CONTENUTO
Dall’operazione “Wacht am Rhein” a “Herbstnebel“: il piano di Hitler per l’offensiva delle Ardenne
Nell’autunno del 1944 il Terzo Reich è ormai circondato dai nemici: a est i sovietici sono arrivati sulla Vistola, in Polonia, e si preparano a lanciare un’altra grande offensiva; a ovest, gli Alleati hanno ormai raggiunto le rive del Reno, confine naturale della Germania. Sul fronte occidentale, sebbene con difficoltà e a costo di numerose perdite, i tedeschi sono riusciti ad arrestare l’avanzata nemica, frustrando le ambizioni degli Alleati, grazie a una serie di sanguinose battaglie difensive lungo il cosiddetto Westwall o Linea Sigfrido, la linea fortificata posta a difesa dei confini occidentali della Germania.
Gli alti comandi anglo-americani, nonostante la pausa forzata impedisca loro di portare a termine la guerra entro Natale, sono del tutto convinti dell’impossibilità per i tedeschi di intraprendere azioni offensive. Pensano che i tedeschi non ne abbiano la forza né l’intenzione: il comandante tedesco del fronte occidentale (OB West), il feldmaresciallo Gerd von Rundstedt, è ritenuto un uomo prudente e conservativo, un abile stratega difensivo, ma gli Alleati ne sopravvalutano il peso e l’influenza.
È infatti Adolf Hitler, attraverso i suoi esecutori Wilhelm Keitel e Alfred Jodl, rispettivamente capo supremo e capo di Stato maggiore dell’Oberkommando der Wehrmacht (OKW, Alto comando delle forze armate tedesche), a decidere le azioni da intraprendere su tutti i fronti. Dopo l’attentato del 20 luglio 1944, ordito proprio da un gruppo di ufficiali dell’esercito, Hitler è diventato sempre più diffidente nei confronti della “vecchia guardia prussiana” e si circonda solo dei suoi fedelissimi.
Il Führer è agitato, sospettoso, visibilmente malato, ai limiti della paranoia, ma non per questo meno determinato. Ha in mente un piano, una massiccia controffensiva, e non dà ascolto a chi gli consiglia prudenza (1). Il 16 settembre 1944 riunisce quindi alla Wolfsschanze, il suo quartier generale (2), Keitel, Jodl e Guderian, gli unici di cui si fida, ed espone loro le sue intenzioni.
L’idea di Hitler è quella di ripetere il colpo geniale sferrato contro la Francia nella primavera del 1940, sfondando nel settore più debole del fronte nemico e tagliandone in due lo schieramento.
Come quattro anni prima, non a caso, il punto debole degli Alleati è nuovamente localizzato nelle Ardenne, una regione collinare fitta di boschi che si estende tra il Belgio, la Germania e il Lussemburgo. Si tratta di una zona ardua da attraversare, lungo un fronte di oltre 100 km, che però è mal presidiato, da truppe perlopiù statunitensi ritenute quantitativamente e qualitativamente inferiori a quelle tedesche.
Approfittando del maltempo previsto nel tardo autunno del 1944 (che avrebbe impedito agli Alleati di contare sulla loro preponderante superiorità aerea) e del fattore sorpresa, le armate tedesche devono attraversare le Ardenne, raggiungere il fiume Mosa (100 km verso ovest) e poi piegare verso nord, su Anversa (200 km circa dal fronte): il porto della città belga è talmente importante per lo sforzo bellico degli Alleati, che riconquistarlo, nella mente di Hitler, avrebbe pregiudicato la tenuta dell’intero fronte occidentale, provocando una “seconda Dunkerque” e ribaltando le sorti della guerra. O almeno, questo è ciò di cui Hitler è assolutamente convinto.
Più incerti sono i suoi generali. Gerd von Rundstedt, il settantenne comandante dell’OB West, sotto il cui comando si sarebbe dovuta svolgere l’operazione, quando viene a sapere del piano afferma:
«Anversa? Se dovessimo raggiungere anche solo la Mosa dovremmo inginocchiarci e ringraziare Dio» (3).
Anche il feldmaresciallo Walter Model, comandante del gruppo d’armate B, artefice dell’efficace strategia difensiva attuata in quei mesi, pur ammettendo la possibilità di lanciare un contrattacco, propone a Hitler una “piccola soluzione”, un’offensiva minore, per intrappolare un consistente numero di divisioni americane, ma viene ignorato.
Hitler, con l’aiuto del solo Jodl, dirige quindi personalmente i preparativi per la sua “grande soluzione”, il cui piano operativo è pronto già in ottobre. Inizialmente il piano prende il nome di “Christrose“, ma viene quasi subito cambiato in “Wacht am Rhein” (“Guardia sul Reno”), un nome che lascia volutamente intendere tutt’altro rispetto alle reali intenzioni dei tedeschi (4).
