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Storia del militarismo Giapponese: dal Periodo Meiji alla Guerra Mondiale

di Riccardo Andreatta
1 Giugno 2025
TEMPO DI LETTURA: 26 MIN

CONTENUTO

    • Il militarismo giapponese, caratteristiche principali
    • Occidentalizzazione dello stato?
    • Le forze armate del Giappone
    • Dal Trattato di Versailles alla Conferenza di Washington
  • Mancate riforme democratiche del primo periodo Taisho
  • Il fallimento dei governi “trascendenti”
  • Controllo ideologico,  strumenti di coercizione e propaganda
  • Il ruolo della crisi economica degli anni 20
  • La svolta militarista e l’economia di guerra
  • L’alleanza del Giappone con le potenze dell’Asse, l’espansione militare
    • La fine del militarismo giapponese

Il militarismo giapponese, caratteristiche principali

Il militarismo giapponese (1926–1945) rappresenta un’epoca in cui le forze armate acquisiscono potere crescente, mantenendo formalmente la centralità dell’Imperatore, secondo la Costituzione Meiji (1889), modellata su quella prussiana. Tuttavia, il Mikado è figura simbolica, mentre il governo è dominato da un’oligarchia militare e burocratica. Le forze armate, autonome, guidano la politica nazionale, con generali spesso nominati primi ministri. La polizia segreta Kempeitai reprime dissenso e idee occidentali. Le riforme Meiji, nate per modernizzare il Paese ed eliminare i trattati ineguali con l’Occidente, si fondano su un’accorta selezione di istituzioni occidentali adattate al contesto nipponico. L’esercito diventa strumento sacro dell’Imperatore, mentre la marina si sviluppa tecnologicamente fino a dominare il Pacifico.

Il fascismo giapponese (tennosei fashuzismu) differisce da quello europeo: non c’è partito unico, ma una militarizzazione dello Stato, sostenuta da un nazionalismo imperiale e darwinismo sociale, volto a garantire al Giappone un ruolo guida in Asia. Dopo la Prima guerra mondiale, il Giappone aspira a essere riconosciuto come grande potenza, ma il Trattato di Versailles e la Conferenza di Washington ne limitano l’espansione, alimentando risentimento e nazionalismo. L’assenza di vere riforme durante l’era Taishō, l’instabilità politica e la repressione del dissenso impediscono la democratizzazione. La crisi economica degli anni Venti e il terremoto del 1923 aggravano la situazione. La repressione si inasprisce con la legge del 1925 contro le ideologie sovversive. L’influenza di Kita Ikki promuove un nazionalismo radicale, mentre l’esercito guadagna potere. La crisi del 1929 porta a politiche espansionistiche e militariste. Grazie alle riforme economiche di Takahashi Korekiyo, il Giappone si riprende, ma a prezzo di un’economia sempre più militarizzata. L’invasione della Manciuria nel 1931 e della Cina nel 1937 segnano l’inizio di una guerra totale e dello stato dirigista, culminato con la Legge di mobilitazione nazionale del 1938, che si concluderà con le bombe atomiche e la fine dell’imperialismo giapponese.

L’espressione “militarismo giapponese” identifica lo specifico periodo storico che il Giappone esperienzia almeno dal 1926 al 1945, ovvero dall’epoca Showa, quando ascende allo scranno imperiale Hirohito. Nella forma, il governo giapponese rimane quello “tradizionale”, in accordo alla costituzione Meiji, emanata nel 1889, modellata su quella prussiana ma con le peculiarità del Paese arcipelagico. Non si deve paragonare l’esperienza giapponese a quelle europee del Terzo Reich o del Fascismo. Infatti, se l’Italia e la Germania vedono l’affermarsi di un partito unico al governo del paese, in Giappone sono i militari che riescono ad ottenere sempre più potere, ma senza esautorare l’autorità imperiale. Per comprendere appieno questo fenomeno è utile prima di tutto delineare il contesto storico politico delle riforme Meiji, uno dei cui prodotti principali è la Costituzione giapponese, in secondo luogo i limiti, i poteri effettivi delle Forze armate giapponesi, gli effetti della Grande guerra e delle Convenzioni di Washington. Spazio verrà dato anche alla diffusione e alla rilevanza che hanno avuto le idee socio politiche occidentali, alla crisi economica degli anni venti e il tennosei fashuzismu, il fascismo giapponese.

