CONTENUTO
Gli ultimi giorni di vita di Cavour
Il 29 maggio 1861, dopo un’animata seduta alla Camera durante la quale si è dibattuto a lungo sul tema del riconoscimento da parte del Parlamento dei servizi prestati dagli ufficiali che hanno combattuto a Roma nel 1849 e sulle spese eccedenti relative ai bilanci del 1860, Camillo Benso conte di Cavour rientra a casa provato dalla discussione. Al domestico che lo vede stanco e lo esorta a prendersi qualche giorno di riposo lo statista replica: «Non ne posso più, ma bisogna lavorare egualmente, il paese ha bisogno di me, forse questa estate potrò andare a riposarmi in Isvizzera presso dei miei amici».
Subito dopo il Presidente del Consiglio del neonato Regno d’Italia cena insieme al fratello Gustavo e al nipote, come da abitudine, aggiornandoli sulla discussione politica del giorno e affrontando alcuni affari di famiglia con il fratello. Una volta finito il pasto e fumato il consueto sigaro in terrazzo, Cavour si ritira nella sua stanza per riposare qualche ora prima di dedicare il resto della notte al lavoro.
Lo statista piemontese riesce a dormire per circa un’ora, quindi si sveglia colpito da violenti dolori intestinali che gli provocano conati di vomito, al domestico che sopraggiunge nella sua stanza sussurra: «Ho una delle mie abituali indisposizioni e temo un attacco di apoplessia, andate a cercarmi un medico».
Ad essere chiamato è il dottor Rossi, il medico di fiducia della famiglia Cavour, che dopo aver visitato il malato ordina un primo salasso che inizialmente sembra portare qualche giovamento. Incoraggiato dal temporaneo successo il medico ordina un secondo e un terzo salasso il giorno seguente tanto che la nipote di Cavour, Giuseppina Alfieri, ricorda nelle sue memorie di aver trovato lo zio la sera affaticato e con la febbre molto alta.
La malattia di Cavour
Prima di proseguire nella narrazione degli ultimi giorni di vita di Cavour è necessario soffermarsi brevemente su un quesito. Da quale male viene colpito lo statista piemontese la notte del 29 maggio 1861?
L’origine della sua malattia va individuata nella tenuta di Leri, situata nella zona bassa vercellese, dove il conte ha trascorso diversi periodi nel corso della sua esistenza. In quelle zona, infatti, sono assai diffuse la malaria e la tubercolosi e nel periodo primaverile ed estivo il territorio è infestato da quelli che Cavour definisce in una lettera i “moschini”. In realtà non si tratta di moschini ma delle zanzare Anopheles che contribuiscono a trasmettere la malaria alle persone.
Un primo riferimento di Cavour ai suoi problemi di salute lo troviamo in una lettera che egli scrive il 23 agosto 1836 all’amico Emile de La Rue al quale confida di aver avuto una brutta infiammazione alla gola che è stata curata con un salasso. In seguito al primo soggiorno del 1836, a partire dal 1843 Cavour si reca con frequenza nella proprietà di famiglia e di conseguenza i suoi disturbi si intensificano.
Il politico piemontese impara a convivere con i problemi di salute tanto che nelle sue lettere definisce le crisi malariche che lo affliggono periodicamente con espressioni del tipo “infiammazioni di ventricolo”, “un attacco di sangue” o “il mio solito disturbo”. Nel corso degli anni i medici stessi sottovalutano i danni che a lungo andare gli attacchi malarici avrebbero potuto procurare all’organismo del malato limitandosi a suggerire al paziente di cambiare aria intraprendendo dei viaggi in altri luoghi.
A tutto questo si deve aggiungere che nel mese di maggio 1861 lo stato d’animo di Cavour non è dei migliori per le difficoltà quotidiane e le fatiche mentali che da diversi anni ormai deve affrontare nel suo ruolo di Presidente del Consiglio, tanto che egli stesso ha la netta sensazione di essere precocemente invecchiato scrivendo di essere giunto ad “una vecchiaia prematura cagionata da dolori morali d’impareggiabile amarezza”.
