CONTENUTO
Il gran rifiuto
Gli anni Settanta in Formula 1 erano maledettamente pericolosi per i piloti. I motivi alla base di numerosi incidenti mortali erano molteplici. Oltre a circuiti che presentavano limiti significativi, quali aree di fuga scarse e barriere di sicurezza poco efficaci, le monoposto erano progettate per essere leggere, comportando strutture fragili e prive di adeguata protezione in caso di collisione. Solo più avanti nel tempo – quando finalmente ci si rese conto che la situazione di rischio era divenuta insostenibile – furono obbligatorie zone difensive attorno al cockpit e sistemi del tipo cinture di sicurezza avanzate, protezioni per testa e collo e dispositivi antincendio, tra cui l’introduzione di tute resistenti, per aumentare la protezione, giacché a seguito di collisione le auto prendevano facilmente fuoco per la fuoriuscita del carburante altamente infiammabile da serbatoi allora non a prova di frattura.
In Giappone la Prefettura (in Italia la chiameremmo provincia) di Shizuoka è nota per il suo meteo variabile. Le gare tenute nel circuito automobilistico e motociclistico del Fuji in più occasioni sono state spesso condizionate dal clima fortemente umido e piovoso dell’area. In quel fine ottobre del 1976 l’imponente vista del monte da cui l’autodromo prende il nome non era sufficiente a rischiarare l’animo dei piloti e dei componenti dei team che avrebbero preso parte al sedicesimo ed ultimo Gran Premio della stagione. La situazione di classifica del campionato mondiale vedeva un testa a testa tra il campione in carica, l’austriaco Niki Lauda (Ferrari) e l’inglese James Hunt (Mc Laren). Soli tre punti dividevano i due. Ma la pioggia battente e i rivoli d’acqua che correvano lungo l’asfalto preoccupavano. Si trattava di un circuito sconosciuto al “circus” della Formula 1: per la prima volta una prova del campionato mondiale si correva in Asia.
La situazione era tesa. Una sorta di nel frattempo formatosi “sindacato dei piloti” (formalmente “commissione piloti”, che invero apparivano gli unici a rendersi conto di quanto fosse pericoloso il loro mestiere) prima della gara aveva discusso la possibilità per i 25 partenti di ritirarsi dopo pochi giri come forma di protesta contro quelle condizioni proibitive, ma le pressioni dei team e degli organizzatori portarono tutti a cominciare la gara, seppure un’ora e mezza dopo quanto previsto nella speranza che la pioggia cessasse, inizialmente con l’intesa di completare la metà dei giri previsti (a meno che le condizioni del tempo non fossero migliorate durante la gara, cosa che parzialmente avvenne). Lauda, dopo un solo giro, al pari di soli tre suoi colleghi, tenne fede alla parola data e decise di ritirarsi, ritenendo troppo alto il rischio e dichiarando: “Non me ne frega niente di quello che pensa il mondo. Non mi posso uccidere per una gara”.
Questo che alcuni giornali sportivi chiamarono “gran rifiuto” gli costò il Mondiale, poiché Hunt completò la gara giungendo terzo e raccolse i punti necessari per scavalcarlo nella classifica finale. Il dualismo tra i due piloti nel campionato di quell’anno è ben riportato nell’avvincente film del 2013 “Rush”, del regista statunitense Ron Howard, in cui non manca il racconto del terribile incidente che era accaduto a Lauda solo il 1° agosto precedente, nel corso del Gran Premio di Germania corso sull’ Anello Nord (Nordschleife) del tracciato del Nürburgring.
Trailer del film “Rush”
L’incidente di Niki Lauda nel 1976
Il circuito del Nürburgring aveva una lunghezza di 22,835 chilometri. Uno dei tracciati più lunghi e impegnativi della storia della Formula 1, caratterizzato da curve tecniche, variazioni di altitudine e condizioni spesso imprevedibili. Niki Lauda al 2º giro dopo la partenza sotto la pioggia, al pari di molti altri piloti cambiò le gomme per passare alle slick, ma alla curva Bergwerk (la pista era ancora umida in alcuni punti) a circa 200 km/h perse il controllo della sua Ferrari 312 T2 probabilmente a causa della scarsa aderenza delle gomme ancora fredde. La vettura colpì il guardrail, rimbalzò in pista e fu centrata da altre monoposto.

L’impatto fu così violento che il casco di Lauda si staccò e volò via, lasciandolo esposto alle fiamme causate dalla fuoriuscita di benzina. Il pilota austriaco rimase intrappolato tra le fiamme per 55 secondi, riportando gravi ustioni al volto e danni ai polmoni per l’inalazione di fumi tossici e fu salvato grazie all’intervento tempestivo di alcuni colleghi, tra cui Arturo Merzario, che si gettò tra le vampe per liberarlo dall’abitacolo, riuscendo infine a estrarlo e a praticargli i primi soccorsi fondamentali per la sua sopravvivenza.
