CONTENUTO
Il racconto di Plutarco
Fin dalla sua fondazione Roma presenta i tratti di una città aperta all’accoglienza degli stranieri. Plutarco (Vita di Romolo 11,1-2), infatti, illustrando il rito con cui Romolo dà inizio alla storia dell’Urbe, ci fornisce la seguente versione del mito:
ὁ δὲ Ῥωµύλος ἐν τῇ Ῥεµωρίᾳ θάψας τὸν Ῥέµον ὁµοῦ καὶ τοὺς τροφεῖς, ᾤκιζε τὴν πόλιν, ἐκ Τυρρηνίας µεταπεµψάµενος ἄνδρας ἱεροῖς τισι θεσµοῖς καὶ γράµµασιν ὑφηγουµένους ἕκαστα καὶ διδάσκοντας ὥσπερ ἐν τελετῇ. Βόθρος γὰρ ὠρύγη περὶ τὸ νῦν Κοµίτιον, κυκλοτερής, ἀπαρχαί τε πάντων, ὅσοις νόµῳ µὲν ὡς καλοῖς ἐχρῶντο, φύσει δ᾽ ὡς ἀναγκαίοις, ἀπετέθησαν ἐνταῦθα. Καὶ τέλος ἐξ ἧς ἀφῖκτο γῆς ἕκαστος ὀλίγην κοµίζων µοῖραν ἔβαλλον εἰς ταῦτα καὶ συνεµείγνυον. Καλοῦσι δὲ τὸν βόθρον τοῦτον ᾧ καὶ τὸν ὄλυµπον ὀνόµατι µοῦνδον.
(Romolo, seppellito suo fratello nella Remonia assieme a quelli che li avevano allevati, fondò la città; a tale scopo aveva fatto venire dalla Tirrenia degli esperti che gli spiegassero la corretta procedura da eseguire. Romolo, dunque, per prima cosa scavò una fossa circolare nella zona su cui ora sorge il Comizio, e in essa depose le primizie di tutto ciò che era utile secondo consuetudine e necessario secondo natura. Quindi ciascuno vi gettò dentro un po’ di terra del proprio paese natale, e mescolarono assieme il tutto. Questa fossa è indicata con il nome di mundus, lo stesso con cui designano il cielo)
Secondo il racconto dello storico, che Carandini invita a ritenere veritiero, nella civitas romana fanno il loro ingresso fin da subito gli stranieri. Il suolo della città nascente è costituito da zolle provenienti dalle diverse patrie di origine degli stranieri, i quali, attraverso tale gesto simbolico, troncano il loro legame con la propria terra d’origine affidandosi ad un nuovo sovrano.
La commistione di individui si traduce materialmente in commistione di terre. La narrazione mitologica sembra, così, confermare l’ipotesi, suggerita da alcuni ritrovamenti archeologici, che Roma sia nata grazie a un processo di sinecismo, formandosi progressivamente attraverso la fusione di comunità prima indipendenti.
Una commistione di popoli
L’apertura di Romolo verso gli altri popoli è testimoniata anche dallo storico Tito Livio, il quale così scrive in Ab urbe condita I 9,1-4:
Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent: urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire, origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere.
(Roma era così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni; ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza con il nuovo popolo e per favorire la celebrazioni di matrimoni; anche le città, come le altre cose, non nascono dal nulla; poi, quelle che il proprio valore e gli dei aiutano, conquistano per sé grandi mezzi e una grande fama; sapevano che in modo abbastanza certo che all’origine romana anche gli dei avevano partecipato e che non sarebbe venuto meno il valore; pertanto non si rifiutassero di mescolare uomini con uomini, il sangue e la stirpe)
La fonte ci tramanda che dalla guerra, attraverso i matrimoni misti, si perviene alla fusione tra Sabini e Latini; le due componenti etniche ottengono un riconoscimento paritario, come comprovano l’affiancamento a Romolo del re Tito Tazio e il successivo alternarsi di monarchi latini e re sabini.