L’operazione, prevista per fine novembre, prevede l’impiego di tre armate, per un totale di 12 divisioni di fanteria e di 18 divisioni corazzate e si regge su due fattori fondamentali: l’effetto sorpresa e il maltempo, ovvero due condizioni alquanto aleatorie, specie la seconda.
Per garantire quantomeno la prima condizione, l’effetto sorpresa, i preparativi procedono in gran segreto: Keitel, certo di essere intercettato dallo spionaggio alleato, diffonde un falso ordine a tutti i comandanti del fronte occidentale, comunicando l’impossibilità di intraprendere azioni offensive, mentre Hitler affida all’ufficiale delle SS Otto Skorzeny (5) l’operazione “Greif“ (lett. “grifone”).
Abilmente dirette, squadre di soldati tedeschi che parlano fluentemente inglese e con indosso uniformi americane vengono infiltrate dietro le linee statunitensi per creare scompiglio, attraverso la diffusione di ordini falsi e vari sabotaggi. L’operazione è un successo, molte unità americane vanno nel panico e al momento dell’attacco tedesco saranno ancora in preda a una gran confusione.
Nel frattempo numerose divisioni corazzate, tra cui molte unità ritirate dal fronte orientale, affluiscono in maniera sempre più massiccia a ridosso delle Ardenne, nella zona compresa tra il Westwall e i fiumi Reno e Mosella. I soldati e i carri armati della Wehrmacht avanzano solo di notte, con il favore delle tenebre, lontano dalle strade, al riparo della fitta vegetazione.
L’artiglieria e le unità corazzate vengono poi rifornite di circa 15.000 tonnellate di munizioni e di 14 milioni di litri di carburante, sufficienti a coprire il fabbisogno dei carri armati per circa 150 km di avanzata, almeno sulla carta. Si tratta di uno sforzo logistico immane, che non passa del tutto inosservato, ma che viene efficacemente mascherato, con buona pace degli Alleati, convinti che si tratti di manovre esclusivamente difensive.
A fine novembre è tutto pronto, ma è necessario rinviare l’inizio dell’operazione, che intanto ha mutato nome nell’ancor più enigmatico “Herbstnebel” (“nebbia d’autunno”). Gli Alleati infatti premono su Aquisgrana (a nord delle Ardenne) ed è necessario respingerli. Inoltre le condizioni metereologiche sono ancora buone, garantendo al nemico la copertura dall’alto. Bisogna dunque aspettare il maltempo, che giunge provvidenzialmente a metà dicembre.
La notte del 15 dicembre 1944, 250.000 soldati, migliaia di carri armati e mezzi motorizzati, 350 aerei, fra cui i nuovi caccia a reazione Me-262 (6), sono pronti a entrare in azione. La fanteria tedesca è ben armata, ed è stata appena riorganizzata nelle Volksgrenadier Division, formate da giovanissimi reclute e da veterani più esperti richiamati o trasferiti da altri reparti.
Le divisioni corazzate, sono infine dotate di 200 Tiger I e 45 Tiger II, i nuovi carri pesanti da quasi 70 tonnellate, armati con un cannone da 88mm, ben più micidiali degli omologhi tank statunitensi (7). Il morale, nonostante la difficile situazione in cui versa la Germania, è alto. I giovani soldati della Wehrmacht sono spinti da un profondo senso patriottico, dal loro successo infatti dipendono le sorti della Germania.
La “sindrome del vincitore”: la situazione degli Alleati
Per comprendere come fu possibile per i tedeschi, sul finire del 1944, organizzare una tale controffensiva e metterla effettivamente in atto, è necessario soffermarsi brevemente sulla situazione in campo alleato.
Pressati da Iosif Stalin, che chiedeva l’apertura di un secondo fronte ormai da tempo, gli Alleati sbarcano in Normandia, nel nord della Francia, nel giugno del 1944. L’avanzata è relativamente rapida e determinante: il 25 agosto Parigi viene liberata, mentre nella battaglia della sacca di Falaise, i tedeschi in ritirata lasciano 10.000 morti e almeno 50.000 prigionieri. Gli Alleati intanto sono sbarcati anche nel sud.
A fine estate la Francia è libera. Presi dall’euforia della vittoria, in settembre, gli anglo-americani (a cui vanno sommati cospicui contingenti canadesi, francesi e polacchi) lanciano un’avventata offensiva con truppe aviotrasportate in Olanda, oltre la foce del Reno (operazione Market Garden), ma l’attacco si risolve in un nulla di fatto e in gravi perdite.
