CONTENUTO
di Alessio Casu
Roma, la nascita dell’Impero
Una tendenza da tenere in considerazione è il legame che si crea tra esercito e generale al comando. In lunghe campagne vittoriose, garantite dall’operato del generale, gli eserciti possono portare a casa ingenti ricchezze; così viene a crearsi una fedeltà dell’esercito non più nei confronti dello Stato, ma verso la personalità che li ha guidati e ampiamente ricompensati in seguito alla vittoria in guerra.
Altro fattore importante, è l’istituzione di eserciti permanenti: i soldati hanno anni per creare legami con i propri comandanti. Si perde così il modello senatorio e aumenta l’influenza di alcune personalità che, grazie alla forza delle legioni al loro comando, riescono a imporre il loro volere.
Prime tendenze dittatoriali: i casi di Mario e Silla
Distintosi nella Guerra Sociale, ovvero con i popoli italiani rivoltatisi contro il potere centrale di Roma, e considerato uno dei più forti comandanti, Gaio Mario mostra tutta la sua ira nei confronti del Senato quando non riceve il comando nella guerra contro Mitridate, assegnato a Lucio Cornelio Silla, che fino a poco prima era sotto il suo comando. La guerra con Mitridate, provoca ulteriori tensioni interne a Roma, ancora provata dalle Guerre Sociali.
Mario, appoggiato da una parte della nobiltà, riesce ad ottenere il comando della campagna in Asia, a discapito di Silla. La rivalità è aperta. Silla marcia con l’esercito su Roma, cambiando la costituzione in favore del Senato e del Comizio Centuriato, a sfavore della plebe. Fatto ciò, riparte in Asia per combattere contro Mitridate.
Appena Silla si allontana dalla capitale, Mario interviene con il suo fedele esercito, appoggiato internamente dal console Lucio Cornelio Cinna. Così diventano consoli insieme nell’86 a.C., ma nello stesso anno Mario muore. Per i successivi due anni Cinna elegge autonomamente il console che lo affianca, ignorando la costituzione.
Alla fine della guerra Silla è in rotta verso l’Italia per riprendere Roma. Cinna tenta di organizzare un esercito per fermarlo, ma le sue truppe si ribellano e lo uccidono. Silla, riesce quindi ad arrivare a Roma, eleggendosi dittatore a tempo indeterminato.
Tuttavia questi avvenimenti non rappresentano l’inizio dell’Impero. I tempi non sono ancora maturi e il potere del Senato è ancora forte, così come gli ideali repubblicani di Silla. In due anni riforma Roma, facendo perdere quella poca forza rimasta al proletariato romano, in favore di un oligarchia senatoria. Ora l’unico impedimento alla Roma repubblicana è lui stesso con la dittatura; nel 79 a.C. abdica, ritirandosi in una tenuta di campagna, dove morirà poco dopo.
Il triumvirato
La costituzione sillana ha l’obiettivo di ridurre il potere dei generali e degli eserciti, facendo ricadere tutto il potere sulla legge scritta e sul Senato. Ciò non può reggere a lungo: coloro che sostengono gli ideali di Silla e quelli che gli sono contro, usano allo stesso modo il potere degli eserciti per imporsi sui rivali. La politica di Roma è cambiata per sempre, la costituzione inizia ad essere qualcosa di violabile, così come il potere del Senato.
La terza guerra servile, guidata dal gladiatore Spartaco, va fermata. Licinio Crasso, partigiano di Silla, viene incaricato di sedare la rivolta; l’uomo è una delle personalità più ricche e influenti di Roma e gode di grande appoggio popolare.
Così per paura che al ritorno vittorioso dalla guerra possa prendere il potere a Roma con la forza, il Senato gli affianca Pompeo. Nel 71 la rivolta è sedata, ma i due hanno stretto legami pericolosi.
Pompeo e Crasso tornano ora verso Roma non solo come vincitori, ma come conquistatori. Imponendosi, in pochi anni cancellano l’operato di Silla, ridistribuendo il potere ai tribuni della plebe. Hanno bisogno di sostegno, e il popolo è il più facile da convincere.
Ma Pompeo riesce ad imporsi; con il comando straordinario concessogli per combattere la pirateria, domina tutto il Mediterraneo. Ulteriori campagne sono utili per espandere il potere di Roma dove non è mai arrivato. Nonostante la forza militare di Pompeo la sua assenza da Roma favorisce l’imporsi di nuovi giocatori; l’unico sostegno alla sua autorità è la maggioranza del Senato che ancora lo appoggia. Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare sono i più assidui oppositori, con la loro politica anti-senatoria.