A giudizio di alcuni, dimostrerebbe la multietnicità dell’Urbe delle origini anche la tripartizione del popolo in tre tribù (Tities, Ramnes e Luceres). La prima, infatti, corrisponderebbe alla componente sabina, la seconda a quella latina e la terza a quella etrusca. La società romana, dunque, si connota per la liberalità nella concessione della cittadinanza, a differenza delle poleis greche che, invece, sono restie a concedere la cittadinanza.
L’asylum romuleo
Secondo Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane 2,15), il fondatore, al fine di popolare la città, avrebbe concesso accoglienza ai rifugiati provenienti dal resto d’Italia, permettendo loro di trovare riparo nel luogo sacro sul Campidoglio:
ἔπειτα καταμαθὼν πολλὰς τῶν κατὰ τὴν Ἰταλίαν πόλεων πονηρῶς ἐπιτροπευομένας ὑπὸ τυραννίδων τε καὶ ὀλιγαρχιῶν, τοὺς ἐκ τούτων ἐκπίπτοντας τῶν πόλεων συχνοὺς ὄντας, εἰ μόνον εἶεν ἐλεύθεροι διακρίνων οὔτε συμφορὰς οὔτε τύχας αὐτῶν ὑποδέχεσθαι καὶ μετάγειν ὡς ἑαυτὸν ἐπεχείρει, τήν τε Ῥωμαίων δύναμιν αὐξῆσαι βουληθεὶς καὶ τὰς τῶν περιοίκων ἐλαττῶσαι· ἐποίει δὲ ταῦτα πρόφασιν ἐξευρὼν εὐπρεπῆ καὶ εἰς θεοῦ τιμὴν τὸ ἔργον ἀναφέρων. Tὸ γὰρ μεταξὺ χωρίον τοῦ τε Καπιτωλίου καὶ τῆς ἄκρας […] ἱερὸν ἀνεὶς ἄσυλον ἱκέταις καὶ ναὸν ἐπὶ τούτῳ κατασκευασάμενος ὅτῳ δὲ ἄρα θεῶν ἢ δαιμόνων οὐκ ἔχω τὸ σαφὲς εἰπεῖν τοῖς καταφεύγουσιν εἰς τοῦτο τὸ ἱερὸν ἱκέταις τοῦ τε μηδὲν κακὸν ὑπ’ ἐχθρῶν παθεῖν ἐγγυητὴς ἐγίνετο τῆς εἰς τὸ θεῖον εὐσεβείας προφάσει καὶ εἰ βούλοιντο παρ’ αὐτῷ μένειν πολιτείας μετεδίδου καὶ γῆς μοῖραν, ἣν κτήσαιτο πολεμίους ἀφελόμενος. οἱ δὲ συνέρρεον ἐκ παντὸς τόπου τὰ οἰκεῖα φεύγοντες κακὰ καὶ οὐκέτι ἑτέρωσε ἀπανίσταντο ταῖς καθ’ ἡμέραν ὁμιλίαις καὶ χάρισιν ὑπ’ αὐτοῦ κατεχόμενοι.
(In seguito, constatato che molte città d’Italia erano rette da tirannidi malvagie e da oligarchie, [Romolo] cercava di accogliere e di attrarre a sé i fuggitivi di queste città, che erano numerosi, purché fossero liberi, senza esaminarne i casi e le sorti, volendo ampliare la forza dei Romani e diminuire quella dei vicini. Consacrò la zona che si trova tra il Campidoglio e l’Arce […] come asilo per i supplici e vi costruì un tempio non saprei dire a quale delle divinità, ai supplici che si fossero riparati in questo luogo sacro Romolo garantì che nulla avrebbero patito dai nemici per la pietà verso gli dei; se anzi avessero voluto rimanere presso di lui, li avrebbe resi partecipi della cittadinanza e di una quota di quelle terre che egli avesse conquistato strappandole ai nemici)
Una versione simile si legge anche in Ab Urbe condita I 8, 4-6:
Deinde, ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum, qui nunc saeptus escendentibus inter duos lucos est, asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis, sine discrimine liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit.
