CONTENUTO
Operation finale: trama e una riflessione sulla narrazione
“Il libro dei ricordi è ancora aperto e voi qui, adesso, siete la mano che tiene la penna. Se avrete successo, per la prima volta nella nostra storia giudicheremo il nostro carnefice e metteremo in guardia chiunque volesse seguire il suo esempio. Se fallirete, egli sfuggirà alla giustizia. Forse per sempre.”
Il film, con protagonista Ben Kingsley (Gandhi 1982, Schindler’s List 1993) nel ruolo di Adolf Eichmann, è basato sui fatti reali che hanno portato alla cattura dell’ex ufficiale delle SS in Argentina, avvenuta l’11 maggio 1960, e al suo processo in Israele nel 1961.
Adolf Eichmann riesce a far perdere le sue tracce dopo la Seconda guerra mondiale e a rifarsi una vita in Argentina. Un uomo ordinario con una vita ordinaria: un lavoro in una fabbrica della Mercedes, una moglie, dei figli e una casa fuori Buenos Aires. Il suo nome diventa Ricardo Klement. Tuttavia, egli non rompe completamente i legami con il nazismo: durante la sua permanenza in Sud America è in contatto con un gruppo di ex gerarchi e criminali di guerra, nonché simpatizzanti locali, a cui rilascia interviste.
Suo figlio Klaus in particolare è un fervente sostenitore dell’ideologia nazista, da cui eredita pure il forte antisemitismo. Una soffiata da parte del padre della fidanzata di Klaus – un ebreo deportato a Dachau – porterà un gruppo di agenti del Mossad sulla giusta pista. Dopo aver catturato Eichmann, le spie devono rimanere nascoste con l’ostaggio in attesa del volo che li ricondurrà in Israele.
Nel frattempo Klaus scopre del sequestro di suo padre e dà inizio a una ricerca casa per casa, al fine di trovare il nascondiglio dei suoi rapitori. Il gruppo di agenti riesce a sfuggire a tale inseguimento per un soffio e, infine, l’aereo con a bordo Eichmann decolla.
Da notare che il film non ha l’intento di raccontare il processo tenutosi a Gerusalemme – al quale viene dedicato qualche minuto alla fine della pellicola – poiché questo rappresenta solo il punto d’arrivo della storia. Piuttosto, gran parte del film è occupata dall’attesa: il volo di rientro in Israele arriverà una decina di giorni dopo la cattura di Eichmann, in corrispondenza dei festeggiamenti del 150º anniversario dell’indipendenza argentina.
Gli agenti sono dunque costretti a rimanere in incognito e ad attendere nascosti nella casa che avevano affittato fuori Buenos Aires. Perché il processo possa aver luogo, è richiesta una prova del fatto che l’ostaggio sia davvero Adolf Eichmann: egli deve firmare una dichiarazione in cui dà il suo consenso a recarsi in Israele per sottoporsi a un “giusto processo”.
In questi giorni di attesa gli agenti del Mossad devono stare faccia a faccia con l’“architetto della soluzione finale” sorvegliandolo, nutrendolo e persino accompagnandolo in bagno. È qui che diventa visibile la caratterizzazione psicologica dell’ex ufficiale delle SS. Uno strano legame si sviluppa fra l’agente Peter Malkin ed Eichmann, quale risultato del loro confronto personale.
Il burocrate di Adolf Hitler non rinnega la Shoah e sostiene di aver agito solo per il suo dovere di difendere la Germania; allo stesso tempo, come a deresponsabilizzarsi, egli afferma di avere semplicemente ubbidito a degli ordini che non poteva rifiutare: “Il tuo lavoro è forse diverso?” – dice, rivolgendosi all’agente del Mossad.
Ben Kingsley riesce a comunicare molto bene la doppia sfaccettatura della psicologia di quest’uomo: una persona convinta delle sue idee che allo stesso tempo però vuole dimostrarsi umana, minimizzando le sue responsabilità e presentandosi come una vittima. All’agente Malkin parla della “sua soluzione finale”, ossia della proposta di trasferire tutti gli ebrei d’Europa in Madagascar per “salvargli la vita”.
Più volte ripete di voler parlare della sua verità sostenendo che il processo in Israele non sarà un processo giusto, ma soltanto uno show per mettere alla gogna un capro espiatorio per tutti quegli ufficiali nazisti che invece sono riusciti a sfuggire alla giustizia.
