 1848.
E qui la Russia sembra divergere da tale orientamento, sia per la cultura isolazionista e paleomedievale cristiana fondata sulla sottomissione delle classi alla nobiltà laica e religiosa; sia per l’abilità della classe dirigente zarista che convoglia i fermenti liberali filooccidendatali in un canale ideologico espansionista rivolto a sostituire la cultura musulmana balcanica in aree più vicine alla religione ortodossa, utilizzando il retroterra ucraino – bizantino come filo rosso da ricomporre dopo le invasioni mongole e musulmane del Medioevo.
In sostanza, il Panslavismo è una maschera espansionista della Russia a Sud e ad Est per raggiungere un’alternativa sul Mar Nero rispetto al blocco di ghiaccio dall’Asia Siberiana ed al blocco politico dal Baltico dove l’economia occidentale da secoli si è istallata senza speranza di cedimento alla economia marittimista zarista, ultima speranza per la crescita industriale della Russia zarista. Ma nel mezzo c’è la Germania, la cui unificazione minaccia il progetto russo. E la stessa Germania teme di essere ristretta ad Ovest dalla Francia di Napoleone, non solo il Grande, ma anche il piccolo, quel Napoleone III uscito vittorioso e potente delle convulsive vicende della rivoluzione del 1848-1849.
Mentre a Nord, le potenze Baltiche e la grande potenza Britannica perseguono uno splendido isolamento, rivolto a limitare l’eccesso di produzione industriale riversando le loro attenzioni allo sfruttamento delle colonie afro-asiatiche; la Germania accumula nel mercato interno e nella politica nazionalista, un sentimento di primazia morale e culturale che riflette la crescita produttiva meno conflittuale fra le classi sociali rispetto ai Paesi più occidentali. Il processo di unificazione è lento ma graduale. La Prussia ne assume la guida con paziente equilibrio fra le due lame di forbice che tentano di lacerarla.
L’oasi democratica ed occidentalista durerà molto meno che non in Francia od Inghilterra. Nazionalismo e domanda di progresso culturale, ma anche di innovazioni politiche istituzionali sul suolo tedesco vanno da qui di pari passo per un breve periodo (1846-1849). Il cosmopolitismo di Goethe, la religione esistenzialista di Kirkegaard, il materialismo storico e dialettico di Marx, l’ironia letteraria scapigliata di Heine, armoniche al positivismo realista francese,sembrano ringiovanire la statica concezione post-romantica della società tedesca passata dallo Sturm und Drang libertario soggettivo, alla conformista realtà civili borghese del Biedermeier descritta dal Fontane nella drammatica vita di Effi Briest, un’eroina non lontana dalle coeve Anna Karenina e Madame Bovary, simboli letterari di società piccolo-borghesi fra Tolstoj e Flaubert e non caso modelli di vita quotidiana che angosciano le donne della Germania fra il Reno ed il Danubio.
In pratica, l’oasi progressista tedesca durerà poco, culminato nella Dieta di Francoforte del 1848, dove liberali e democratici tentano un compromesso costituzionale repubblicano ed unitario con poco successo per la resistenza degli Junkers agrari, fino alle barricate di Dresda nel 1849, ultima resistenza alle truppe prussiane di Federico Guglielmo IV, traditore come Carlo Alberto dei liberali piemontesi ed italiani del Nord, ritirandosi da Milano durante la Prima Guerra d’indipendenza. Sarà però la Prussia di Bismarck e di Guglielmo I, primo imperatore tedesco dal 1871, a riportare la Germania imperiale nella dialettica delle Nazioni europee più progredite.
L’età della ragione: dall’espansionismo unitario di Bismarck, alla Weltpolitik europea (1862-1890). La prima ondata nazionalista automa
Otto von Bismarck (1815), primo Führer politico della Germania imperiale a guida prussiana, fin dalla proclamazione dell’Impero (18.1.1871 nella galleria degli specchi di Versailles). E’ il Cancelliere di Ferro, nella vulgata storica. Fin dalla carica di Primo Ministro del Regno di Prussia nel 1862, con misurata costanza smorzerà il pericolo russo ad Est, offrendo ad Alessandro II ed Alessandro III materie prime e tecnici, oltreché capitali per le prime opere pubbliche necessarie all’economia ancora feudale, spesso armata e guidata da generali tedeschi nelle campagne contro gli Ottomani sul Bosforo ed in Crimea.