I tedeschi ripiegano con efficienza, e tengono duro lungo tutto il Westwall, una linea fortificata che si estende dall’Olanda alle Svizzera. La rapida guerra di movimento si trasforma ben presto in una guerra d’attrito, non troppo diversa da quella combattuta, sempre fra americani e tedeschi, tra il 1917 e il 1918. Il fronte e i luoghi delle battaglie, per ironia della sorte, sono gli stessi.
Giunto l’autunno, i vari tentativi di sfondamento, portati avanti dagli Alleati si infrangono contro la resistenza della Wehrmacht e gli effetti delle numerose perdite iniziano a farsi sentire: nella foresta di Hürtgen, teatro di scontri durissimi, ad esempio, gli americani arriveranno a perdere oltre 30.000 uomini. A dicembre, quando iniziano a cadere le prime nevicate, è ormai chiaro che a differenza di quanto sperato e previsto da tanti ufficiali alleati, la guerra non finirà per Natale.
Nonostante ciò gli Alleati sono fermamente convinti di essere ormai a un passo dalla vittoria e autoalimentano questa convinzione con un eccesso di superbia e con una certa supponenza, dettata dalla netta superiorità in termini di uomini, mezzi e risorse di cui dispongono.
È proprio questo malcelato senso di sicurezza, che induce gli Alleati a sottovalutare le intenzioni del nemico e non di un nemico qualsiasi: Adolf Hitler è alle corde, è vero, ma un pugile all’angolo è ancora più temibile, poiché è disposto a giocarsi il tutto per tutto. La Germania inoltre, nonostante le difficoltà, nel 1944 dispone ancora di un potenziale bellico temibile.
Le mosse tedesche di fine novembre, pur non passando del tutto inosservate, vengono tuttavia derubricate dal capo dell’intelligence alleata, il maggior generale Kenneth Strong, a semplici manovre difensive. Strong non è però l’unico responsabile: la stragrande maggioranza degli ufficiali inglesi e americani pensa di avere un tale predominio sulla campagna in corso, da non prendere minimamente in considerazione l’ipotesi di una controffensiva tedesca (8).
A queste osservazioni di natura strategica, vanno poi sommate questioni di carattere più strettamente militare. Innanzitutto, bisogna tenere conto della difficoltà per la macchina logistica alleata, di rifornire un esercito di dimensioni vaste e altamente specializzato, bisognoso di una gran quantità di viveri, beni di conforto, munizioni, mezzi motorizzati, pezzi di ricambio.
Senza una massiccia copertura dell’artiglieria e dei reparti corazzati, gli americani non attaccano, gli inglesi (che si occupano del settore nord, in Olanda) rimangono ancor più inattivi e non avanzano. La conquista di Anversa, con il suo grande porto, ha sicuramente contribuito a risolvere parzialmente il problema, ma non riesce a ridare slancio all’offensiva contro la Germania. C’è quindi una necessità effettiva di fermarsi, almeno durante l’inverno, per riorganizzare e rifornire le forze, in vista dell’offensiva finale.
C’è poi da considerare il fattore umano: il grosso delle truppe alleate è ininterrottamente al fronte da giugno e molti reparti versano in condizioni disastrose. Sarebbe necessario un ricambio, ma le unità americane che giungono in Europa, sono costituite da giovani reclute, ancora inesperte, mentre gli inglesi, in guerra già da cinque anni, devono grattare il fondo del barile.
A danneggiare ancor di più il morale arriva il maltempo. Prima la pioggia, poi la neve e il gelo, rendono invivibili le trincee e le buche. Le cattive condizioni metereologiche, inoltre, impediscono ai mezzi, impantanati nel fango, di muoversi con rapidità, per non parlare della nebbia che costringe a terra i caccia e i bombardieri della RAF e dell’USAF, il cui peso in battaglia è determinante.
L’11 novembre, il generale Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa, scrive al generale Marshall dal relativo confort del suo quartier generale: «Caro generale, sono sempre più stanco di questa pioggia». (9).
Figurarsi dunque come possono passarsela i soldati nelle buche colme di fango: fradici fino al midollo, senza vestiti asciutti per settimane. Il piede da trincea, una condizione invalidante aggravata dalla scarsa igiene, è ormai endemico, così come la dissenteria. Con l’inverno i morti (o chi perderà un arto) per congelamento saranno numerosi. Queste condizioni sono comuni ovviamente anche fra i soldati tedeschi, che anzi, in quanto a vitto, alloggio e vestiario se la passano decisamente peggio.
A metà dicembre, completamente ignari dell’imminente azione tedesca, Bernard Montgomery, comandante delle forze britanniche e canadesi, e Eisenhower hanno un curioso scambio epistolare in cui il generale inglese ricorda al suo superiore americano della scommessa fatta tempo addietro circa la fine della guerra entro Natale. Montgomery allega alla sua lettera un conto di cinque sterline, ma “Ike” risponde stizzito:
«Ho ancora nove giorni, e anche se sembra quasi certo che per Natale avrete altre cinque sterline, è certo che non le avrete prima di quel giorno» (10).