Pompeo ha in mano il potere militare più vasto concentrato in un unica persona che Roma abbia mai visto, ma crede ancora nella potenza politica derivante dall’appoggio del Senato. Così, tornato a Roma, nel 62 scioglie l’esercito; il Senato non ha più paura e rifiuta la concessione ai veterani di Pompeo – come di consueto – di terre donate in premio.
Pompeo non ha più sostenitori in Senato e, risentito contro quella parte più conservativa che lo ha tradito, si avvicina alla fazione dei populares, i cui capi indiscussi sono Giulio Cesare e Licinio Crasso. I tre personaggi politici stringono nel 60 a.C. un accordo, inizialmente segreto, detto triumvirato. Cesare alla presa del consolato fa approvare la concessione di terre ai soldati di Pompeo e si garantisce il comando nella provincia proconsole della Gallia Cisalpina (attuale Italia nord-occidentale, all’epoca provincia di Roma), giocando prima per se stesso, senza dimenticare di dare un contentino ai “soci”. In questo modo si garantisce un comando militare fruttuoso e ricco di conquiste, ingenti somme di denaro e un esercito fedele. Inoltre comanda l’esercito più vicino a Roma, nel caso in cui le cose si mettano male.
Consolato e Senato non sono più sufficienti a tenere insieme lo Stato. La contrazione del potere nelle mani di un oligarchia ristretta peggiora la stabilità. La scacchiera è di conseguenza mossa dal basso, con una popolazione sempre più povera e irrequieta. Si rendono necessarie magistrature straordinarie per controbilanciare l’inadeguatezza dell’organizzazione statale, finendo inevitabilmente per dare potere a singole personalità. Il potere di queste magistrature rimane spesso in mano a chi le possiede, senza tornare al popolo o al Senato che la ha concesse. L’Impero diventa così una risposta a tali problemi.
Il triumvirato traballa poiché ognuno ha idee diverse. Così, con nuove tensioni interne, è necessario ristabilire l’accordo. Nel 56 a.C. con il Convegno di Lucca, si decide che Crasso e Pompeo sarebbero stati consoli dal 55, riconfermando Cesare in Gallia per cinque anni. A Crasso spetta il proconsolato nella provincia di Siria e a Pompeo la medesima carica in Spagna.
Nel 53 a.C. Crasso muore e con lui l’accordo appena rinnovato. L’autorità di Pompeo aumenta poiché presente a Roma, dove i partiti rivali creano sempre più tensioni. Cesare nel frattempo si assicura potere militare e approvazione con le ricche conquiste in Gallia.
Il dado è tratto: Giulio Cesare
Nel 50 a.C. Cesare ha dominato la Gallia, legando le diverse tribù con trattati, alleanze o sottomettendole a suddite di Roma. Fin da subito le nuove conquiste diventano forza vitale per Roma, ma soprattutto per Cesare, che alla guida di 10 legioni è pronto allo scontro finale con Pompeo.
Il mandato di Cesare in Gallia scade nel 50, e prima di questa data non si può discutere, secondo la legge, il suo successore. Quando vengono messi in dubbio i diritti che avrebbero permesso a Cesare il rinnovamento del comando in Gallia, si crea una rottura. Pompeo, inoltre, dal 52 si assicura il consolato per ulteriori cinque anni, così da restare in carica più di Cesare.
Una proposta venuta da Cesare è quella di lasciare la carica insieme a Pompeo. Questa viene rifiutata e nel 49 il Senato, favorendo Pompeo, vota la sostituzione di Cesare nel comando in Gallia. Quest’ultimo si trova costretto ad intervenire con l’unica legione che lo ha accompagnato a Ravenna in direzione di Roma. Il dado è tratto: la notte del 10 gennaio varca il Rubicone, confine tra Gallia Cisalpina e Italia, occupando Rimini. A Roma scatta lo stato d’assedio.
Alla prima legione di Cesare sopraggiungono ora i rinforzi dalla Gallia Transalpina, così che le due legioni di Pompeo sono presto rese inermi. Pompeo e i senatori fedeli fuggono in Macedonia, rifugiandosi a Tessalonica. Cesare, prima di occuparsi di Pompeo, si assicura il dominio in Italia, nelle isole e in Spagna.
Si fa nominare dittatore, si assicura la nomina di console e, dopo solo undici giorni, lascia quella dittatoriale. Con 12 legioni al seguito è pronto a incontrare la forza pompeiana di 9 legioni, che, nonostante il numero esiguo, ha la meglio a Durazzo. Sbarcando sulle coste dell’Epiro, infatti, l’esercito di Cesare arriva in due momenti diversi, quindi non si ha un contingente unito. L’avversario è già schierato, pronto a ricevere il nemico e a sconfiggerlo.