La Costituzione Meiji riorganizza lo stato secondo il modello della monarchia costituzionale prussiana, perché la forma di governo occidentale ritenuta più simile all’Impero giapponese, Dai Nippon Teikoku, che letteralmente significa L’Impero del grande Giappone. Formalmente affida il potere al Mikado, l’imperatore, tuttavia esso viene amministrato dagli organi prossimi allo scranno imperiale, soprattutto il Consiglio privato dell’imperatore. Altri organi fondamentali sono: il Consiglio dei ministri, la Dieta imperiale, la Camera dei pari, la burocrazia e le Forze armate imperiali vere e proprie. All’interno del Consiglio dei ministri giocano un ruolo decisivo il Ministro degli interni e quello della guerra. Infatti, il primo ha alle sue dipendenze la polizia politica Kokutai, che poi diviene anche militare e che si coprirà di nefandezze simili a quelle della Gestapo nei territori amministrati dai nipponici.

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La vaghezza istituzionale e la debolezza che in realtà ha il mikado derivano anche dalla morte prematura dell’Imperatore Komei a quarantuno anni, che lascia il futuro Mutsuhito a governare il paese alla tenera età di quindici anni. Insieme alla creazione di organi come la Dieta imperiale e dei consigli dei ministri e Consiglio privato dell’imperatore, viene data totale autonomia alle forze armate che diventano non solo indipendenti rispetto agli organi esecutivi, ma alti vertici delle stesse diventano primi ministri. Per dare stabilità al paese, evitare ulteriori ingerenze straniere dopo gli iniqui trattati commerciali degli anni 60 del XIX secolo ed infine dare al paese il ruolo di grande potenza, i riformatori Meiji scelgono di dare una decisiva rilevanza al ruolo dell’imperatore. Termina quindi l’epoca dello shogunato e dei daimyo, l’equivalente dei nostri signori feudali. Essi però non vengono sconfitti solo militarmente, ma entrano a far parte della nuova classe dirigente come amministratori di aziende o burocrati.

Tuttavia, i daimyo non hanno assolutamente intenzione di rinunciare pacificamente al proprio potere e cercano di resistere militarmente alla modernizzazione, cercando di acquistare equipaggiamento militare dall’occidente. Tra il 1855 e il 1868 il Giappone vive un periodo di guerre civili tra l’autorità imperiale e i daimyo. Ci sono potenze straniere, come la Francia di Napoleone III, che appoggia gli shogunati ribelli di Chosho e Satsuma, mentre Gran Bretagna, Paesi Bassi e Stati Uniti sostengono quelle lealiste imperiali. Queste ultime sconfiggono definitivamente le forze ribelli nella battaglia di Hakodate del 1868, che simbolicamente è anche la prima battaglia giapponese tra navi moderne, rappresentando dunque una decisiva cesura con il passato e l’inizio della modernità nell’arcipelago. 

Tuttavia, i daimyo non hanno assolutamente intenzione di rinunciare pacificamente al proprio potere e cercano di resistere militarmente alla modernizzazione, cercando di acquistare equipaggiamento militare dall’occidente. Tra il 1855 e il 1868 il Giappone vive un periodo di guerre civili tra l’autorità imperiale e i daimyo. Ci sono potenze straniere, come la Francia di Napoleone III, che appoggia gli shogunati ribelli di Chosho e Satsuma, mentre Gran Bretagna, Paesi Bassi e Stati Uniti sostengono quelle lealiste imperiali. Queste ultime sconfiggono definitivamente le forze ribelli nella battaglia di Hakodate del 1868, che simbolicamente è anche la prima battaglia giapponese tra navi moderne, rappresentando dunque una decisiva cesura con il passato e l’inizio della modernità nell’arcipelago. 

Occidentalizzazione dello stato?

Come in occidente, dove presupposto per la Rivoluzione industriale è quella politica, anche nel Dai Nippon, il Giappone, la Restaurazione Meiji procede adattando le forme politiche occidentali a quelle giapponesi, al fine di favorire l’accentramento imperiale. L’obiettivo ultimo di queste riforme non è assimilarsi alla cultura e tradizioni occidentali in tutto e per tutto, ma vengono importate quelle conoscenze utili allo scopo di costituire una potenza in grado di primeggiare nell’agone internazionale e di cancellare i Trattati ineguali degli anni 60. Nel 1889 dunque, entra in vigore la Costituzione Meiji. Se è simile come concetto a quella della monarchia costituzionale prussiana, la prima differenza lampante è che l’imperatore è legalizzato dalla Costituzione come una vera e propria divinità, ma senza l’autorità precisa e definita del Kaiser, che invece nel Secondo Reich ha poteri effettivi, come quando destituisce autonomamente il Cancelliere Otto Von Bismarck dall’incarico. Pertanto, il Mikado detiene un’autorità religiosa e morale piuttosto che politica, oltre che il simbolismo di tale figura è cambiato nel corso della storia, Costituzione Meiji, Art. 3. 