I rapporti fra Eisenhower e “Monty”, e fra quest’ultimo e gli altri generali americani, non sono infatti dei migliori. In generale, inglesi e americani, pur in un clima tutto sommato sereno, non sono infatti estranei a inimicizie e rancori reciproci.
Ormai rassegnati all’idea di riprendere l’offensiva dopo le festività del 1944, gli Alleati iniziano a predisporre le loro armate nei punti di più facile accesso alla Germania. Nelle Ardenne, regione impervia, fatta di boschi fitti e quasi impenetrabili, viene lasciata come presidio la sola 1ª armata americana, comandata dal generale Courtney Hodges, e costituita da unità a riposo o di recente costituzione. D’altronde in questo settore è impossibile pensare di avanzare ulteriormente.
Per gli alti comandi alleati è meglio puntare su Colonia, più a nord, e sulla regione della Ruhr, più a sud, ed è su queste due direttrici che concentrano il grosso delle loro forze. Inoltre, pensano, se mai i tedeschi dovessero contrattaccare, lo faranno lungo le suddette direttrici e non di certo nella zona delle Ardenne: sarebbe innanzitutto inutile, in secondo luogo comporterebbe uno sforzo tale da non passare sicuramente inosservato.
Gli Alleati in sostanza, ripetono lo stesso errore che è costato loro molto caro nel maggio del 1940: sottovalutare i tedeschi e sottovalutare proprio il settore delle Ardenne, dove quattro anni prima le divisioni corazzate della Wehrmacht sono penetrate come un coltello nel burro.
Per l’intero autunno, i servizi d’informazione della 1ª armata di Hodges ignorano quindi tutti i segnali circa l’imminente offensiva. Molti tedeschi catturati in quelle settimane, interrogati, parlano di un grosso attacco previsto prima di Natale, ma queste informazioni vengono derubricate come mero allarmismo. A rendere ancor più confusa la situazione arriva poi la già citata operazione Grifone, portata avanti da soldati tedeschi camuffati da americani.
Troppo impegnati a dar la caccia ai sabotatori, a presunti quanto inesistenti commandos inviati dietro le linee dai tedeschi per uccidere Eisenhower, i servizi d’informazione e gli ufficiali americani perdono di vista quanto sta realmente accadendo: il rischio di un vero disastro è infatti dietro l’angolo (11).
“Battle of the Bulge“: la breccia nel fronte alleato (12)
Quando il 15 dicembre 1944 scende la sera, quello delle Ardenne è il settore più tranquillo dell’intero fronte. La notte è gelida. Gli alberi e i tetti dei paesi del Belgio sono coperti da una spessa coltre di neve. I boschi sono insolitamente silenziosi. È la calma prima della tempesta.
All’alba del 16 dicembre 1944, un pesante bombardamento d’artiglieria, precede l’avanzata delle truppe tedesche, lungo un fronte di quasi 100 km. Gli ufficiali americani, Hodges e il generale Bradley (comandante del settore), dormono intanto tranquilli: pensano si tratti di un semplice sbarramento difensivo, non di un attacco in piena regola.
Il piano tedesco prevede un’avanzata su tre direttrici: a nord, alla 6ª armata corazzata delle SS del generale ‘Sepp’ Dietrich è affidato il compito principale, ovvero quello di sfondare le linee americane e di puntare rapidamente la Mosa, attraversarla all’altezza di Liegi e di lì piegare verso nord su Anversa. Forte di 4 divisioni corazzate delle Waffen-SS e di altre cinque di fanteria, Dietrich ha di fronte la 99ª divisione di fanteria statunitense, schierata lungo un fronte di 30 km: troppo per una singola unità.
Colta di sorpresa, sotto dimensionata (con quasi mille perdite subite da novembre) e costituita da ufficiali e soldati di leva, la 99ª, rinforzata dal resto del V corpo del generale Gerow, sopraggiunto da nord, inaspettatamente oppone ai tedeschi un’accanita resistenza. Abbastanza da rallentare l’avanzata e impedire lo sfondamento in un settore cruciale. Per le SS, considerate l’élite dell’esercito tedesco, è un colpo durissimo. Già il 20 dicembre, deluso proprio dalle sue migliori unità, Hitler trasferisce il ruolo principale dell’operazione alla armata di Manteuffel, schierata al centro.
