CONTENUTO
di Virginia Gaudioso, docente di Lingua e Letteratura Inglese e autrice del romanzo “Donne di mare“.
Murate vive: Marianna De Leyva e le monache di Monza
Nel corso dei secoli le monacazioni forzate sono diventate degli strumenti coercitivi usati da padri tirannici per liberarsi, sotto pagamento di un’esigua somma di denaro, della scomoda presenza di figlie che venivano rinchiuse in monastero contro la loro volontà, per mantenere intatto e integro il patrimonio familiare che spettava al primogenito figlio maschio. Questa ingiusta tradizione risale alla Legge del Maggiorasco, che stabiliva che l’unico e solo erede di un cospicuo patrimonio familiare venisse dato al figlio primogenito maschio.
Tale legge si diffonde in Spagna nel XVI secolo e si propaga anche in Italia e in Europa. Viene abolita solo dopo l’unità d’Italia, nel 1865. “O il marito, o il convento”. Con queste parole si definisce il destino delle figlie nelle famiglie nobili non solo di Venezia, ma di tutta Italia, a partire dal Quattrocento, raggiungendo il culmine massimo nel Seicento. Nella repubblica di Venezia, come in altre città italiane, le famiglie dei ceti dominanti pianificano i matrimoni e le monacazioni delle proprie figlie secondo canoni sociali, politici ed economici.
Secondo alcune stime del passato si evince, per esempio, che a Venezia la dote per fare sposare una figlia si aggira intorno ai 15,000 ducati, mentre per andare in monastero ne servono soltanto 1200, pertanto conviene economicamente molto di più rinchiudere le ragazze in un convento piuttosto che farle sposare. Un magistrato veneziano addetto ai conventi ha dichiarato: “Quelle che vivono in un monastero come in un deposito sono in numero tale, che se fossero libere, sarebbe sovvertito l’ordine della città”.
L’Inferno monacale di Suor Arcangela Tarabrotti
Suor Arcangela Tarabrotti (1604-1652), entra da giovane e contro la sua volontà, nel monastero di Sant’Anna di Venezia, dove passa il resto della vita. Sfruttando l’unica libertà ancora concessale, cioè quella di scrivere, denuncia nel suo “Inferno monacale”, la tragica esperienza vissuta sulla sua pelle:
“Quel luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre, a poco a poco si rivela loro come inferno perché privo di speranza di uscire”.
L’opera circola manoscritta, ritrovata in anni recenti, trascritta e pubblicata da Francesca Medioli, descrive la vita claustrale e denuncia i soprusi, la condotta scandalosa di molte monache ma, soprattutto, si scaglia violentemente contro la famiglia e la Repubblica che consente “di monacar le figliole forzatamente”.
Non a caso a quest’opera si affianca “La tirannide paterna”, denuncia all’obbligo che i padri impongono alle figlie, destinandole contro la loro volontà al monastero. Il conflitto tra lo stato di estraniamento dal mondo e dagli affetti, provocato dalla monacazione forzata e l’amore, è trattato nelle “Lettere Portoghesi” del 1669, di autore anonimo. E’ un romanzo epistolare, una raccolta di lettere scritte con nostalgia da una monaca segregata in monastero al suo amato.
A livello letterario un esempio memorabile ci viene dato dal filosofo e scrittore illuminista Denis Diderot nella sua opera “La religieuse”, che testimonia come tale condizione femminile persiste nella Francia prossima alla rivoluzione. Anche Giovanni Verga dedica un racconto a questo tema con “Storia di una capinera”, ambientata in Sicilia nella seconda metà dell’800, in cui la monacazione forzata è ancora una tradizione fortemente consolidata. Secondo i critici la protagonista del racconto sarebbe stata una zia di Verga, costretta anch’ella a prendere i voti senza alcuna vocazione.
La monaca di Monza, Marianna De Leyva
Nel celebre romanzo “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, con la monaca di Monza abbiamo l’esempio più drammatico e scellerato di questa condizione. Gertrude viene sottoposta fin dalla nascita ad una costante e pressante pressione psicologica per diventare suora. Da piccola gli unici regali che riceve sono santini o bambole in abiti monacali. Cerca di opporsi per come può alla prevaricazione del padre freddo e calcolatore, ma inutilmente, finirà in convento contro la sua volontà e le conseguenze saranno catastrofiche. Maledirà il padre dicendogli:
“Il tuo dispotismo, i tuoi inganni, le tue sopraffazioni, le tue viscide ipocrisie fanno di te un demonio! Da quel chiostro implorerò vendetta! Quando sarai sul punto di morte, padre snaturato e barbaro, e dovrai fare i conti con il Supremo Giudice, lo supplicherò affinché non abbia pietà di un essere immondo che seppellisce viva sua figlia!”
Marianna si sente pugnalata alle spalle nell’indifferenza e nel silenzio più totale. Marianna De Leyva, la monaca di Monza del Manzoni, vive nel monastero di Santa Margherita e con lei vi sono altre giovani donne costrette ad indossare il velo contro la propria volontà. Vivono in un ambiente corrotto di sortilegi, malefici e lussuria sfrenata imposto e tollerato ipocritamente dallo stesso clero.
Le giovani donne sacrificano la loro vita per puri motivi di calcoli e d’interesse, catapultate da un mondo che gli prospetta sogni di gloria e di felicità al silenzio claustrofobico delle celle dove emerge in poco tempo una devastante disperazione per l’impossibilità di poter uscire da quel lugubre posto fino a nutrire invidia e cattiveria verso chiunque.