A questo punto, a Cesare non resta altro che giocare di strategia: si ritira verso la Tessaglia, facendosi seguire da Pompeo. Lo scontro decisivo avviene a Farsalo, dove nel giugno del 48 a.C. Pompeo è sconfitto e costretto alla fuga. Si rifugia dal re d’Egitto, Tolomeo XIV, creduto alleato, dove viene ucciso. Tolomeo si è infatti votato a favore di Cesare, ma a breve si renderà conto del terribile errore commesso.
Cesare ormai giunto in Egitto inutilmente, vista l’inaspettata morte di Pompeo, non perde occasione per sistemare le sorti del regno, che traballa tra le mani di Tolomeo, erede legittimo, e la sorella Cleopatra. Come tutti sanno, probabilmente anche grazie alla seduzione, Cleopatra ha il favore del nuovo capo di Roma.
L’esercito di Tolomeo assedia Cesare con le poche truppe a lui vicine, ma la sorte non è dalla sua, e non appena giungono i rinforzi, la vittoria è segnata. Il trono del regno di Egitto ricade su Cleopatra. Nel frattempo Cesare, anche se lontano da Roma, si fa eleggere dittatore a vita.
Le forze pompeiane, riorganizzatesi in Spagna, non preoccupano il dittatore che a Roma si occupa di ristabilire l’ordine. Non interviene con una riforma pressante fin dall’inizio, ma cerca di mediare tra quello che è il bene del popolo, parte della sua forza, e il volere dell’aristocrazia, ancora pericolosa.
I tribunali tornano in mano a senatori e cavalieri, adotta varie misure per assicurare l’ordine pubblico e si assicura di favorire il lavoro libero a discapito di quello degli schiavi.
«Cesare creava, senza dare una precisa impronta alla sua creazione.» (Momigliano)
Impero ed imperatore
Una delle conquiste più importanti di Cesare, che contribuiscono alla sua fama, riecheggiante ancora oggi, è l’identificazione della sua persona con Roma. Nonostante ciò, le fonti parlano di un personaggio tendenzialmente umile, che fugge di fronte alle divinizzazioni e a chi lo chiama Re. Senz’altro una componente religiosa viene accostata alla sua figura. Basti pensare che nel 44 la carica di dittatore a vita viene innalzata con la sacrosantità.
Viene istituito un flamine a lui dedicato, come quelli che già esistono per Giove e Marte. Una sua statua viene messa nel tempio di Quirino e gli vengono decretate offerte. Dal 46, inoltre, ha il diritto di portare la veste del trionfatore (porpora e lauro) e più tardi di coniare monete con la propria effige. Tra le altre cose, un mese viene chiamato in suo onore, da Quintile a Julius (Luglio).
Si può comunque affermare che la regalità e la divinità per Cesare avessero valore principalmente politico. L’operazione più importante non è visibile nel suo programma politico, ma in quello ideologico, nascosto, più difficile da affermare per noi. Si tratta dell’elevazione di una persona sopra ogni altra, sopra tutte le istituzioni. L’identificazione di un unico uomo come volto dell’Impero. Per questo si può affermare, col senno di poi, che Cesare è il creatore dell’Impero Romano, così come della figura dell’Imperatore, anche se tale carica non è ancora riconosciuta.
La sua carriera è però breve; il 15 marzo del 44 a.C. Cesare è ucciso a colpi di pugnale da una congiura organizzata da alcuni senatori repubblicani, tra cui Giunio Bruto e Caio Cassio. Nel momento in cui il programma politico delle due parti è troppo diverso, la soluzione ovvia è l’omicidio. Con questo atto, passato alla storia come le Idi di marzo, la figura di Cesare non scompare. Si può anzi affermare che ha l’effetto opposto a quello desiderato: Cesare viene mitizzato, soprattutto dalla popolazione e dai suoi veterani che tanto lo amano.
Alla morte del Re, l’unico a non piangere è l’erede
Chi riesce a capire il valore pubblico della morte di Cesare è proprio uno dei suoi più fedeli collaboratori, Marco Antonio, che dopo i funerali del dittatore solleva il popolo contro i Cesaricidi, allontanandoli da Roma. Però l’erede al trono di Cesare non è Antonio, ma Gaio Ottaviano, nipote del dittatore, adottato come figlio perché l’Impero resti a lui.