Inoltre, userà più volte il pugno di ferro contro la Francia revanscista di Napoleone III, contenendo le varie pretese nell’area renana. Nel periodo repubblicano francese ne contesta l’aggressività coloniale, collaborando a riguardo con la Gran Bretagna della Regina Vittoria. Nondimeno Bismarck guarda con benevolenza il processo unificativo italiano ed instaura una forte amicizia con Francesco Crispi e poi si alleerà con il giovane Regno di Vittorio Emanuele nel 1866, sconfiggendo a Sadowa il comune nemico austroungarico ed acquisendo definitivamente il resto della Slesia e la Sassonia, consentendo anche l’annessione del Veneto all’Italia.
Inoltre Bismarck in politica interna è consapevole che il modello occidentale materialista e positivista, legato strettamente alla rivoluzione industriale capitalista, seduce la nascente borghesia, ma del pari raffredda il Regno dello Spirito che agita la classe ortodossa in Russia e che non è dissimile all’ideologia protestante nel suo paese. Perciò si pone a mediare le pari esigenze approvando la scuola statalista storicista e laica. Fa tesoro quindi della sua forte personalità aggregativa prendendo ad esempio la politica liberale del Cavour e del Palmerston, che pur in diversi contesti spingono a riforme amministrative senza scoraggiare le esigenze conservatrice degli Agrari.
Ricostruisce così l’archetipo dallo Stato-Impero, rispetto allo Stato-Nazione, innovando in economia agraria ed accogliendo progetti di economia industriale sviluppatesi nella realtà anglosassone. In primo luogo appena insediato da Primo Ministro nella Berlino di Guglielmo I, procede alla soppressione dei pascoli comuni e quindi rivede ed allarga il famoso Zollverein, estendendolo alle provincie più arretrate come il Meclenburgo e le nuove provincie di lingua tedesca strappate alla Danimarca della sua prima guerra di confine, lo Schleswig-Holstein, strizzando l’occhio anche alla componente irredentista e nazionalista, ma anche così adattando la consolidata Unione Doganale alle nuove necessità industriali.
Di conseguenza, proprio nello stesso periodo (1866-1868) abolisce il sistema corporativo, abbattendo i privilegi della vecchia nobiltà tedesca orientale ed apre le porte alla borghesia baltica, imponendo ad entrambi un regolamento di politica centralista statale affiancata da una moderata rappresentanza parlamentare consultiva, che calmiera la domanda di tutela dei diritti civili di libertà ed uguaglianza reclamate a Francoforte ed a Dresda nel 1848 e 1849. Poi, nel decennio 1870-1880, si ha la realizzazione delle ferrovie, della marina mercantile, dell’industria tessile, legata alla massimizzazione dell’industria meccanica, sconfiggendo ogni produzione a mano od in casa, fino alla insediazione dei primi blocchi produttivi industriali, benché disincentivando l’industria tessile a mano, nonché vietando ai commercianti di fornire salari di fame ai coltivatori diretti, fino ad impedire salari fondati da merci di mero consumo.
I Buddenbrook, romanzo di Thomas Mann ed il dramma di Hauptmann I tessitori della Slesia, testimoniano la drammatica situazione della borghesia mercantile baltica e della classe operaia prussiana prima delle predette riforme di Bismarck. E così, l’accelerazione industriale produce un fenomeno oligopolistico protetto dall’intervenuto dello Stato al fine di contenere il vecchio feudalesimo agrario, che rimane però foriero di ulteriori problemi di prospettiva nei futuri rapporti sociali. Infatti, il sorgere di società monopolistiche a capitale pubblico – per esempio la società tedesca di binari del 1877 – crea l’effetto positivo di una classe operaia nuova e meno scontenta dalla loro condizione sicuramente più privilegiata di quella contadina provinciale. Ma quest’ultima sarà vittima della reazione compatta degli Junkers agrari che non si adeguano ai colleghi di città e che implementeranno le vessazioni ai loro dipendenti.