La figura di Adolf Eichmann e il contesto storico
Nato nel 1906 a Solingen, in Renania, Adolf Eichmann entra a far parte delle SS nel 1932. Fa carriera in qualità di esperto di sionismo e affari ebraici. Diventa capo di una sezione dell’RSHA (Ufficio centrale per la sicurezza del reich) e viene incaricato di gestire la logistica della cosiddetta “soluzione finale”, in altre parole è il responsabile della distribuzione dei deportati nei ghetti e del loro trasporto tramite ferrovia ai vari campi di concentramento e sterminio. Alla fine della Seconda guerra mondiale Eichmann, così come numerosi altri gerarchi nazisti, riesce a far perdere le sue tracce.
Dopo qualche anno trascorso nell’anonimato in Germania, egli si mette in contatto con l’ODESSA – un’organizzazione clandestina creata da alcuni membri delle SS e ricchi industriali nel momento in cui l’esito della guerra era diventato chiaro – la quale ha lo scopo di aiutare i nazisti a fuggire, soprattutto verso l’America Latina. Eichmann attraversa l’Austria e si nasconde in Alto-Adige, dove un francescano gli fornisce un passaporto da profugo sotto il falso nome di Richard Klement. È così che egli giunge in Argentina e inizia la sua nuova vita.
Successivamente, Eichmann torna alla ribalta quando nel 1957 decide di rilasciare un’intervista a Willem Sassen, giornalista olandese nonché ex membro delle Waffen-SS. A Buenos Aires il figlio maggiore di Eichmann, Klaus, frequenta una ragazza a cui non nasconde le sue idee né il suo vero nome. Proprio come si vede nel film la ragazza informa il padre, Lothar Hermann, un ebreo sfuggito alla Shoah. È lui a collegare il cognome Eichmann a quello del criminale nazista e a informare il procuratore tedesco Fritz Bauer, in quegli anni incaricato di indagare sugli ex nazisti in fuga.
Quest’ultimo passa l’informazione al Mossad, il servizio segreto israeliano. Nel 1960 alcune spie, dopo essersi accertate della presenza di Eichmann nella capitale argentina e dopo aver verificato la sua identità, organizzano la cattura dell’ex ufficiale. Al momento del sequestro, il gruppo di agenti lo aspetta nei pressi della sua abitazione fingendo di avere un guasto alla propria auto.
La frase “Un momentito, señor” è il segnale: Eichmann viene immobilizzato e caricato sull’auto, nonostante la resistenza opposta. Dopo di che viene drogato e portato in un luogo segreto, in attesa del volo che lo avrebbe condotto ad affrontare il suo processo a Gerusalemme.
Eichmann processato a Gerusalemme
Il processo ad Eichmann inizia nell’aprile 1961 e si conclude con la sua condanna a morte per impiccagione, avvenuta il 31 maggio 1962. Le udienze vengono trasmesse pubblicamente in diversi paesi e vengono seguite da una folta delegazione di giornalisti internazionali. Per la prima volta vi è la possibilità di comunicare al mondo intero gli orrori avvenuti durante la Seconda guerra mondiale, in particolare ai danni del popolo ebraico.
A questo proposito, si genera un dibattito riguardo allo scopo ultimo del processo: da una parte i giudici e la corte che hanno il dovere di giudicare le azioni dell’imputato e il loro compito è semplicemente quello di emettere una sentenza, dall’altro il governo di David Ben Gurion – rappresentato dal pubblico ministero Gideon Hausner – che vuole dare all’evento un taglio più ideologico.
In particolare, nelle intenzioni del governo, il processo dovrebbe servire a impartire delle lezioni morali. La prima è destinata al mondo non ebraico per fargli sapere come milioni di individui siano stati uccisi per il solo motivo di essere nati ebrei; la seconda è per gli ebrei della diaspora al fine di dimostrare come l’esistenza di uno stato ebraico sia l’unica soluzione ai millenni di costante persecuzione; la terza è per le giovani generazioni di israeliani affinché non dimentichino quello che è successo in Europa. Infine, l’ultima lezione morale è diretta agli stati arabi – che in passato avevano simpatizzato per i nazisti.