Lo scontro scoppia subito; Antonio impone a Decimo Bruto (non il Cesaricida), di lasciare la sua carica in Gallia Cisalpina. Ottaviano sostiene invece Bruto, poiché è il favorito del Senato e dei consoli. Antonio e Ottaviano arrivano alla battaglia, nella così detta guerra di Modena. Ottaviano vince, ma a Roma il Senato gli nega il trionfo, e lo concede invece a Decimo Bruto.
L’unica possibilità è ora usare la forza: si avvia con le legioni, marciando su Roma. Risulta evidente la sua tendenza antirepubblicana, tradito da coloro che tentava di sostenere per acquisire potere: il Senato. Questo lo porta vicino a Marco Antonio, con il quale ora ha più in comune che in contrario; entrambi vogliono il potere.
Antonio è già in accordi con Lepido, comandante della cavalleria di Cesare, ora governatore in Gallia e Spagna. I tre scendono a patti, e formano il secondo triumvirato. Questo accordo, al contrario dei precedenti, viene pubblicamente riconosciuto come una magistratura straordinaria.
Ottaviano diventa Augusto
Nel 42 a.C., con la battaglia di Filippi, in due scontri separati, Antonio vince prima Cassio poi Bruto. Una nuova divisione dell’Impero vede Antonio controllare tutto l’Oriente, la Gallia transalpina e Narbonese. Ottaviano ha la Spagna, Lepido l’Africa. La Gallia cisalpina è ora parte dell’Italia, per volere di Cesare. Il resto dell’Impero è in mano ai repubblicani.
Dopo la guerra di Perugia, dove familiari di Marco Antonio, apparentemente senza il suo appoggio, attaccano Ottaviano, che ne esce vincitore, diventa necessario stabilire un nuovo patto, a scanso di equivoci. Così, nel patto di Brindisi del 40 a.C. Antonio cede la Gallia transalpina e Narbonese, mantenendo l’Oriente.
Sesto Pompeo ancora domina senza approvazione su Sardegna, Corsica e Sicilia, portando avanti atti di pirateria non poco fastidiosi. Così con il patto di Miseno del 39 ci si accorda, riconoscendogli il governo di tali province.
Gli accordi sono temporanei; nessuno è pronto a una pace duratura. Pompeo, continua a fare il pirata. Ottaviano deve risolvere, e con il sostegno militare di Antonio e Lepido, riesce a cacciarlo nel 36 a.C. Lepido pretende ora la Sicilia. Così dopo un breve conflitto viene vinto, perdendo qualsiasi provincia. Ottaviano è ora padrone dell’intero Occidente.
Antonio, innamorato di Cleopatra, ripudia la moglie Ottavia, sorella di Ottaviano. Così toglie ai governanti italici il controllo di alcune terre in favore di Cleopatra. Si allontana sempre di più da quella che è la tradizione romana, causando un generale sdegno nei suoi confronti, soprattutto dai romani. Ottaviano intanto porta avanti una vita pubblica e civile tipicamente romana, richiamando i costumi, usi e religione tradizionali. Sempre più cresce la stima nei suoi confronti, come colui che avrebbe garantito il progresso di Roma, la stabilità e la pace nell’Impero.
Nel 33 a.C. scade il triumvirato, ma Ottaviano riesce con un patto a mantenere la sua posizione, assicurandosi la fedeltà dei sudditi. Ora può progettare la sua prossima mossa: conquistare tutto l’Impero. Con grande prudenza non attacca direttamente Antonio, ma Cleopatra. Lo scontro decisivo avviene il 2 settembre del 31. La flotta di Ottaviano ha la meglio ad Azio, in Epiro. Così Antonio e Cleopatra, rifugiati in Egitto, si uccidono, lasciando a Ottaviano l’Impero.
«Quando ebbe adescato i soldati con donativi, con distribuzione di grano il popolo, e tutti con la dolcezza della pace, cominciò passo dopo passo la sua ascesa, cominciò a concentrare su di sé le competenze del senato, dei magistrati, delle leggi, senza opposizione alcuna: gli avversari più decisi erano scomparsi o sui campi di battaglia o nelle proscrizioni, mentre gli altri nobili, quanto più pronti a servire, tanto più salivano di ricchezza […]e, divenuti più potenti col nuovo regime, preferivano la sicurezza del presente ai rischi del passato.» (Tacito, Annales)
Ottaviano sa che deve basare la sua forza sull’esercito. Allo stesso tempo, ha imparato da Cesare e ora da Antonio che non si possono rinnegare quelle che sono le istituzioni di Roma, con le sue tradizioni. Così, mediando tra questi due frangenti, riesce a mantenere il potere, modellandolo su di se, rispettando al contempo le istituzioni secolari di Roma.