Disparità di trattamento che alimenterà la mancanza di coesione sociale, supplita dal tentativo di indirizzare le masse a guerre esterne per evitare conflitti interni. Effetti collaterali che nel ‘900 produrranno prima la Grande Guerra e poi le convulsioni della Repubblica di Weimar, fra rivolte spartachiste a sinistra e moti reazionari a destra, con il Nazismo alle porte. Sia come sia, certamente Bismarck promuove una rivoluzione liberista con non poche eccezioni stataliste, mediando conservatorismo e democrazia, senza suscitare risentimenti popolari e movimenti critici borghesi, formulando scelte favorevoli alla borghesia industriale, senza dimenticare la nobiltà terriera.
Certo di intervenire con una politica industriale protezionista alla lunga avrebbe anche favorito le classi subalterne, tuttavia mette all’angolo i diritti civili e decide con tattica intelligente di produrre servizi a costi bassi pur di allargare la platea dei consumatori. Riprende quindi il metodo compartecipativo di Federico il Grande e persegue la logica polidirezionale fra imprenditori e lavoratori. E’ il c.d. cameratismo illuminista del List, un economista liberista degli anni ’30 dell’800. Si dispone che ogni Stato teutonico può intervenire in economia, pur nell’ottica liberale, sostenendo altresì che lo Stato deve difendere il mercato per non cadere presto nelle mani della Gran Bretagna, dova la libertà di concorrenza è alquanto sviluppata.
Bismarck crede così che i tedeschi siano ora più disposti alla concentrazione della forza-lavoro, delle macchine e dei capitali finanziari e più forti nell’assicurare le energie, tanto da battere la regola ferrea della concorrenza sfrenata del mondo anglosassone. Insomma il principio della libera concorrenza gli appare debole ed il vero tallone d’Achille dell’economia liberista. Piuttosto per List – e per il suo fido discepolo Bismarck – è accettabile un sano egoismo nazionalista che non è in contraddizione col bene comune universale, cioè l’idea kantiana di una futura confederazione universale, figlia della già attuata confederazione nazionale tedesca. Questa è la finale mediazione di Bismarck, essere la Germania unita per divenire prima inter partes, nel futuro contesto europeo.
La rottura del particolarismo commerciale locale, la grande industria unita a profitto crescente per la borghesia tedesca del Nord – quella per esempio della Lubecca di Thomas Mann – alleata della borghesia cattolica di Monaco e di Vienna del Sud, l’alleanza ulteriore con le classi lavoratrici, l’una come un esercito permanente in servizio, l’altra come esercito in quiescenza pronto a sostituire la prima, tutte e due al servizio del Re, della Patria e di Dio. Istituzioni poste a garanzie della pace universale e testimoniata dalla strana convivenza del partito liberaloconservatore monarchico e del partito socialdemocratico dal 1870 al 1890, guarda caso legato da un patto di stabilità che Ranke – e lo storico capocoro della scuola dell’olimpico Mommsen – attribuisce alla perizia politica del Cancelliere di Ferro.
Il successo di questa politica riesce ad evitare l’ennesimo conflitto europeo dopo la sconfitta francese del 1871 e dopo due Conferenze di Berlino, gestite dal Bismarck negli anni successivi, in tema di spartizione equilibrato delle colonie africane e del riconoscimento dell’Italia fra le nuove Nazioni del continente. Ma l’oasi equilibrata della politica estera e la metabolizzazione dei fermenti liberali e socialisti all’interno del Paese – ed il pari sviluppo dell’economia industriale – nel 1890 insidia l’onnipotente Gran Bretagna. La malcelata invidia Russa, con la pressante idea di rivincita francese, senza contare i sintomi di una rivoluzione socialista in ogni angolo degli Imperi; sostituiscono l’idea dello Stato liberale e democratico con quello di Stato Autoritario a tendenza espansiva.
Quando succederà a Bismarck il più manovrabile cancelliere Caprivi, l’Impero di Guglielmo II e l’Austria Ungheria di Francesco Giuseppe, ormai appaiate su convinzioni conservatrici in politica ed economia, getteranno la maschera espansionista e faranno proprie le idee pangermaniste che il tessuto sociale ha già di fatto maturato. Bismarck raggiunge l’acme del suo potere politico europeo e rafforza a colpi di trattati il principio di equilibrio, né nazionalista, né cosmopolita, ma realista nell’impedire da onesto sensale scontri fra le Grandi Potenze europee divise sulla espansione coloniale e sulla conflittualità interna: si vedano nel 1878 la legge antisocialista, ma anche nel 1884 la legge sull’assicurazione in caso di invalidità e vecchiaia, mentre negli stessi anni appunto in politica estera vara trattati con l’Austria Ungheria, la Russia e l’Italia, tutti in funzione antifrancese, fra il 1881 e il 1884.