(Poi, perché non rimanesse vana la grandezza della città, volendo accrescerne la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori delle città, i quali vi attiravano una plebe umile ed oscura, e fingevano poi che la loro discendenza fosse nata dalla terra, Romolo aprì un asilo in quel terreno che ora si può vedere cinto da una siepe, salendo fra i due boschi sacri. Colà si rifugiò dalle popolazioni vicine una turba di ogni genere, senza distinzione fra liberi e schiavi, avida di novità, e questo fu il nerbo iniziale dell’incipiente grandezza)
Lo storico latino usa il termine asylum, traslitterazione del greco ἄσυλον, per indicare un luogo sacro e inviolabile dove un supplice può cercare scampo senza timore di essere allontanato. Tale sito, secondo la ricostruzione degli studiosi, corrisponderebbe all’attuale Piazza del Campidoglio. Ancora più interessante è l’informazione relativa alla motivazione che, a detta di Livio, avrebbe spinto Romolo ad accogliere una moltitudine indistinta di uomini: l’intenzione del re è non rendere vano l’aumento spaziale e demografico della città.
In precedenza infatti sono estese le mura dell’Urbe al di là del confine originario. La mossa del sovrano è legittimata dallo scrittore attraverso l’affermazione che tutti i popoli hanno origini umili e antenati di moralità non cristallina che tentano di celare inventandosi miti in cui narrano di discendere dalla terra. Il riferimento è palese: ad essere tirati in causa sono i Greci, i quali sostengono che Cadmo abbia fondato Tebe facendo scaturire dal suolo abitanti dopo aver seminato i denti del serpente della Fonte Claustralia.
Critico si mostra, al contrario, Giovenale, il quale in Satura VIII ricorda che gli antenati dei Romani sono pastori, schiavi e disertori. Una conferma di tali origini di Roma è riscontrabile anche in Vita di Romolo 9,3, dove Plutarco racconta:
ἔπειτα τῆς πόλεως τὴν πρώτην ἵδρυσιν λαμβανούσης, ἱερόν τι φύξιμον τοῖς ἀφισταμένοις κατασκευάσαντες, ὃ Θεοῦ Ἀσυλαίου προσηγόρευον, ἐδέχοντο πάντας, οὔτε δεσπόταις δοῦλον οὔτε θῆτα χρήσταις οὔτ’ ἄρχουσιν ἀνδροφόνον ἐκδιδόντες, ἀλλὰ μαντεύματι πυθοχρήστῳ πᾶσι βεβαιοῦν τὴν ἀσυλίαν φάσκοντες, ὥστε πληθῦσαι ταχὺ τὴν πόλιν, , ἐπεὶ τάς γε πρώτας ἑστίας λέγουσι τῶν χιλίων μὴ πλείονας γενέσθαι.
(Quando la città ebbe il suo primo insediamento [Romolo e Remo] istituirono un luogo sacro per accogliere i fuggitivi e lo posero sotto la protezione del dio Asilo, vi ricevevano tutti, non restituendo lo schiavo ai padroni né il povero ai creditori né l’omicida ai giudici; anzi proclamavano che in seguito al responso dell’oracolo di Delfi avrebbero concessero a tutti il diritto di asilo, cosicché presto la città si popolò; giacché si dice che le prime case non fossero più di mille)
La fonte greca colloca la fondazione dell’asilo in un periodo anteriore all’uccisione di Remo, sostenendo che i due gemelli hanno già raccolto presso di sé un gran numero di povera gente e schiavi. Plutarco non fornisce indicazioni precise sulla dislocazione del luogo sacro né sulla divinità al quale esso è dedicato. I commentatori antichi e moderni la identificano in Veiove, un dio notturno e malvagio che al contempo ha anche funzioni apotropaiche e purificatrici: la sua protezione, infatti, garantisce l’annullamento di tutti i pericoli derivanti dall’accoglienza e dall’integrazione degli individui loschi ospitati nell’asylum.