Il ruolo politico vero e proprio lo detiene una oligarchia militarista che progressivamente ottiene il potere, ricoprendo cariche nelle seguenti istituzioni: il Gabinetto con i suoi ministri, l’Esercito di mare e di Terra, l’Alta burocrazia imperiale ed infine, ma non meno importante, il Consiglio Privato. La Dieta, la Camera dei Rappresentanti è sì soggetta ad elezioni, ma ristrette, mentre la Camera dei Pari è composta dall’alta aristocrazia, soprattutto membri della famiglia imperiale o vicini all’imperatore, al fine di contrastare la Camera dei Rappresentanti, assicurando stabilità al governo. Se da un lato l’Art. 37 afferma che “tutte le leggi esigono il consenso delle due Camere” è anche vero che non viene definita la procedura di votazione delle leggi, di fatto questa genericità svuota l’articolo di ogni suo significato effettivo. 

Tutto ciò concentra il potere nelle mani del potere esecutivo, ovvero il governo. Infatti, l’unico articolo riservato a tale organo, l’art. 55 recita “Ogni Ministro d’affari di Stato assiste l’Imperatore, negli atti di cui è responsabile. Tutte le leggi, ordinanze e ordini dell’Imperatore, riguardanti gli affari di Stato, devono essere firmati da un Ministro”. Questo articolo esplica il bilanciamento costituzionale giapponese, secondo cui il Mikado è l’effettivo titolare della sovranità, ma non è tenuto ad esercitarla, perché solo l’esecutivo ne ha la prerogativa, tramite l’istituto della controfirma ministeriale. Se c’è la prevalenza dell’esecutivo, al tempo stesso non è indicato chiaramente come nominare e revocare i Ministri, compreso il Primo Ministro, di fatto rendendo la classe dirigente un’oligarchia sempre più autocratica. Fondamentale è il Ministro dell’Interno, cui risponde la polizia e soprattutto la Kempeitai, che unisce il ruolo di polizia militare a quello di polizia del pensiero, incaricata di mantenere l’ordine interno e nei territori occupati, oltre a macchiarsi di crimini simili a quelli della Gestapo. Sintomo dell’importanza di tale Ministero è il fatto che nei primi anni dell’occupazione statunitense è stato abolito.

La Kempeitai dipende anche dal Ministero della Giustizia in qualità di polizia giudiziaria, ma anche dal Ministero della difesa come polizia militare. Di conseguenza è un organo sfaccettato che si occupa di controllare tutti i settori strategici della società nipponica. Gli oligarchi militari hanno ben conosciuto la portata distruttiva dell’arma “pensiero” per cui se in Patria tale polizia esercita un ruolo di controllo ed anti-propaganda occidentale, dopo Pearl Harbour estende il suo operato anche nei confronti dei prigionieri militari. Invece, dal Ministero dell’Interno dipendono anche le Tonarigumi, associazioni di vicinato, dedite a mantenere un controllo a livello rurale e cittadino, e pure la Imperial Rule Assistance Association. Tale partito, tuttavia, non riesce a mobilitare tutti i segmenti della vita nazionale attorno a un leader. L’imperatore rimane un simbolo, anche se sempre più militare, e non si assiste alla personificazione del potere delle due potenze europee dell’Asse. 

“I burocrati erano visti come la crema della società, perché erano rappresentanti dell’Imperatore più che servitori del popolo. Il loro professato sguardo paternalistico, combinato con un’arrogante consapevolezza del potere, ricordava i samurai nel Giappone feudale e gli oligarchi del periodo Meiji.” Ben Ami Shillony: Politics and Culture in Wartime Japan, Oxford, 1981, p. 29. La loro autorità discende direttamente dall’imperatore, ergo la loro legittimazione è assai più forte di qualsiasi voto popolare proprio dei sistemi burocratici. Se dunque i samurai sono arroganti in virtù del loro prestigio e potere effettivo, questa nuova classe dirigente, colta e reclutata nelle università, deve incarnare i valori della nuova mistica del Kokutai, lo stato imperiale: virtù, patriottismo ed autoritarismo per ridare alla Nazione l’antico prestigio perso nel 1854.