Ottaviano vuole avere il potere in maniera legittima, legale. Se in un primo momento, si accontenta della carica di Console, scegliendo di anno in anno un collega fidato, si rende conto di non poter continuare su questa strada incostituzionale.
Il 13 gennaio del 27 a.C., di fronte al Senato, cede a questo tutto il suo potere. Si fa immediatamente consegnare il controllo delle province più importanti, quelle dove era stanziato l’esercito. Così se effettivamente non è re di Roma, ne è padrone incontrastato, grazie al potere militare. Con il potere proconsole derivante dalle province, aggiunto a quello di console, realizza un autocritas, facendosi conferire pochi giorni dopo la carica di Augusto.
Il termine, la cui derivazione è ancora discussa, vedrebbe l’unione della parola “auct-oritas” con “aug-eo” (elevazione di una persona sugli altri, con origine divina) (1), secondo altri deriva invece da “augure”, ovvero carica sacerdotale (2), legata comunque al divino. Questo diventa il nome comune con cui tutti chiamiamo ancora oggi Ottaviano.
Con una serie di riforme successive, cede il consolato, ma eleva la sua carica al di sopra di quella consolare e proconsolare. Funge ora anche da presidente del Senato, con la possibilità di votare per primo in qualsiasi proposta di legge. Infine, si riserva la possibilità di nominare o destituire senatori.
In sostanza, Gaio Ottavio, ora nominato Cesar Augustus, riesce a fare ciò che Giulio Cesare non è riuscito: assumere potere imperiale costituzionalmente, portando definitivamente alla morte della Repubblica.
Augusto, porta avanti il programma di Cesare: non quello prettamente politico e costituzionale, ma quello ideologico. Egli diventa il volto di un impero in cui quasi tutto il mondo conosciuto si identifica. Questa è la sua grande forza. I tempi, a differenza di Silla, quarant’anni prima, sono ormai maturi, il Senato e i repubblicani si sono arresi e chi non lo ha fatto è morto.
La morte di Augusto
Da nominare sono i suoi più fidati amici e colleghi, Agrippa e Mecenate, che lo accompagnano per tutta la vita. Augusto dà molta importanza al Senato, convocato spesso da lui stesso, tenendone in considerazione idee, pareri e facendolo votare. Nonostante ciò, la linea politica del Senato è legata alle volontà di Augusto, così come il loro operato.
Per controbilanciare la perdita di potere, Augusto fa di tutto per impedirne le lamentele: costruisce la carriera senatoriale. Sono quindi di competenza dei senatori la maggior parte delle alte cariche dello stato. I discendenti dei senatori potevano intraprendere la carriera della magistratura (quindi la carica senatoriale, contando che per diventare senatore è necessario essere ex-magistrati).
Gli eserciti stanno ora dissanguando l’erario; in periodo di pace sessanta legioni vengono considerate eccessive, quindi con cautela Augusto le porta a venticinque. Le legioni non sono più stanziate in un unico punto e spostate secondo necessità, ma distribuite lungo i confini, a protezione del territorio. Così i soldati non sono inoperosi, ma soprattutto sono già distribuiti in tutto l’Impero, nelle zone più a rischio, in modo tale da garantire una maggiore efficienza.
Con Augusto, più che con Cesare, diventa importante il culto imperiale, spronato in parte anche da lui, tanto che si arriva ad erigere templi a questo scopo. Complicate sono le vicende familiari di Augusto, così come la ricerca di un erede. Dal secondo matrimonio con Scribonia ha una figlia. Dalla terza moglie, Livia non ha figli, ma questa porta con se due figli di un precedente matrimonio, Druso e Tiberio; questi non provenendo dalla linea di sangue di Augusto non vengono inizialmente presi in considerazione.
L’eredità viene quindi promessa a Marcello, suo nipote, figlio della sorella Ottavia, che però muore troppo presto. La figlia avuta con Scribonia viene allora data in moglie ad Agrippa, così da avere un erede. I figli di questo matrimonio vengono a mancare troppo presto, così che l’unico possibile erede dopo la morte anche di Druso, è Tiberio. Nel 14 d.C., a settantasei anni, Augusto muore.
Note:
(1) Manuale di Storia Romana, A Momigliano 2: Treccani, Enciclopedia online
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- Paul Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Bollati Boringhieri, 2006.
- Arnaldo Momigliano, Mastrocinque, Manuale di storia romana, UTET Università, 2016.