L’assenza di informazioni su questo misterioso essere divino è compensata dall’inserimento di un dettaglio non presente nelle altre testimonianze, ossia la protezione che l’oracolo di Delfi accorda alla decisione romulea. D’altro canto l’ἄσυλον esiste anche nella civiltà ellenica come luogo caratterizzato dall’inviolabilità. I Greci, analogamente ad altri popoli antichi, sono convinti che la sacralità di uno spazio si trasmetta per contatto e per irradiazione a chi in esso si rifugia. L’analisi del brano consente un’ulteriore riflessione: Plutarco concorda con Livio nell’individuare nella necessità di popolare la città in poco tempo la ragione dell’istituzione dell’asilo.
In maniera analoga Dionigi di Alicarnasso nelle sue Antiquitates romanae 1 sottolinea che l’allargamento della cittadinanza è uno strumento peculiare della grandezza di Roma, evidenziando come l’Urbe abbia fin dalle origini la vocazione ad essere città aperta conservandola nel corso di tutta la sua storia. Secondo lo storico, i Romani applicano un principio utilitaristico badando, relativamente agli stranieri che accolgono, non alla loro condizione sociale, ma al vantaggio che lo stato può ricavare da loro. La scarsità di popolazione è considerato un elemento di debolezza della città e di conseguenza l’accrescimento del numero degli abitanti diventa la principale preoccupazione.
Il discorso di Tullio Ostilio a Mezio Fufezio
L’autore attenua, tuttavia, contemporaneamente la freddezza di tale modus operandi esaltando in modo continuo l’atteggiamento filantropico che Roma osserva nel rapportarsi agli altri popoli. Emblematico è, in merito, il discorso che egli in Antiquitates romanae III,11 fa pronunciare a Tullio Ostilio:
ἐπειδὴ δὲ καὶ τοὺς βίους τῶν πόλεων ἀντιπαρεξετάζειν ἀλλήλοις ἐπεχείρεις, ὦ Φουφέττιε, λέγων ὅτι τὸ μὲν Ἀλβανῶν εὐγενὲς ὅμοιον ἀεὶ διαμένει, τὸ δ’ ἡμέτερον ἐξέφθαρται ταῖς ἐπιμιξίαις τοῦ ἀλλοφύλου, καὶ οὐκ ἠξίους ἄρχειν τῶν γνησίων τοὺς νόθους οὐδὲ τῶν αὐθιγενῶν τοὺς ἐπήλυδας, μάθε καὶ κατὰ τοῦτο ἁμαρτάνων μάλιστα τὸ δικαίωμα. ἡμεῖς γὰρ τοσούτου δέομεν αἰσχύνεσθαι κοινὴν ἀναδείξαντες τὴν πόλιν τοῖς βουλομένοις, ὥστε καὶ σεμνυνόμεθα ἐπὶ τούτῳ μάλιστα τῷ ἔργῳ, οὐκ αὐτοὶ τοῦ ζήλου τοῦδε ἄρξαντες, παρὰ δὲ τῆς Ἀθηναίων πόλεως τὸ παράδειγμα λαβόντες, ἧς μέγιστον κλέος ἐν Ἕλλησίν ἐστι, καὶ διὰ τοῦτο οὐχ ἥκιστα εἰ μὴ καὶ μάλιστα τὸ πολίτευμα. καὶ τὸ πρᾶγμα ἡμῖν πολλῶν γενόμενον ἀγαθῶν αἴτιον οὔτ’ ἐπίμεμψιν οὔτε μεταμέλειαν ὡς ἡμαρτηκόσι φέρει, ἄρχει τε καὶ βουλεύει καὶ τὰς ἄλλας τιμὰς καρποῦται παρ’ ἡμῖν οὐχ ὁ πολλὰ χρήματα κεκτημένος οὐδὲ ὁ πολλοὺς πατέρας ἐπιχωρίους ἐπιδεῖξαι δυνάμενος, ἀλλ’ ὅστις ἂν ᾖ τούτων τῶν τιμῶν ἄξιος. οὐ γὰρ ἐν ἄλλῳ τινὶ τὴν ἀνθρωπίνην εὐγένειαν ὑπάρχειν νομίζομεν, ἀλλ’ ἐν ἀρετῇ. ὁ δὲ ἄλλος ὄχλος σῶμα τῆς πόλεώς ἐστιν ἰσχὺν καὶ δύναμιν τοῖς βουλευθεῖσιν ὑπὸ τῶν κρατίστων παρεχόμενος.