La prima differenza effettiva con l’Italia e la Germania è l’assenza di un partito unico. Non è lo stato che si piega ad un’ideologia dominante che poi diventa progressivamente totalitaria. Nei due stati europei, le Forze armate sono viste come il braccio destro dell’azione governativa e repressiva, mentre in Giappone esprimono loro stesse la politica nazionale. Ma, non la esprimono da un punto di vista politico, quale esso sia, ma in quanto sono un centro di potere dotato di una tale autonomia decisionale da poter rivaleggiare con quella del governo stesso.  Per esempio, tra il 1885-1945, su trenta primi ministri quindici erano militari, mentre dal 1936-45 addirittura nove, tra cui spicca il Generale Hideki Tojo. In nessun paese totalitario si riscontra una superiorità così netta del sistema militare come in Giappone, infatti Hitler, Mussolini e anche Stalin quando temono troppo un generale, lo sostituiscono o lo rimuovono.Tra tutti, celebre il caso di Zuchov: l’eroe di Kharkhin Gol e di Stalingrado ed infine conquistatore di Berlino, viene esautorato da Stalin alla fine della Guerra. Invece, nel Paese del Sol levante, un generale, Tojo, assume il ruolo di Primo ministro per tentare l’estrema prova contro il mondo intero. 

Infine, come organo di raccolta e di sintesi, il legislatore Meiji vara anche il Consiglio privato. Esso è composto dai ministri, i capi di Stato maggiore e il Lord del sigillo. Se da un lato la Restaurazione Meiji abolisce il Dajokan, un consiglio nobiliare di alti nobili e samurai, preposto ad assistere l’imperatore, dall’altro lo restaura con questo Consiglio privato.  Il Consiglio detiene le seguenti funzioni: formulare pareri all’Imperatore, vigilare sulla corretta applicazione delle norme costituzionali, interpretarne le norme e determinarne la portata, esercitare una sorta di sindacato sulla legittimità di eventuali modifiche alla stessa Costituzione. Tuttavia, questo Consiglio non è un consiglio nel senso letterale del termine, che si limita a consigliare l’imperatore sulle varie questioni, ma emette dei pareri così vincolanti, che influenza la politica nazionale; infatti, può deliberare anche su temi come i trattati internazionali.

Le forze armate del Giappone

Le forze armate imperiali rappresentano il pilastro decisivo del militarismo giapponese, infatti si parla di militarismo giapponese e non di fascismo giapponese. Esse rappresentano la salvezza del Paese, in quanto gli assicurano il posto che si è guadagnato con il sangue nell’agone internazionale. Sono divise in Esercito e Marina, i cui vertici militari si alternano al potere quasi ogni anno, si potrebbe sostenere che in Giappone non c’è la personificazione della politica, ma la militarizzazione della politica. Già nel 1873 Yamagata Aritomo introduce la leva obbligatoria, ponendo le basi dell’imperialismo giapponese.  Per esempio, i fasci di combattimento di Mussolini, sono sì dei militari, ma degli ex militari. Sono per lo più dei veterani della Grande guerra, che non sono riusciti a reinserirsi nella società: sono il braccio armato di un movimento politico. Al contrario, in Giappone sono i militari a determinare la politica. Anche e soprattutto combattendo la diffusione delle nuove idee occidentali dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, al contrario fanno proprie le idee del darwinismo sociale, espresse da Spencer. 

Le forze armate nascono da subito distinte dal governo civile, con un’ampia autonomia e anche rivalità. Sono esse ad influenzare l’azione governativa e il budget da farsi destinare, minacciando ritorsioni. I riformatori Meiji riescono nell’impresa di reinserire i samurai nelle aziende come burocrati. Nonostante le vittorie imperiali contro i rivoltosi ci si rende conto che i soldati vincono per il numero maggiore e per l’armamento più avanzato. Pertanto si trasforma l’esercito in una prosecuzione materiale dell’Imperatore.E qui entra in atto la dinamica dell’odi et amo nei confronti dell’occidente. Da una parte lo si odia, per la solita questione dei Trattati ineguali, dall’altra lo si apprezza per il darwinismo sociale, che i giapponesi fanno loro. Quindi, poiché sono unici al mondo, si riconoscono nell’imperatore di origine divina e sono riusciti a modernizzarsi senza farsi soggiogare dall’occidente, si convincono di essere il popolo destinato a portare la civiltà in Asia. Questa è la scusa che i vertici militari vendono alla popolazione, perché ogni regime, anche il più autoritario, necessita del consenso per sopravvivere. In realtà, il motivo ultimo è creare uno stato forte, per cui si devono conquistare territori ricchi di materie prime e in cui poter sfogare la propria potenza industriale. 