Su questo settore, situato nella regione dello Schnee Eifel (una serie di valli innevate, ricoperte da una fitta foresta), difeso dalla 106ª divisione e dal XVI gruppo di cavalleria, si abbatte la 5ª armata corazzata del generale Hasso von Manteuffel, che riesce a sfondare e a penetrare in profondità. Le unità americane sono travolte e ripiegano, ma combattono intensamente, mentre anche i tedeschi perdono molti uomini:
«Le perdite tedesche erano catastrofiche. […] la fanteria tedesca avanzava, marciando in mezzo alla strada […] senza appoggio corazzato. I soldati tedeschi sapevano a malapena marciare o sparare e non conoscevano niente della tattica della fanteria […] le divisioni di Volksgrenadier non erano capaci di azioni efficaci […] Tuttavia si erano trovati ad attaccare americani diciottenni addestrati alla bell’e meglio» (13).
Obiettivo di Manteuffel sono i fondamentali nodi stradali di St. Vith e Bastogne. La battaglia è da subito intensa: sul fianco destro, quattro divisioni tedesche circondano due reggimenti della 106ª divisione americana, catturando oltre 8.000 soldati, in quella che gli stessi americani ammettono essere la più grande disfatta subita nel teatro europeo durante la Seconda guerra mondiale (14); sul fianco sinistro, il LVII corpo corazzato passa il fiume Our e punta su Houffalize, in direzione della Mosa, mentre ancora più a sud, il XLVII corpo corazzato si dirige invece verso Bastogne.
Nel terzo e ultimo settore dell’offensiva, quello meridionale, è invece schierata la 7ª armata del generale Brandenberger, con il compito di coprire il fianco sinistro di Manteuffel. Passato il fiume Our, le divisioni di fanteria tedesche avanzano di pochi chilometri e si imbattono ben presto nella dura resistenza opposta dalla 9ª divisione corazzata americana e dalla 4ª divisione di fanteria. Già il 19 dicembre, l’attacco in questo settore è inevitabilmente compromesso: da sud sta infatti giungendo la 3ª armata del generale George Patton, inviata a chiudere la falla nelle Ardenne.
Il 17 dicembre intanto, con le unità americane ancora in preda al panico, la 1ª divisione corazzata delle SS si lancia nel varco lasciato aperto dal nemico. Forte di oltre 20.000 uomini e 250 carri, fra cui molti Tiger I e II, a guidare l’incursione è la colonna del tenente colonnello Joachim Peiper. Questi, che comanda personalmente quasi 100 carri armati, pensa di giungere indisturbato a Huy e di lì passare la Mosa, ma quando mancano ancora 70 km, nei pressi di Stavelot, i rinforzi americani riescono a bloccarlo e a tagliarlo fuori.
Le SS di Peiper, nella loro marcia verso la Mosa, si macchieranno di numerosi crimini contro i prigionieri americani e contro i civili belgi, ma non riusciranno nel loro intento intento di raggiungere la Mosa: finito il carburante, abbandonati i mezzi corazzati, entro il 26 dicembre Peiper e i suoi uomini saranno infatti costretti a ritirarsi a piedi.
I primi giorni dell’offensiva dunque segnano un parziale successo tattico per i tedeschi: oltre allo sfondamento di Peiper, soprattutto al centro, l’avanzata prosegue e gli americani si ritirano in preda a una gran confusione. Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto nel 1940, quando dinanzi alla Blitzkrieg (“guerra lampo”) dei tedeschi i francesi si arrendono senza opporre resistenza, stavolta i numeri e il tempo giocano a favore degli Alleati.
Già il 17 dicembre, oltre 10.000 camion trasportano oltre 60.000 uomini nelle Ardenne e nel giro di una settimana Eisenhower riesce a portare oltre 250.000 soldati nel teatro delle operazioni (15). I tedeschi inoltre, come ampiamente preventivato da molti ufficiali, von Rundstedt e Model su tutti, non hanno risorse sufficienti a portare avanti il loro sforzo offensivo, che è quindi destinato ad arenarsi. Hitler però non demorde e neppure molti soldati. L’ordine del Führer è solo uno «avanzare, avanzare, avanzare».
“Andate al diavolo!”: la resistenza della 101ª a Bastogne
Nel settore centrale, gli attacchi lungo la direttrice di St. Vith e di Bastogne proseguono senza sosta e il 18 dicembre i tedeschi passano vittoriosi oltre lo Schnee Eifel. Due divisioni corazzate si gettano quindi contro le difese di Bastogne, ma i reparti del genio americano rallentano l’avanzata tedesca con una serie di blocchi stradali, abbastanza a lungo da permettere alla 101ª divisione aviotrasportata di giungere via terra nella piccola città belga, il 19 dicembre, nel momento cruciale della battaglia. Le unità corazzate tedesche che non riescono a prendere Bastogne d’assalto, passano oltre, lasciando a una divisione di fanteria il compito di assediare le unità americane rimaste isolate.