Tempo dopo (troppo, secondo Merzario) Lauda regalò al suo salvatore un orologio. Un gesto di riconoscenza ritenuto freddo e poco sentito, tanto da non essere apprezzato, sicché il rolex rimase per decenni in un cassetto dell’italiano. Solo molti anni dopo i rapporti tra i due si ricucirono. Per altro questo Gran Premio segnò l’ultima volta in cui la Formula 1 corse sulla Nordschleife, considerata troppo pericolosa per le monoposto dell’epoca.
Il momento dell’incidente di Niki Lauda al Gran Premio di Germania
Il ritorno in pista di Niki Lauda dopo l’incidente
Nonostante le gravi ferite e le indicibili sofferenze, Lauda – che venne dichiarato fuori pericolo solo il 5 agosto – tornò a correre dopo appena 42 giorni, nel Gran Premio d’Italia a Monza: fu necessario modificare il casco poiché aveva ancora perdite di sangue per lo sfregamento sulle ferite del volto non ancora rimarginate. “Quanto è accaduto in Germania non c’entra per nulla nella scelta che ho preso in Giappone – ebbe poi a dichiarare – Non ci sono remore psicologiche o condizionamenti, no. Ho pensato: è una pazzia, è un correre oltre ogni ragionevole rischio. E mi sono fermato. La Ferrari mi paga per guidare una sua macchina, è vero, ed io l’ho dichiarato più volte, ma non mi paga perché mi ammazzi. Non sarebbe neanche nel suo interesse”.
Invero, le sue condizioni fisiche non completamente idonee contribuirono a una perdita di competitività nelle ultimissime fasi della stagione. La sua momentanea assenza (oltre a non prendere punti in Germania aveva dovuto saltare i gran premi di Austria e di Olanda) e il ritorno non al 100% delle sue prestazioni permisero al rivale James Hunt di colmare il divario, facendogli alla fine strappare il titolo mondiale per un solo punto di differenza.
Gli inizi, l’approdo alla Ferrari, i campionati del mondo vinti ed il primo ritiro
Ma da dove proveniva questo esempio di carattere e resilienza, nel contempo così consapevole dei pericoli del mestiere che aveva scelto? Andreas Nikolaus Lauda, detto Niki, era nato a Vienna il 22 febbraio 1949, da una famiglia benestante di banchieri. Aveva deciso presto di intraprendere una carriera nel motorsport, scegliendo di abbandonare gli studi universitari per seguire la sua passione per le corse, nonostante il disappunto dei genitori. Iniziò nelle categorie minori, correndo nel campionato di Formula Vee e poi passando alla Formula 3, dove affinò le sue capacità e mostrò un discreto talento.
Successivamente, grazie alle sue performance e al suo approccio metodico, era passato alla Formula 2 (l’anticamera della sorella maggiore) con il team March Engineering. Queste esperienze gli permisero di sviluppare conoscenza tecnica della vettura e approccio analitico al pilotaggio, qualità che lo fecero conoscere nell’ambiente per la sua freddezza e precisione nel fornire ai tecnici un valido feedback durante le prove e dopo le gare. Grazie a un prestito bancario nel 1971 aveva debuttato in Formula 1 con la March, ma la sua esperienza iniziale era stata segnata da risultati modesti, anche nel 1972. L’anno successivo passò, come “pilota pagante” (grazie ad un munifico sponsor) alla BRM, dove ottenne i primi punti e strinse un rapporto di collaborazione e amicizia con Clay Regazzoni, che lo raccomandò al “Drake” Enzo Ferrari che intanto per il 1974 aveva ingaggiato il ticinese per rilanciare la Scuderia del cavallino rampante.
L’austriaco si distinse subito per la sua conoscenza tecnica e il suo approccio metodico, guadagnandosi la fiducia della squadra. La sua schiettezza e la capacità di esprimere con chiarezza i problemi della vettura furono apprezzate da Ferrari, che, nel mezzo degli anni ’70, era in un periodo di transizione, e cercava non solo un pilota veloce, quale poteva essere Regazzoni, ma anche qualcuno in grado di contribuire attivamente allo sviluppo della vettura. Il marchio, simbolo di eccellenza e innovazione, aveva bisogno di un talentuoso “ingegnere in tuta”.