(Siccome, o Fufezio, hai tentato di contrapporre le vita delle città, dicendo che il puro lignaggio degli abitanti di Alba è rimasto intatto, mentre il nostro si è degenerato con la mescolanza con il forestiero e che gli ingenui non sono degni di comandare i non ingenui né gli stranieri gli autoctoni, vedi quanto anche in ciò ti sei sbagliato. Noi infatti non ci vergogniamo di rendere la nostra patria comune a coloro che vogliono, anzi di ciò moltissimo ci gloriamo, né siamo noi gli autori di tale istituzione, ma ce ne diede l’esempio Atene, che tra i Greci è famosissima per questo motivo, almeno in parte se non in tutto. E questa pratica è fonte per noi di molti beni né ci procura biasimo e pentimento come se sbagliassimo. Tra noi comanda e governa e altri onori si gode chi di essi è degno non chi tiene molto oro né chi può mostrare schiere di avi nazionali, ma chi è degno di tali onori. Infatti consideriamo che la virtù non va posta nella nobiltà di natali, ma nella virtù. L’altra moltitudine non è che il corpo della città che fornisce forza e potenza ai saggi consiglieri)
Rispondendo a Fufezio che accusa i Romani di aver accolto Tirreni, Sabini e altri popoli contaminando la purezza della razza, Tullio Ostilio replica che Roma ha sostituito il primato della nascita quello del valore individuale progredendo da una condizione iniziale di debolezza grazie al superamento dell’oligantropia.
Attraverso le parole del sovrano, Dionigi di Alicarnasso pone l’accento sull’accortezza di una politica di concessione della cittadinanza che ha garantito la saldezza dello stato attraverso il costante incremento della popolazione. Nel farlo richiama l’esempio ateniese che viene presentato come modello del modus operandi politico di Roma. In realtà, la polis attica, pur concedendo la cittadinanza a singoli e a comunità, non fa di tale pratica lo strumento principale del proprio accrescimento.
La lettera di Filippo V di Macedonia ai Larissei
Altre parole elogiative sulla liberalità dei primi Romani nella concessione della cittadinanza agli stranieri sono spese da Filippo V di Macedonia nella lettera indirizzata agli abitanti di Larissa:
ἔξεστι δὲ καὶ τοὺς λοιποὺς τοὺς ταῖς ὁµοίαις πολιτογραφίαις χρωµένους θεωρεῖν ὧν καὶ οἱ Ῥωµαῖοί εἰσιν, οἳ καὶ τοὺς οἰκέτας ὅταν ἐλευθερώσωσιν, προσδεχόµενοι εἰς τὸ πολίτευµα καὶ τῶν ἀρχαίων µε[ταδι]δόντες, καὶ διὰ τοῦ τοιούτου τρόπου οὐ µόνον τὴν ἰδίαν πατρίδα ἐπηυξήκασιν, ἀλλὰ καὶ ἀποικίας χεδὸν [εἰς ἑβ]δοµήκοντα τόπους ἐκπεπόµφασιν
(mentre è possibile considerare anche gli altri che si servono di analoghe concessioni di cittadinanza, fra cui vi sono i Romani i quali accogliendo nella cittadinanza e lasciando accedere alle cariche anche gli schiavi, quando li liberano, anche attraverso tale sistema non solo hanno accresciuto la loro patria ma hanno anche dedotto colonie in quasi settanta siti)
In questo scritto della fine del III secolo a.C. il sovrano macedone esorta i suoi sudditi a seguire l’esempio romano per risolvere la profonda crisi demografica della città tessala. All’atteggiamento greco restio a qualsiasi apertura verso lo straniero egli contrappone la coscienza dei Romani di essere un popolo misto nato dalla fusione di etnie diverse in un’unità politica e morale. Tale predisposizione all’altro e al diverso si esprime, d’altro canto, già nell’incontro che, secondo il mito, avviene tra il profugo troiano Enea e gli abitanti del Lazio.