E’ evidente la scelta di un rinnovamento dei rapporti europei, quasi che tali accordi costituiscano un’assicurazione a favore della Pace, credendo fermamente in una futura unione doganale internazionale per ottenere così non solo la rottura del rischio di essere circondati dalla Francia revanscista e della Russia Panslavista. Di qui la proposta diretta alla Gran Bretagna di lasciarle spazio coloniale in Africa e nondimeno vede nell’Italia un alleato antifrancese che lo metta al sicuro da sorprese alle spalle di origine renana. La minaccia nazionalista, parata nel 1871 dopo l’assalto di Napoleone III, lo induce a vedere nella politica internazionale un momento ora fluido, ora solido, dove sicurezza ed equilibrio sono i veri fini dello Statista.
Costui è tale solo quando sta ad ascoltare i segni di Dio nella storia e li segue sulla loro scia, come un cacciatore scruta le tracce della sua preda, cioè la Pace. Una di quelle tracce è l’anima del popolo. Non di certo l’idea di Stato pensato dagli illuministi francesi di natura prettamente individuale. Si è detto che appunto la storiografia coeva al Bismarck vede un organismo dinamico, in cammino come il popolo biblico, una pianta che il Capo dello Stato coltiva naturalmente e che il buon contadino sa allevare. Dunque uno storicismo naturale fuori dalla forza creatrice del singolo.
E perciò la trascendenza protestante si lega alle comunità delle correnti dei popoli che entrano nel palcoscenico della storia. Fratellanza e Missione come quando la Bibbia ci parla del popolo eletto. Ma così Ranke ed i suoi epigoni non possono non giustificare la guerra a chi si oppone appunto al popolo eletto ed amano alla fine solo il popolo che si crede investito da Dio che è con lui. Una radice che il Pangermanesimo di natura postromantica non esclude e che il Panslavismo, lo Sciovinismo francese ed il Darwinismo anglosassone manterranno nella loro storia nazionale.
Visione nazionalista tendenzialmente guerrafondaia che emerge sia nella citata prospettiva dell’economista Friedrich List, che dello storico di corte Heinrich von Treitschke (1834-1896). Di formazione conservativa e protestante luterano. Questi crede in un governo liberale con la classe dirigente e produttiva capitalista, un governo cioè con la classe dirigente e produttiva, ma dispotico con le classi inferiori, il tutto a difesa della libera proprietà privata. Inoltre, vuole una classe dirigente asservita allo Stato che considera naturalmente pronta alla guerra. Dinastia, burocrazia ed esercito sono cioè quelle sacre istituzioni che salvano la cultura germanica dalle invasioni occidentali e francesi in particolare.
Di qui, la concezione federalista forte dell’Impero, con la Prussia al centro e non certo quel debole federalismo nordamericano esaltato dal Toqueville, campione della concezione individualista liberale e di quei diritti civili che rendono inaffidabili le istituzioni economiche dello Stato e che producono numerose rivoluzioni nel paese vicino, inquinando lo spirito forte della Nazione tedesca. Ancora: la guerra come necessità di difesa e come strumento di attacco immediato e preventivo, dunque santa e moralmente lecita, anche al di là della semplice difesa. E neppure accetta la concezione kantiana dell’arbitrato fra i popoli ed un potere interventista di un Ente superiore per dialogare e convertire le pretese belliche in accordi diplomatici.
La guerra vista come lavanda e toccasana delle controversie. Sovranismo, nazionalismo, bellicismo, centralismo, militarismo, prussianesimo. Idealismo fanatico della guerra e Primazia sul modello medievale dal Sacro Romano Impero. Se Bismarck fino al 1871 ne avalla le idee; dopo l’abbandono per quella politica di equilibrio e di pace sociale che gli consente di governare fino al 1890, tacita temporaneamente la tendenza espansiva che l’ambiguità dei romantici ha alimentato nel primo ‘800.