Le cure dei medici
La mattina del 31 maggio 1861 la febbre è scomparsa e Cavour si rimette a lavoro ricevendo nella sua stanza alcuni ministri e i collaboratori Costantino Nigra e Isacco Artom. Alla nipote Giuseppina confessa di sentirsi meglio e di essere determinato a non perdere altro tempo poiché l’Italia, il sovrano Vittorio Emanuele II e il Parlamento hanno bisogno di lui.
Nonostante le buone disposizioni, però, quella notte sopraggiunge un’altra crisi con attacchi di brividi e febbre alta. Il dottor Rossi sentenzia che si tratta di una congestione cerebrale e somministra del chinino, ma visto che non si ottengono risultati ricorre ad un nuovo salasso.
La febbre alta inizia a far delirare Cavour che parla delle tante cose che ancora rimangono da fare per l’Italia, del prestito pubblico di cinquecento milioni e della lettera che attende dall’imperatore Napoleone III di Francia che dovrebbe sancire il riconoscimento ufficiale della nuova entità statale ed accelerare il processo per far diventare Roma capitale del Regno; al medico di fiducia il malato lancia un appello: «Signore, fate presto a guarirmi. Ho l’Italia sulle braccia, il tempo è prezioso».
Impressionato dal peggioramento delle condizioni del paziente il dottor Rossi convoca il chirurgo Maffoni il quale non può fare altro che confermare la diagnosi del collega consigliando il ricorso al chinino liquido e ad un nuovo salasso. Nel frattempo giunge in visita il principe di Carignano che successivamente ricorderà: «Mi disse che aveva lavorato troppo, che aveva bisogno di un certo periodo di riposo ma che, al momento attuale, questo gli era impossibile».
Il mattino seguente i medici decidono di attuare sul malato “dei senapismi alle gambe e sulla testa e l’applicazione continua di vesciche piene di ghiaccio”, ma anche questi rimedi non raggiungono l’effetto sperato. Rimasto solo con il proprio domestico Cavour gli chiede di chiamare padre Giacomo da Poirino, parroco della Chiesa della Madonna degli Angeli, dal quale ha ottenuto anni prima la promessa di ricevere gli ultimi sacramenti religiosi nonostante la scomunica papale.
I conforti religiosi di Cavour e la visita di Vittorio Emanuele II
Nel frattempo la notizia del peggioramento delle condizioni di salute del conte ha fatto il giro della città spingendo molti torinesi a recarsi sul posto e a riempire per diverse ore il vestibolo, il cortile e lo scalone del palazzo. Il 4 giugno 1861 la situazione è ormai disperata e anche i medici non sembrano avere più speranze sulla guarigione.
Cavour rimane a colloquio con padre Giacomo da Poirino per circa mezz’ora; quindi, sollevato per il conforto religioso ricevuto afferma: «Devo prepararmi al grande passo dell’eternità. Mi sono confessato e ho ricevuto l’assoluzione. Voglio che il buon popolo di Torino sappia che io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo. Io non ho mai fatto del male a nessuno, almeno per quanto ne so, volontariamente».
Il pomeriggio del 5 giugno, prima dell’arrivo del medico di corte Riberi fatto chiamare dalla nipote di Cavour, una folla numerosa e silenziosa prende parte alla processione che dalla chiesa della Madonna degli Angeli giunge al palazzo Cavour con il Santo Sacramento che consente al Presidente del Consiglio di ricevere il Viatico “fra i singhiozzi della famiglia e di una popolazione desolata”.
Il Riberi, una volta arrivato a palazzo, visita il paziente e dopo essersi consultato con i colleghi non gli resta che far assumere del cibo a Cavour oramai giunto allo stremo delle forze. Verso le nove di sera il sovrano Vittorio Emanuele II arriva al capezzale del suo primo ministro entrando da una piccola scala e per una porta nascosta. Riconosciuto il re Cavour inizia a parlargli della lettera di Napoleone, che spera ancora di ricevere ma che non arriverà mai dal momento che l’imperatore francese decide di non scrivere nulla una volta giunto a conoscenza della malattia del conte, e dei napoletani di cui riconosce l’ingegno e le potenzialità per il futuro italiano.