Eisenhower e gli ufficiali sotto il suo comando hanno intanto preso le contromisure necessarie per arginare la “breccia” (in inglese “bulge“) apertasi nello schieramento alleato. “Ike” affida a Montgomery la 1ª e la 9ª armata USA, con il compito di stabilizzare il fronte e impedire ai tedeschi di raggiungere la Mosa per poi passare al contrattacco. Per precauzione i ponti sul fiume, presidiati da 4 divisioni inglesi, vengono comunque minati.
Nel settore meridionale, sul fianco destro alleato, invece, il generale George Patton con la sua 3ª armata, impegnato nell’avanzata verso est, ha già compiuto un’inversione a 90° verso nord (un capolavoro tattico e logistico) per raggiungere quanto prima Bastogne e spezzarne l’assedio.
È proprio a Bastogne, infatti, che si decidono le sorti della campagna. Prendere questo piccolo ma fondamentale snodo stradale, permetterebbe infatti ai tedeschi di garantirsi un caposaldo nel varco aperto nello schieramento alleato, per continuare la loro avanzata verso la Mosa. Ma mentre le unità corazzate si spingono oltre, la fanteria tedesca non riesce ad avere ragione dell’accanita resistenza dei paracadutisti americani.
Nella cittadina assediata la situazione è intanto sempre più critica: i soldati americani, circa 15.000, sono senza rifornimenti da giorni: mancano munizioni, cibo, medicine. Il cielo è ancora coperto, dall’alto non arriverà alcun supporto. I tedeschi spingono sempre più intensamente, ma il comandante della 101ª, il generale di brigata Anthony C. McAuliffe è bravo a gestire i pochi mezzi a disposizione e a indirizzare con successo il fuoco dell’artiglieria.
I suoi uomini intanto stanno dando una prova di gran coraggio e tenacia. Nelle gelide foreste intorno a Bastogne, senza cappotti invernali poiché trasferiti al fronte in fretta e furia, con pochi proiettili, senza mangiare per giorni, le Screaming Eagles (lett. “aquile urlanti”, soprannome che deriva dal simbolo dell’unità) scrivono una delle pagine più eroiche della storia dell’esercito americano. Non a caso, ancora oggi, i parà della 101ª sono fra le unità statunitensi più note e stimate.
Il 22 dicembre succede un fatto curioso. Una pattuglia tedesca alza bandiera bianca, si avvicina alle linee americane e consegna un messaggio: il generale von Lüttwitz, a capo del corpo d’armata che sta assediando Bastogne, invita gli americani ad arrendersi. D’altronde la situazione delle truppe americane è disperata. I prigionieri, assicura l’ufficiale tedesco, saranno trattati con rispetto.
La risposta scritta che il generale McAuliffe fa recapitare ai tedeschi è destinata a finire negli annali: «Nuts!» scrive McAuliffe, parola che letteralmente significa “noci”, ma che è traducibile anche con “balle” (nel senso lato di “fottetevi”), e che viene tradotto ai tedeschi con il più comprensibile «Andate al diavolo!» (16).
Il giorno seguente, il 23 dicembre, il cielo torna sereno e le truppe americane vengono rifornite dall’alto. I caccia inoltre, possono ora fornire supporto immediato agli uomini a terra. Nonostante ciò, il 24 dicembre, vigilia di Natale, i tedeschi sembrano sul punto di chiudere la loro morsa su Bastogne. La notte di Natale va in scena un poderoso attacco, ma anche questa volta le incursioni tedesche vengono respinte: anche le truppe di Lüttwitz si battono con valore, spinte dall’orgoglio patriottico, ma hanno esaurito le energie e dal cielo sta per abbattersi su di loro una tempesta di bombe e proiettili.
Il 26 dicembre, mentre in cielo rombano i motori dei caccia alleati, finalmente giunge la 4ª divisione corazzata americana. Il generale George Patton l’ha spinta avanti, esortandola a fare presto, trasmettendo ai suoi uomini tutto il suo entusiasmo. I carri armati Sherman (M4-A1) e i cacciacarri Jackson (M-36), danno quindi vita a un poderoso scontro con i Panther (Panzer V) e i Tiger dei tedeschi, che di contro si battono con determinazione.
A impegnare gli uomini di Patton sono in particolare gli irriducibili Fallschirmjäger (lett. “cacciatori con paracadute”), gli omologhi dei “diavoli verdi” che hanno impensierito a lungo gli Alleati nella battaglia di Cassino: annidati nelle case, tra gli alberi, essi oppongono una strenua quanto disperata resistenza. A fine giornata, dopo un combattimento durissimo, i primi carri della 4ª divisione raggiungono il perimetro difensivo della città e si ricongiungono con la 101ª. Progressivamente il resto della terza armata di Patton, a cui la 4ª divisione corazzata ha aperto la strada, si apre un varco da sud e spezza l’assedio: la battaglia di Bastogne è vinta.