La prima ondata nazionalista sembra concludersi con la politica di mediazione degli anni ’70-’80 dell’Impero. Tuttavia la società attende un liberatore delle inerzie culturali sovraniste nate proprio con l’Impero. Sarà invece l’anima musicale tedesca a coltivare la tendenza pangermanica,, per poi farla prevalere fino al secolo successivo. Richard Wagner ne sarà il Dio e Fritz Nietzsche il suo Profeta.
Bibliografia
- Sulle origini dell’idea pangermanica, vd. THOMAS MANN, Considerazioni di un impolitico, a cura di MASSIMILIANO MARIANELLI, Adelphi, 1997, nonché ERIC J. HOBSBAWM, Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, 1991.
- In tema di panslavismo, oltre a quanto indicato nel testo, cfr. di recente, anche sulla distinzione radicale fra panslavismo e pangermanesimo, GIAN ENRICO RUSCONI, 1914: Attacco a occidente, Bologna, Il Mulino, 2014, specialmente pagg. 7-22.
- Sullo Stato di Hegel e sulla teoria dello Stato a Lui antecedente, vd. per lo Storicismo giuridico fra settecento ed ottocento, La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento, a cura di GUIDO FASSO’, Il Mulino, Bologna, 1988, pagg. 43 e ss.
- Per la situazione storica europea alle origini delle ideologie nazionaliste e sulla sistemazione politica dell’Europa Continentale dopo la la bufera Napoleonica, cfr. per la Francia nazionalista, JACQUES GODECHOT, La grande nazione, Bari, 1962 e per la Germania, vd. EMIL LUDWIG, La conquista morale della Germania, Mondadori,
- Sulle posizioni di Ranke e Troeltsch nella storiografia prussiana post-hegeliana, rivolte a letture guerra fondaie analoghe alla slavofilia, vd. THEODORE HERMANN VON LAUE, La rivoluzione dell’occidentalizzazione, Oxford, 1987.
- Il riflesso socio-economico delle teorie sullo Stato in età romantica, dovuto al passaggio dall’età agricola alla rivoluzione industriale è stato studiato da JACQUES DROZ, Storia della Germania, Milano, 1960, nonché WERNER RICHTER, Bismarck, Francoforte, 1962.
- La letteratura romantica europea nei suoi riflessi sociali. è oggetto delle analisi di ANDREA WULF, Magnifici ribelli. I primi romantici e l’invenzione dell’Io, Roma, 2022.
- Su Bettina Brentano, vd. MILAN KUNDERA, L’immortalità, Adelphi, 1990, nonché il nostro I salotti letterari del primo ottocento: Clara Maffei, Milano (1834-1859) e Bettina Brentano a Berlino (1830-1859), su www.storiaverita.org, 14.9.2022, e fonti ivi citate.
- In merito allo Zollverein, vd. RAYMOND POIDEVIN e SYLVAIN SCHIRMANN, Storia della Dal Medioevo alla caduta del Muro, Bompiani, Milano, 1992, pagg. 61 e ss.
- Quanto alla guerra dei trenta anni (1618-1648), ai fini di quanto si è detto, restano fondamentali le analisi di FRIEDRICH VON SCHILLER, Storia della guerra dei Trent’anni, prima edizione, 1790, Edizione italiana, Milano, 2010.
- Sulla vita e sugli effetti della figura di Vater Jahn, cfr. LADISLAO MITTNER, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, vol. II, tomo terzo, pagg. 863-864, Torino, 1964.
- Per la situazione generale in Germania prima e dopo il 1848-1849, vd. EDMOND VERMEIL, La Germania contemporanea. Storia sociale, politica e culturale 1890-1950, VI, Pangermanesimo e Imperialismo, specialmente pagg. 223-224, ed. italiana del 1956, una interpretazione storico -sociale degli anni dal 1890-al 1950 ancora valida.
- Per la Francia di Napoleoni III, si rinvia a FRANCO CARDINI, Napoleone III, Sellerio, Palermo, 2010.
- Per la complessità del sistema politico bismarckiano, vd. MICHAEL STÜRMER, L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, edizione italiana, Il Mulino, Bologna, 1986.
- Sulla figura di Heinrich von Treitschke, cfr. PAOLO MIELI, Bismarck e Cavour, due volti del Cesarismo, su Corriere della Sera del 25.1.2011, nonché dello stesso, I conti con la storia, Rizzoli, Milano, 2015.