Lauda si distingueva per la sua capacità di analisi tecnica. Inoltre, il suo spirito critico e la capacità di comunicare in maniera diretta e costruttiva si sarebbero rivelati fondamentali per ottimizzare il design delle monoposto e per introdurre innovazioni tecniche, come quelle che poi si tradussero nello sviluppo da parte dell’ingegner Forghieri della Ferrari 312T, che gli consentì di vincere il titolo mondiale già nel 1975.
L’addio alla Ferrari e la seconda vita di Niki Lauda
Dopo le disavventure nel 1976, evidentemente i rapporti con Ferrari si andavano però freddando. Non di meno, Lauda – anche grazie alla vettura che egli stesso aveva concorso a rendere vincente – fece suo il campionato 1977 con due gare di anticipo, cui non volle partecipare lasciando il volante a colui che si sarebbe rivelato un’altra scommessa vinta del Drake: lo sconosciuto canadese Gilles Villeneuve che tante soddisfazioni darà ai ferraristi.
La stella di Lauda sembrava però spegnersi: la decisione di cambiare scuderia (passando alla Brabham motorizzata Alfa Romeo) non parse azzeccata per i due campionati successivi, tanto che l’austriaco decise sorprendendo tutti che era giunto il momento di ritirarsi dalle competizioni, per dedicarsi interamente ad una nuova attività imprenditoriale, quella di una compagnia aerea di sua proprietà, non a caso denominata Lauda Air.
Ma la nostalgia è talvolta canaglia, ed ecco che il suo ritorno alle corse per la stagione 1982 lo riportò sulla scena, questa volta alla guida di quella Mc Laren con il quale il suo acerrimo avversario Hunt lo aveva battuto qualche anno prima. Due Gran Premi vinti e qualche piazzamento gli consentirono di giungere quinto nella classifica finale del campionato. L’anno successivo fu una stagione senza acuti. Il 1984 però segnò il suo terzo titolo mondiale: la Mc Laren motorizzata Porche seppe cogliere alcuni cambiamenti del regolamento e – seppure dovette combattere con il compagno di squadra Prost – l’austriaco giunse per un soffio (mezzo punto!) a conquistare il campionato. Anche questa seconda parte della su vita motoristica però sembrava essere giunta al capolinea, tanto che una insoddisfacente stagione 1985 gli consigliò di tornare alla sua compagnia aerea.

Al cuore, però, come è noto, non si comanda: Luca Cordero di Montezemolo, il nipote dell’Avvocato per antonomasia Gianni Agnelli, era stato un giovane direttore sportivo della Ferrari al tempo dei primi due campionati mondiali vinti ed ora era assurto a Presidente. Nel 1993 volle il suo ex pilota ed amico come consulente a Maranello. Lauda poi continuò a collaborare con altre squadre di Formula 1, dalla Jaguar Racing (di cui fu direttore sportivo) ad un più lungo e fruttuoso rapporto con la Mercedes, della quale fu Presidente onorario.
La morte di Niki Lauda
L’incidente del 1976 però aveva segnato il suo fisico: fu malato ad entrambi i reni e subì il trapianto di un polmone. Si spense a Zurigo, nella notte tra il 20 e il 21 maggio 2019, a causa di un’insufficienza renale. I funerali furono celebrati il 29 maggio nel Duomo di Vienna. È noto che Il suo ultimo desiderio fosse quello di essere seppellito con indosso la tuta rossa della Ferrari, simbolo dei suoi successi mondiali nel 1975 e nel 1977. Durante il funerale, la tuta fu in effetti posta in vista come parte del tributo finale, accompagnata da altri gesti simbolici come quello della moglie che appoggiò il suo casco sulla bara. Un riconoscimento ad un pilota e ad un manager che tanto ha dato alla massima formula, non solo in pista, ma anche per la sicurezza delle competizioni.
Prima ancora del suo famoso incidente, Lauda sosteneva che il rischio e la pericolosità delle vetture erano così elevati da portarlo persino a dubitare della necessità stessa di correre. Sicuramente in quei maledetti anni Settanta egli era tra i piloti meno convinti della affidabilità del campionato, arrivando ad affermare con i fatti che non si sarebbe dovuto correre se le condizioni e le tecnologie non fossero state in grado di proteggere adeguatamente i piloti. Il suo approccio pragmatico e il suo incessante impegno a ridurre i rischi hanno contribuito, nel tempo, a trasformare radicalmente la Formula 1, rendendola un ambiente più sicuro.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Pino Casamassima, Niki Lauda. Il campione che ha vinto anche la paura, Cairo Editore, 2019.
- Diego Alverà, Il romanzo del Fuji. Lauda, Hunt F1 1976, 66thand2nd, 2022.
- Paolo Marcacci, Lauda. L’uomo, la macchina, Kenness Publishing, 2023.