La falla si chiude: la controffensiva alleata
Mentre gli uomini della 3ª armata si battono per salvare Bastogne, più a nord, gli Alleati bloccano definitivamente anche l’incursione di Peiper e della 1ª divisione corazzata delle SS. Hitler ordina allora a Dietrich e alla 6ª armata di convergere verso sud e di dare manforte a Manteuffel, che con le sue divisioni corazzate continua a spingere verso ovest, verso la Mosa. Tuttavia, le difese americane, dopo la sorpresa iniziale, sono ormai consolidate, e dal cielo sereno i cacciabombardieri alleati iniziano a “banchettare” con i panzer tedeschi rimasti senza carburante e privi di copertura.
I tedeschi sono ormai battuti e le divisioni alleate riguadagnano il terreno perso, chiudendo la falla da nord, con le armate di Montgomery (la 1ª e la 9ª americane) e da sud, con la 3ª armata di Patton. L’offensiva è fallita, ma Hitler non vuole ammetterlo e insiste che si continui ad avanzare. Manteuffel osserverà in seguito con amarezza:
«[…] telefonai a Jodl e gli chiesi di riferire al Führer che stavo per ritirare le mie forze […] Ma Hitler pose il veto a questo passo indietro. Così invece di attuare un ordinato e tempestivo ripiegamento, fummo costretti ad arretrare metro dopo metro sotto la pressione degli attacchi alleati […] per noi significò la rovina» (17).
Dello stesso avviso sarà, von Rundstedt, comandante del fronte occidentale, fin dall’inizio contrario all’offensiva delle Ardenne:
«Io avrei voluto arrestare prima l’offensiva, quando apparve chiaro che non avrebbe potuto conseguire prima il suo obiettivo; ma Hitler insistette furiosamente che si doveva andare avanti. Fu una seconda Stalingrado» (18).
Il 16 gennaio, le due direttrici dell’avanzata alleata, rallentate da una spessa coltre di neve, si incontrano a Houffalize, nel cuore delle Ardenne. La falla, “the bulge” come la chiameranno gli anglo-americani, è chiusa. Herbstnebel è fallita.
Bilanci e conseguenze dell’offensiva delle Ardenne
Esponendosi avventatamente a un contrattacco nelle Ardenne, ignorando tutte le avvisaglie circa l’imminenza di una siffatta operazione e convincendosi che l’attacco fosse la miglior difesa possibile, nel dicembre 1944 gli Alleati hanno rischiato davvero di subire un grave disastro.
Eisenhower e i suoi sottoposti, Bradley, Montgomery, ma soprattutto il generale Patton, sono però davvero abili a reagire con estrema prontezza, usando il massimo della potenza disponibile. Se all’inizio dell’offensiva tedesca gli Alleati schierano poco più di 100.000 uomini, contro 350.000 tedeschi, nel momento decisivo della battaglia, nelle Ardenne confluiranno ben 800.000 soldati e oltre 3.000 mezzi corazzati: una marea di truppe fresche e carri armati, contro le stanche e logorate divisioni tedesche, che sono costrette a ritirarsi, lasciando sul campo 80.000 uomini fra morti, dispersi e feriti.
Anche gli americani se la sono vista molto brutta. I morti sono quasi 20.000, 47.000 i feriti, oltre 20.000 i dispersi e i prigionieri. La battaglia delle Ardenne, combattuta in mezzo a fitte nevicate, durante un inverno gelido, da soldati giovanissimi, inesperti, è stata un’ecatombe per entrambi gli schieramenti. Per vincere la guerra, Germania e Stati Uniti hanno chiesto uno sforzo immane ai loro figli: molti soldati tedeschi, ma anche tanti americani, non sono neppure maggiorenni (19).
La battaglia combattuta dagli Alleati nel dicembre del 1944 è stata un trionfo militare, tuttavia, si porta dietro una pesante eredità. Mentre prima sono ossessionati dall’idea di avanzare, al punto da trascurare la difesa e rischiare un clamoroso rovescio, dopo le Ardenne, Eisenhower e molti dei suoi ufficiali inizieranno a esercitare una cautela a tratti eccessiva. La paura di nuove controffensive, l’attenzione a non scoprirsi troppo, l’ansia di andare nuovamente incontro a perdite significative, rallenteranno significativamente le successive operazioni, impedendo di fatto agli Alleati di giungere per primi a Berlino (20).