Un problema riscontrato nel primo esercito imperiale, per quanto incredibile può sembrare, è l’insubordinazione della truppa e soprattutto degli ufficiali. Yamagata Aritomo inculca a tutto l’esercito che obbedire a un ordine non significa obbedire al proprio superiore diretto, ma direttamente all’Imperatore. Egli vuole anche impedire ai civili di manipolare l’esercito, quindi lo pone sotto il comando diretto dell’Imperatore, ergo al di sopra del governo civile, e così fino al 1945. Un modo per legare l’esercito alla figura dell’Imperatore è quella di creare un luogo di culto e commemorazione per i caduti di guerra. Nel giugno del 1879 il già esistente “shokansha” viene ribattezzato santuario Yasukuni. L’esercito viene indottrinato militarmente ad attaccare alla baionetta, poiché meglio rappresenta la vitalità del militare giapponese, oltre che viene sconsigliato di arrendersi al nemico, perché punirà assai gravosamente il soldato nipponico. Ciò però impedisce l’acquisizione di armi e tattiche più moderne, che in parte spiegano le copiose vittime giapponesi nella Guerra russo giapponese.

La marina imperiale invece, mantenendo lo stesso spirito di corpo dell’esercito, si aggiorna continuamente. Nasce fin da subito come una moderna marina militare, acquistando navi a vapore e poi corazzate o incrociatori dai Paesi Bassi, dalla Gran Bretagna e pure dagli Stati uniti. Nel 1873 entra in produzione  il primo cantiere navale di Yokoama. Fino al 1905 continua l’acquisto di navi straniere, tra cui sottomarini americani nel 1902 e l’installazione di un telegrafo senza fili. Se infatti le perdite dell’esercito sono notevoli, quelle della marina contano circa centoventi marinai nella battaglia di Tsushima. Ma la marina continua a svilupparsi incessantemente. infatti, è la prima marina al mondo a dotarsi di una corazzata con cannoni di 356 millimetri nel 1913, la Kongo, e a varare la prima portaerei della storia nel 1921, la Hosho. Successivamente, il Giappone lancia una corsa agli armamenti che lo porta allo spettacolare risultato della Yamato, la corazzata più imponente della storia, armata con cannoni di 460 mm e alla costituzione di una forza aerea imbarcata, che sarà artefice dell’imprevedibile attacco a Pearl Harbour. Infine, la marina sviluppa la propria forza anfibia, che aiuterà l’Impero a conquistare mezzo Oceano pacifico nel 1943: ad Ovest fino alle Midway e Guadalcanal, a Sud fino all’Australia.

Spartiacque fondamentale della storia giapponese è il 1885, anno in cui il Giappone si impone sulla Cina una prima volta, grazie all’uso della forza, appropriandosi di Taiwan. Inoltre, grazie al pagamento di 230 milioni di tael d’argento come risarcimento dalla Cina per la guerra, Tokyo è in grado di entrare nel 1897 nel Sistema del Gold standard. Nel 1902 si perviene finalmente alla revoca dei Trattati ineguali, tramite la firma di un Trattato di alleanza con la Gran Bretagna, che permette al Giappone apparentemente di entrare nel Sistema internazionale, infatti, negli anni successivi anche gli Stati uniti e gli altri stati europei li revocheranno. L’Impero del sol levante ritiene di poter entrare nell’ordine politico internazionale. Ma non è così, nemmeno con la vittoria sulla Russia nel 1905. Se nel 1885 e nel 1905 i vertici militari possono sperare in un riconoscimento ufficiale da parte degli imperi occidentali – si è dopotutto nel periodo dell’Imperialismo, dunque perché non costruire il mito della nazione-impero come motivo legittimante della nuova nazione? – ciò non avviene. La ragione principale è razzista: l’uomo bianco è superiore, nonché portatore di civiltà.  

Tra il 1905 e il 1914 Tokyo procede alacremente ad industrializzarsi, ad armarsi e a darsi una base ideologica, quasi metastorica, circa la propria ideologia imperialista. Essendo riuscito il processo di modernizzazione Meiji, i vertici militari iniziano a giudicare con disprezzo le nazioni europee ed asiatiche, proponendo una sorta di dottrina Monroe per l’Arcipelago. Gli eventi del 1894 e del 1904, tuttavia, rappresentano qualcosa di più di una risposta riflessa da parte di una “piccola” nazione per proteggersi da una minaccia imminente alla sua esistenza da parte di un predatore più grande. Piuttosto, il governo giapponese sceglie deliberatamente, consapevolmente e coscientemente la strada dell’imperialismo e la sua espansione ha un carattere sia aggressivo che difensivo. Alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo, i suoi leader sono pienamente consapevoli dei molteplici vantaggi che il prestigio, il vantaggio strategico e la ricchezza materiale comportano per le nazioni che proiettano il loro potere all’estero.