“Sotto l’abito claustrale si celavano le tentazioni, s’insinuavano i peccati, si profanavano i corpi e le anime. Se la Religione ne fu oltraggiata, la colpa va ricercata nell’infamia della nobiltà e del potere civile e religioso arroccato nei propri privilegi e nell’uso ignobile delle fanciulle”.
Poiché il clero è quasi sempre connivente con questa barbara pratica della vita monacale indotta, viene tollerato che le fanciulle si possano prendere qualche svago con la complicità di tutti, ed è consuetudine consolidata che i monasteri diventino dei postriboli, piuttosto che luoghi di preghiera e di meditazione.
Alessandro Manzoni riesce a racchiudere il dramma della monaca di Monza con la significativa espressione: “La sventurata rispose”. E’ sventurata sia perché è costretta a subire l’imposizione del padre a farsi suora e nello stesso tempo perché è costretta ad ingannare e a mentire, per paura dello scandalo che avrebbe dovuto affrontare in famiglia, se avesse confessato a tutti le pressioni subite. E’ sia vittima che colpevole in quanto la mancanza di forza interiore, che costituisce l’aspetto determinante della sua personalità, non la giustifica moralmente, secondo Manzoni, perché avrebbe potuto attingere la forza che le mancava proprio da quella religione alla quale era stata sacrificata.
Dopo dieci anni di relazione tempestosa e sacrilega con Osio, la nascita di un figlio morto e di una figlia data in adozione, l’omicidio di una conversa e di altri probabili testimoni uccisi sempre da Osio, tutto il castello di menzogne costruito ad arte e l’omertà imposta a prezzo della vita ha finalmente fine e Marianna De Leyva e tutti gli altri devono fare i conti con la giustizia. Il 18 ottobre 1608 il tribunale ecclesiastico di Milano emette la sentenza:
“Suor Virginia Maria De Leyva, monaca professa nel monastero di santa Margherita di Monza, nella diocesi di Milano, soggetto alla giurisdizione di questa Curia, fu realmente ed effettivamente, non solo per assai testimonianze, ma altresì per proprie confessioni, convinta di molti gravi, enormi, atrocissimi delitti, dei quali consta nel processo istituito contro di lei e le altre religiose sue complici; onde ella appare con ogni evidenza essere rea, colpevolissima, e per ogni titolo punibile: perciò la condanniamo alla pena, finché avrà vita chiusa e murata così di giorno come di notte, e sino al suo trapasso.”
Suor Virginia accoglie la sentenza dei giudici come una liberazione, viene prontamente rinchiusa in un’angusta cella buia e malsana dove la sventurata è costretta a sopportare il freddo intenso, l’umido e il caldo soffocante. Non possiede alcun abito di ricambio e nessuna coperta, può solo sdraiarsi su della paglia che viene cambiata ogni sei mesi. Il recipiente delle deiezioni è svuotato ogni quattro o cinque giorni per cui è costretta a respirare aria fetida per tutto il tempo. Non appartiene più al mondo.
Mentre la stavano murando viva aveva sussurrato: “La più grande peccatrice del mondo, cloaca puzzolente alle narici di Dio, per i miei peccati la giustizia del mio Signore ha voluto che io fossi castigata a vivere il resto della mia vita in una cella con porta e finestra murate. Privata di ogni umano conforto, colma di calamità, disagi e infermità, mi conceda il Salvatore di comprendere la sua infinita Misericordia. Il suo grandissimo cuore risani le mie piaghe”.
Dopo quattordici anni murata viva suor Virginia chiede di poter parlare con il cardinale Federico Borromeo il quale all’inizio è molto scettico sul reale pentimento e sulla conversione di una monaca scellerata. Ma vedendola misera, lacera, sporca, si rende conto che la donna che si trova davanti non è più la suora che aveva scandalizzato per anni un luogo di preghiera, ma che è stata toccata dalla divina misericordia e quindi decide di farla ritornare in una cella del convento dove può così aiutare tutte le giovani novizie costrette a prendere il velo senza vocazione e soprattutto evitare che possa accadere a loro ciò che era successo a lei. “Le indicibili sofferenze sopportate con dignità le avevano purificato gli occhi per vedere, gli occhi per ascoltare e la mente per risorgere”.
E’ necessario ricordare che anche le tre suore che l’avevano aiutata nella sua relazione clandestina con Osio erano state anch’esse murate vive e una di loro si era suicidata per la disperazione. Osio era stato condannato a morte, aveva cercato rifugio a Milano a casa di amici, ma alla fine era stato assassinato proprio da uno di loro. La cosa più sconvolgente di questo processo è che il padre confessore Paolo Arrigoni, responsabile in prima persona della tresca tra suor Virginia e Osio, uomo viscido e perverso che violentava le suore e le novizie anche nel confessionale, viene condannato a soli tre anni di carcere.
Suor Virginia e le altre invece, vittime di un sistema sociale ingiusto verso le donne poiché sono costrette a prendere i voti senza alcuna vocazione e si ritrovano in un ambiente squallido e volgare, di cui tutti sono a conoscenza ma fanno finta ipocritamente di non sapere, vengono mandate deliberatamente allo sbaraglio senza potersi difendere.
Lettura consigliata:
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Bruna K. Midleton, Murate vive. Marianna de Leyva e le monache di Monza, Bonfirraro, 2019.