Dopo aver stretto la mano al ministro morente Vittorio Emanuele II si sofferma qualche minuto a parlare con i medici invitandoli a tentare un ulteriore salasso, magari cavando del sangue dalla vena giugulare; ogni altro intervento viene però rimandato poiché il polso del conte è troppo debole.
Nelle sue ultime ore di vita Cavour, ormai delirante, rivolge i suoi ultimi pensieri ancora una volta al futuro del regno: «L’Italia del Nord è fatta non vi sono più Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli; noi siamo tutti Italiani; ma vi sono ancora dei Napoletani. Oh! vi ha molta corruzione nel loro paese. Non è loro colpa, poveri diavoli, furono così mal governati. Gli è quel briccone di Ferdinando. No, no, un governo tanto corruttore non può essere ristaurato, la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il paese, educare i fanciulli e la gioventù, creare delle sale d’asilo, dei collegi militari; ma non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani. Essi mi domandano degli impieghi, delle croci, degli avanzamenti; bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, avanzamenti, decorazioni».
La morte di Cavour il 6 giugno 1861
Cavour si spegne alle sei e quarantacinque del 6 giugno 1861 all’età di cinquant’anni con accanto i familiari tra i quali è presente la nipote Giuseppina Alfieri che così descrive gli ultimi minuti di vita terrena dello statista piemontese:
Mandammo a chiamare il Padre Giacomo, che giunse alle cinque e mezzo coll’Olio Santo. Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato». Queste furono le sue ultime parole. Il parroco gli amministrò il Sacramento degli agonizzanti in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici. Mio zio mi fece più volte segno di dargli del ghiaccio sminuzzato, ma avvedendomi che lo inghiottiva con difficoltà, bagnai il mio fazzoletto nell’acqua gelata e con esso inumidii le sue labbra. Ebbe ancora la forza di prendere dalle mie mani il fazzoletto, e di recarselo egli stesso alla bocca per ispegnere la sete inestinguibile che lo divorava; qualche minuto dopo, giovedì 6 giugno, alle ore sei e tre quarti del mattino, due deboli colpi di rantolo tosto repressi ci fecero conoscere, che senza soffrire, senza agonia aveva reso l’anima a Dio.
Le reazioni in Italia e all’estero alla morte di Cavour
La notizia della morte di Cavour si diffonde subito in tutta Torino che si risveglia quel fatidico giorno più silenziosa che mai; i negozi sono chiusi e lo rimarranno per diversi giorni, nelle strade le carrozze che si intravedono sono poche.
Gli atti parlamentari relativi alla seduta del 6 giugno 1861 menzionano l’indescrivibile emozione che si impadronisce dell’aula e dei deputati durante la breve riunione nella quale il Presidente Urbano Rattazzi annuncia la sospensione dei lavori parlamentari per tre giorni e ricorda l’opera svolta da Cavour:
Sono certo di esprimere un sentimento altamente impresso nell’animo di noi tutti, dichiarando che la perdita di quell’eminente uomo di Stato è una grande sventura per la patria. Colla potenza del suo ingegno, colla forza della sua volontà, egli aveva resi, in circostanze così straordinarie, segnalati servigi all’Italia, e stava come in procinto di mettere la corona alle comuni speranze, ai voti comuni. (…) Sì, o signori, noi siamo profondamente afflitti per la sciagura che ci ha colpiti, privandoci dell’opera e del senno di un sì illustre statista.
La precoce scomparsa del Presidente del Consiglio, che il compositore Giuseppe Verdi aveva precedentemente soprannominato il “Prometeo del nostro movimento nazionale” e che considera il “vero padre della patria“, viene percepita non solo dalla classe dirigente, ma dalla stessa opinione pubblica e dalla popolazione civile, come una vera e propria catastrofe nazionale.
Il sovrano nel suo messaggio commemorativo per lo statista sprona gli italiani a “proseguire sulla strada da lui tracciata per la realizzazione del suo programma italiano”, mentre il generale Giuseppe Garibaldi, da Caprera, ricorda che il conte “era un avversario col quale faceva sempre piacere misurarsi”.