Di conseguenza, sebbene gli oligarchi non abbiano un piano generale di espansione, hanno grandi ambizioni per il loro Paese. Il Giappone desidera entrare nella cerchia delle nazioni leader e, in un’epoca in cui l’imperialismo e la posizione internazionale vanno di pari passo, durante i negoziati di Shimonoseki per la pace con la Cina,  i negoziatori giapponesi a si assicurano il diritto di aprire fabbriche e altri stabilimenti produttivi in Cina. Da tempo la Gran Bretagna preme per ottenere questa concessione e la sua realizzazione, unita ai diritti esistenti di condurre scambi commerciali, ha esposto la Cina a uno sfruttamento economico senza precedenti. Inoltre, con l’eccezione del Triplice Intervento, ovvero il riuscito tentativo di Francia, Germania e Russia di impedire a Tokyo l’acquisizione della penisola del Liaodong, il Giappone agisce in modo assertivo per preservare i vantaggi della guerra. Alla fine degli anni Novanta del XIX secolo dispiega circa sessantamila truppe per sconfiggere una rivolta di Taiwan che resiste alla colonizzazione, e nel decennio successivo il suo esercito di occupazione reprime brutalmente gli insorti coreani.

Per il governo giapponese, il nuovo secolo e la ricerca della modernità includono impegni inequivocabili nei confronti del governo costituzionale e parlamentare, dell’industrializzazione e del capitalismo e di una forte politica imperialistica di cartello. L’opinione pubblica giapponese sostiene l’azione aggressiva all’estero e l’acquisizione dell’impero. Intellettuali e scrittori come Fukuzawa e Tokutomi contribuiscono a plasmare il consenso all’espansionismo, e i cittadini fanno la fila per acquistare le stampe nazionalistiche della vittoria contro la Cina. Alcuni socialisti e pacifisti esprimono disappunto per lo scoppio delle ostilità con la Russia, ma la maggior parte dei giapponesi sostiene con passione la propria nazione. Tale sostegno popolare rende più facile per il governo optare per la guerra e successivamente per l’annessione della Corea, e portando soddisfazione collettiva dalla realizzazione di ambizioni a lungo perseguite: sicurezza, equità e status di prima classe tra le potenze.

Dal Trattato di Versailles alla Conferenza di Washington

Le cause principali della militarizzazione si possono ritrovare nel Trattato di Versailles e nella Conferenza di Washington, e nella crisi economica del 1929, che dagli Stati uniti si diffonde anche in Giappone. Ma procediamo con ordine. Nel 1914, allo scoppio della Guerra Tokyo ormai ha completato il processo di industrializzazione, entrando nel novero delle grandi potenze industriali. E’ tuttavia gravata dalla mancanza di accumulazione di capitale: o meglio ci sono i grandi zaibatsu, i complessi industriali che controllano la maggior parte delle aziende e lo stato che controlla l’industria pesante, soprattutto per lo scopo bellico. Il problema principale è che l’economia giapponese ha saltato la fase di libero scambio dell’accumulo di capitale, transitando direttamente da un’economia di tipo feudale al capitalismo. Fondamentale è la Grande guerra, in quanto da un lato permette al Giappone di sostituirsi agli stati europei, la cui produzione civile è convertita alle necessità belliche, come partner commerciale delle economie asiatiche e al tempo stesso di sviluppare la propria industria pesante.

Tokyo spera che la Grande guerra possa essere l’ultimo tassello per essere parificata alle grandi potenze. Nel 1914 l’esercito e la marina imperiale occupano fin dai primi mesi di guerra i territori tedeschi in Asia e nel pacifico, tuttavia non invia truppe in Europa. Tuttavia le ambizioni giapponesi non si limitano all’impero coloniale tedesco. Infatti, delle richieste presentate alla Cina nel 1915, viene riconosciuta dagli alleati solo l’acquisizione dei diritti di sfruttamento della ferrovia dello Jiaochuo e il mandato di tipo C sulle isole del Pacifico ex tedesche, mentre la questione della penisola dello Shandong occupata, viene lasciata da sbrogliare dall’Intesa ai due contendenti. L’operato della delegazione giapponese, guidata da Saionji Kinmochi, viene valutata in patria come una sconfitta, causando ripercussioni notevoli. Infatti, anticipa una nuova ondata di anti occidentalismo, in quanto i nipponici percepiscono il Trattato come un’imposizione imperialista da parte europea, sulla falsariga dei Trattati ineguali del secolo scorso. Ciò apporta linfa allo sciovinismo del movimento nazionalista che poi si trasformerà in imperialismo.