Per i tedeschi, invece, le Ardenne rappresentano un ultimo quanto disperato tentativo di indirizzare diversamente quello che ormai appare a tutti come un esito scontato. La Germania ha perso la guerra. Hitler ha perso la guerra. Non l’ha persa ovviamente nelle Ardenne, ma d’ora in avanti è solo una questione di tempo. Nel gennaio 1945, a est, i sovietici lanciano la loro offensiva oltre la Vistola e nel giro di un mese raggiungono l’Oder (meno di 100 km da Berlino), mentre gli Alleati sono ancora impantanati sul Reno.
Se Herbstnebel ebbe una conseguenza importante, questa fu sicuramente l’aver ritardato a lungo gli Alleati e aver sottratto forze vitali dal fronte orientale, consegnando definitivamente Berlino alle truppe di Stalin (21). Il colpo di coda nelle Ardenne, geniale sulla carta, impossibile però da realizzare, non ribalta le sorti del conflitto, ma forse ne accelera la conclusione. A farne le spese sarebbero stati ora milioni di cittadini del Reich.
Note
(1) Non è un caso che a partire dal 1944, il ruolo delle SS (Schutzstaffel) e dei pochi generali che godono della fiducia di Hitler si faccia sempre più preponderante. Cfr. J. R. Arnold, Ardennes 1944, Hitler’s last gamble in the West, Osprey, London, 1990.
(2) La celebre “Tana del lupo” (Wolfsschanze in tedesco) è il quartier generale di Hitler nella Prussia orientale. Si tratta di un complesso di strutture e bunker, nel mezzo di una foresta, teatro nel luglio del 1944 del fallito attentato ai danni del dittatore.
(3) J. R. Arnold, Ardennes 1944, op. cit., p. 5.
(4) O. Hans Dieter, Gli errori militari che hanno cambiato la storia, Newton&Compton, Roma, 2014, p. 190.
(5) Skorzeny, considerato dagli inglesi “l’uomo più pericoloso d’Europa”, è già stato artefice della spettacolare liberazione di Mussolini dal Gran Sasso nel settembre del 1943 (operazione Quercia). Cfr. Ibidem.
(6) Il Messerschmitt Me-262 è stato il primo caccia con motore a reazione della storia. Ne esistono due versioni, lo Schwalbe (“rondine”) da caccia e lo Sturmvogel (“uccello delle tempeste”) da bombardamento, per un totale di circa 1.500 esemplari. Nonostante sia superiore a qualsiasi altro aereo mai schierato durante la guerra, non è stato in grado di ribaltarne le sorti, a causa della difficile condizione in cui versa la Germania nel 1944.
(7) La fanteria tedesca poteva contare sul moderno fucile d’assalto automatico, il primo mai adoperato, l’Stg-44 (o Mp-44), precursore dei successivi M-16 e AK-47. I soldati erano inoltre dotati di armi anticarro individuali davvero micidiali: il lanciagranate Panzerfaüst (“pugno corazzato”) e il lanciarazzi Panzerschreck (“spaventa carri”). Cfr. J. R. Arnold, Ardennes 1944, op. cit., pp. 13-20.
(8) M. Hastings, Inferno. Il mondo in guerra (1939-1945), Neri Pozza, Vicenza, 2012, p. 735.
(9) Ivi, p. 728.
(10) B. H. Liddel Hart, Storia militare della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2017, p. 855.
(11) Ivi, pp. 860-62.
(12) Quella delle Ardenne, più che da una singola battaglia, è caratterizzata da una serie di scontri, più o meno vasti, che si protraggono tra il 16 dicembre 1944 e il gennaio del 1945. Per una sintesi efficace si veda ivi pp. 872-80.
(13) S. E. Ambose, Cittadini in uniforme, Longanesi, Milano, 1999, pp. 218-19.
(14) B. H. Liddel Hart, Storia militare della Seconda guerra mondiale, op. cit., p. 874.
(15) In nessuno dei conflitti successivi gli americani riuscirono a reagire così rapidamente e con tanta forza. Cfr. S. E. Ambose, Cittadini in uniforme, op. cit., p. 212.
(16) B. H. Liddel Hart, Storia militare della Seconda guerra mondiale, op. cit., p. 879.
(17) Ivi, p. 881.
(18) Ivi, p. 882.
(19) S. E. Ambose, Cittadini in uniforme, op. cit., p. 219.
(20) M. Hastings, Inferno, op. cit., p. 739.
(21) Ibidem.
I libri consigliati da Fatti per la Storia: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- E. Ambrose, Cittadini in uniforme, Longanesi, Milano, 1999.
- Beevor, Ardenne. L’ultima sfida di Hitler, Rizzoli, Milano, 2015.
- Jacques Nobécourt, Il colpo di coda di Hitler. Storia della battaglia delle Ardenne, Res Gestae, 2018.