Il cordoglio per la morte di Cavour è pressoché unanime anche all’estero: Napoleone III di Francia manifesta la preoccupazione che con la scomparsa del grande statista piemontese “i cavalli” possano “imbizzarrirsi e rifiutarsi di rientrare nella stalla” (riferendosi agli italiani) e per questo motivo interrompe immediatamente i negoziati che aveva avviato con Cavour relativi al ritiro dei soldati francesi da Roma; dal Parlamento britannico John Russell ricorda Cavour come il “grande liberatore d’Italia” mentre lord Henry Palmerston afferma nell’elogio per il conte che la sua memoria “vivrà sino a che la storia ricorderà le sue gesta” definendolo uno dei “più eminenti patrioti che abbiano illustrato la storia di tutti i paesi”.
Dopo i funerali, ai quali partecipa l’intera città di Torino, la salma di Cavour viene tumulata a Santena nella cappella di famiglia, accanto a quella dell’amato nipote Augusto morto a vent’anni nella battaglia di Goito, e sulla tomba, per sua volontà, viene scritta l’epigrafe: “Sono figlio della libertà, ad essa debbo tutto quel che sono”.
A partire dall’anno successivo alla sua morte in ogni città italiana iniziano ad essere erette statue commemorative in onore di Cavour, tuttavia, quanto grave sia stata per il neonato Regno d’Italia la perdita della sua mente più ingegnosa e lungimirante lo si può facilmente constatare analizzando la storia degli anni successivi nei quali nessun uomo al governo dimostrerà di possedere qualità politiche e diplomatiche paragonabili a quelle di Camillo Benso conte di Cavour.
Note:
Per la ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Cavour si è ricorso alle memorie della nipote Giuseppina Alfieri, scritte in una lettera indirizzata al signor William de la Rive, dove racconta dettagliatamente l’ultima malattia dello zio. Tale lettera è stata pubblicata sul quotidiano L’Opinione il 26 di luglio 1862, N° 203.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- Denis Mack Smith, Cavour: Il grande Tessitore dell’Unità d’Italia, Bompiani, 2013.
- Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, Laterza, 2004.
- W. De la Rive, Il conte di Cavour. Racconti e memorie, Santena, 2003.
Egregio dottor Muccilli, ho confrontato il suo articolo con quello del dottor Ugo Terracciano (Presidente AICS), avente lo stesso oggetto: morte di Cavour.
I due articoli narrano una personalità molto diversa di Cavour in un contesto sociale e politico molto diverso. Anche la figura della nipote e dei medici sono descritto in toni diametralmente opposti. Può darmi una sua opinione?
Grazie
Gentile dottor Bruno Perchiazzi,
non ho avuto modo di leggere l’articolo del dottor Ugo Terracciano, pertanto le rispondo per quello che riguarda questo articolo. Per ricostruire gli ultimi giorni di vita di Cavour ho fatto prevalentemente affidamento (chiaramente senza stravolgere il contenuto del documento) sul resoconto della nipote Giuseppina Alfieri pubblicato in forma di lettera sul quotidiano L’Opinione il 26 di luglio 1862. Oltre a questo documento mi sono avvalso poi di vari libri dedicati a Cavour la cui figura ho avuto modo di approfondire nel corso dei miei studi. Tra questi libri cito quelli di cui sono in possesso: Denis Mack Smith, Cavour: Il grande Tessitore dell’Unità d’Italia, Bompiani, 2013; Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, Laterza, 2004; Luciano Cafagna, Cavour, Il Mulino; Camillo Benso Cavour, Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, BUR Biblioteca Universitaria Rizzoli, 2010.
La mia opinione sull’operato politico di Cavour è senza dubbio positiva, come si può evincere da questo articolo, ma anche dagli altri dedicati al personaggio che abbiamo pubblicato su questo sito in occasione dei cento sessant’anni dalla morte. Personalmente apprezzo le qualità politiche del personaggio soprattutto se si analizza la storia politica italiana prima e dopo la morte di Cavour; ritengo che lui sia stato, se non il più abile, sicuramente uno dei pochi statisti di spessore che l’Italia unita abbia avuto nei suoi centosessant’anni di vita.
Spero di non aver deluso le sue aspettative con questa risposta.
Cordiali saluti!
Mirko Muccilli