Tuttavia, il più grave scacco subito dalla diplomazia imperiale è di non farsi riconoscere la parità razziale con le razze bianche. Questo provoca una grande ondata di risentimento nella classe dirigente giapponese, ma anche negli intellettuali, che tramite la propaganda, supportano l’oligarchia nella costruzione del mito dell’identità della razza, facilitato dall’identificazione razza, società e nazione. Ad aggravare ulteriormente i rapporti con ormai gli ex alleati contribuisce in modo netto la Conferenza navale di Washington del 1921-22.

Essa determina: la fine del trattato anglo-giapponese, l’obbligo per Tokyo di restituire alla Cina la penisola del Jiaochou ed infine fissa il rapporto delle grandi navi da guerra tra Stati uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia ed Italia nella formula 5:5:3:1.5:1.5:1.5. cIò stimola il manifestarsi di slogan come ”imperialismo bianco”: le potenze europee non riconoscono alcun peso al Giappone, ma anzi cercano di soffocarlo, nonostante il suo prezioso contributo nella guerra. Queste cause esterne sicuramente favoriscono la formazione di movimenti sciovinisti, ma essendo appunto il Giappone uno stato militarista, a protezione dell’oligarchia economico politica costituita, si può anche parlare di “fascismo dall’alto” tuttavia senza quella matrice popolare che conosce in Europa e che invece costituisce la leva primaria grazie a cui Mussolini e Hitler acquisiscono il potere.

Mancate riforme democratiche del primo periodo Taisho

Nel 1912 muore l’ imperatore Mutsuhito, a cui succede  e comincia l’era Taisho. Visto il successo della Restaurazione Meiji, si cerca di eseguire quelle riforme parlamentari che prima non sembravano necessarie per la stabilità del Paese.  Tra il 1913-20 città come Tokyo, Yokohama e Nagoya raddoppiano la propria popolazione. Grazie alla crescita del terziario si consolida anche la borghesia, che sempre più apprezza il liberalismo, mentre al contrario nel proletariato iniziano a diffondersi le teorie marxiste ed anarchiche. Il Nihon heiminto o Partito proletario giapponese viene fondato nel 1901, Il Partito Comunista Giapponese, Nihon Kyōsan-tō, fù fondato il 15 luglio del 1922.

Hara Takashi, primo ministro giapponese e leader del partito Rikken Seiyūkai, ovvero l’Associazione di amici del Governo Costituzione, è il primo “uomo di partito” a salire al governo senza appartenere all’oligarchia. La sua nomina segna un piccolo ma significativo cambiamento verso una politica più rappresentativa, favorita anche dalla sua posizione alla guida del partito di maggioranza alla Camera. Tuttavia, nonostante la sua posizione, Hara non promuove riforme sostanziali, mantenendo una linea conservatrice e assecondando l’élite dominante. Ignora le richieste di riforma costituzionale e di suffragio universale, dimostrando miopia politica.

L’era Taishō (1912-1926), pur talvolta definita come periodo di “democrazia Taishō”, è in realtà caratterizzata da un declino del potere dei gruppi dominanti a favore di una maggiore influenza parlamentare, ma con limiti evidenti. I pensatori liberali come Yoshino Sakuzō e Minobe Tatsukichi influenzano il dibattito pubblico, ma le riforme sono modeste. Hara e i suoi successori ignorano le crescenti richieste dei nuovi movimenti socialisti e marxisti. Il suo assassinio nel 1921 è legato a sentimenti nazionalisti che lo ritengono responsabile dell’insuccesso giapponese alla Conferenza di Versailles. Dopo di lui, la guida del paese va a figure militari e conservatrici, fino alla breve stagione dei “governi di partito” tra il 1924 e il 1932.

La complessità politica degli anni Venti si riscontra anche a livello economico e sociale per il Paese. Il boom commerciale della guerra viene meno quando le potenze europee e gli Stati uniti progressivamente convertono la produzione bellica a civile. A Tokyo il governo percepisce con terrore la Rivoluzione bolscevica e manterrà la propria Armata di occupazione in Siberia fino al 1923, al contrario degli alleati dell’Intesa, che ritirano le proprie truppe già nel 1921. Nel settembre 1923 la regione del Kanto, quella di Tokyo, subisce un terremoto devastante: centomila morti e più di tre milioni di feriti, a cui si aggiungono mezzo miliardo di yen di danni. Per risanare i danni di tale catastrofe, è necessario importare beni di largo consumo e materiali per la ricostruzione, aggravando sensibilmente la bilancia dei pagamenti. Queste dinamiche difficili impediscono il conseguimento di una liberalizzazione del sistema politico giapponese.