Anche l’opinione pubblica si divide fra coloro che vogliono che il processo sia una dimostrazione di giustizia – gli ebrei che giudicano il loro carnefice di fronte agli occhi del mondo – e coloro che invece criticano una simile spettacolarizzazione. In quest’ultimo schieramento vi è Hannah Arendt, politologa di origini ebraiche, che segue il processo per il settimanale New Yorker e che in seguito ai fatti formulerà la sua famosa tesi sulla “banalità del male”.
La Arendt pensa che le lezioni morali volute dal governo israeliano siano ormai prive di senso ed è come se si stesse mettendo alla sbarra non il singolo imputato ma l’intera ideologia antisemita nazista. I fatti della Seconda guerra mondiale sono già venuti alla luce, e di certo gli ebrei della diaspora non hanno bisogno di questo processo per rendersi conto delle discriminazioni subite. Per quanto riguarda gli stati arabi, è evidente come ci siano delle motivazioni politiche dietro alla morale di Ben Gurion, allo scopo di legittimare lo stato d’Israele.
Passando all’imputato, egli viene difeso dall’avvocato di Colonia Robert Servatius, che per l’occasione viene pagato dal governo israeliano – così come stabilito dal precedente di Norimberga, in cui i difensori degli imputati sono stati pagati dal tribunale dei vincitori.
La strategia della difesa si mantiene sulla seguente linea: Eichmann dice di non odiare gli ebrei e ammette soltanto la responsabilità di avere eseguito degli ordini ai quali non poteva sottrarsi. Secondo la difesa, si è trattato di azioni di stato piuttosto che di crimini, che un soldato qualsiasi avrebbe dovuto compiere durante una guerra.
Il trailer di Operation Finale
La banalità del male
“Un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi.”
Così lo definisce la Arendt assistendo al processo. Eichmann offre di sé stesso un’immagine quasi sommessa, che non ci fa pensare a un mostro disumano. Egli non nega ciò che ha compiuto ma sembra minimizzare le sue responsabilità, dandoci l’impressione che sia stato solo un burocrate che eseguiva delle istruzioni, un ingranaggio all’interno di una macchina più grande e complessa.
Eichmann sostiene di non aver mai dato nessun ordine diretto di uccidere qualcuno. L’atteggiamento che ne traspare è quello di un uomo ligio alla legge – non dimentichiamoci che nella società nazista gli ordini di Hitler avevano valore di vere e proprie leggi.
L’analisi della Arendt prosegue sottolineando l’incoerenza dell’imputato. Eichmann dice di non odiare gli ebrei, ma allo stesso tempo non mostra alcun rimorso nei confronti dell’ideologia razzista del Terzo Reich né verso le sue concrete e criminali applicazioni. Durante la guerra egli si attribuisce la paternità della creazione dei ghetti così come dell’idea di trasferire tutti ebrei europei in Madagascar; tuttavia al processo ammette di non essere stato lui l’autore del piano segreto sul Madagascar.
Si tratta dunque di un’attribuzione fatta per esaltare sé stesso, di una “vanteria” – come dice la Arendt. Inoltre, egli ripete alla corte di non volersi sottrarre alle sue responsabilità, tanto meno implorare pietà. Salvo poi scrivere di propria mano una richiesta di grazia, probabilmente su consiglio dell’avvocato.
La figura di Eichmann ha suscitato reazioni opposte: c’è chi, come Hannah Arendt, lo giudica come un grigio burocrate, pronto a obbedire a qualsiasi ordine dei suoi superiori; poi ci sono alcuni sopravvissuti che invece lo descrivono come un uomo spietato – dello stesso parere anche Claude Lanzmann, regista francese e autore del documentario Shoah, opera fondamentale sul tema.
Per concludere, chiunque potrebbe essere un Eichmann, è questa la tesi della Arendt racchiusa nella frase “la banalità del male”. Ossia, non sempre il male si nasconde dietro a un mostro spietato bensì molto spesso assume i panni di una persona qualunque, ordinaria.
Eichmann è una persona perfettamente “normale” all’interno della società nazista e non s’interroga riguardo alla natura e alle conseguenze delle sue azioni: un monito nei confronti della realtà totalitaria, dove tutto è al servizio dello Stato e dove la persona perde la sua capacità di pensare.
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- Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli,1964.