Il fallimento dei governi “trascendenti”

Il Kakushin Kurabu e il Seiyū Honto si sciolgono  per formare un governo di coalizione sostenuto da una maggioranza “trascendente” nella Camera bassa, con Kiyoura Keigo come primo ministro, segnando un periodo di “governi di partito” tra il giugno 1924 e il maggio 1932, i cui gabinetti dipendono dalle maggioranze parlamentari. Tuttavia, questi governi vedono anche l’ascesa di gabinetti “trascendenti”, sostenuti da fazioni militari e burocratiche, che operano al di fuori di uno stretto controllo parlamentare. Questi gabinetti mirano a rafforzare il potere esecutivo, talvolta ignorando l’approvazione parlamentare e aderendo alle dinamiche di potere interne all’esercito.

Tuttavia sebbene i partiti politici acquistino influenza e promuovano un’estensione del suffragio, ottenuta per tutti gli uomini sopra i 25 anni nel maggio 1925, sono spesso internamente divisi e privi di coerenza ideologica. Essi faticano a superare il frazionismo e a dare priorità a obiettivi politici chiari, rendendoli vulnerabili all’influenza dell’esercito e della burocrazia. L’ampliamento del suffragio, pur essendo un passo significativo, introduce anche un gran numero di elettori nuovi e meno esperti politicamente, complicando ulteriormente il panorama politico.

In questo scenario politico in evoluzione, il governo promulga  anche la Chian ijihō, Legge per il mantenimento della pace, nel 1925. Questa legge mira a sopprimere qualsiasi associazione o ideologia che cerchi di alterare il kokutai, essenza nazionale, o il sistema della proprietà privata. Di fatto, diviene uno strumento per controllare il dissenso e colpire i movimenti socialisti e comunisti. La vaga definizione di kokutai consente un’ampia interpretazione e applicazione, permettendo al governo di reprimere una vasta gamma di opposizioni politiche. La legge è approvata contemporaneamente alla legge sul suffragio universale maschile, un tentativo di gestire i potenziali cambiamenti politici derivanti dalla maggiore partecipazione elettorale. I primi interventi repressivi iniziano proprio nel 1925, quando vengono incriminati studenti di sociologia dell’Università di Kyōto, accusati di diffondere idee marxiste e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928, la repressione colpisce duramente i militanti del Partito comunista giapponese, che furono arrestati e processati per le loro idee rivoluzionarie.

In queste occasioni, il tennōsei, il sistema imperiale, mostra la sua vera natura, fondendo teoria e pratica politica volta ad accrescere il potere imperiale tramite la repressione. L’Imperatore Hirohito interviene direttamente, introducendo la pena di morte nella Chian ijihō tramite un suo decreto, a conferma del coinvolgimento attivo della monarchia nella repressione politica. La repressione non si limita alle organizzazioni proletarie e comuniste, ma colpisce anche personalità vicine al liberalismo, sintomo della volontà sempre più forte dell’oligarchia economico-militare di consolidare il proprio potere in una cupola totalitaria . Incidenti come il “caso Minobe”, del 1935, e il “caso Tsuda” del 1940, testimoniano l’ampiezza della stretta autoritaria, che si allarga anche a  studiosi e intellettuali ritenuti scomodi dal regime.

Controllo ideologico,  strumenti di coercizione e propaganda

Per rendere efficace la repressione, il regime mette in atto una vasta gamma di misure: il Ministero degli Interni compila elenchi di riviste e libri vietati, mentre il Ministero dell’Educazione accentua il controllo sulla ricerca e sul dibattito accademico, intervenendo anche per “nipponizzare” le idee provenienti dall’estero. Supervisori vengono inseriti nei centri di ricerca, specialmente nelle scienze sociali, per vigilare sulle idee e agire come consiglieri degli studenti. Lo strumento più temuto è il Tokubetsu kōtō keisatsu, Tokkō, la polizia politica segreta, che svolgeva funzioni di controllo e repressione del pensiero, diffondendo il terrore tra gli oppositori e mantenendo la coerenza con l’ideologia del blocco di potere dominante.,La propaganda politica non è monopolio del blocco di potere dominante, ma coinvolge anche una miriade di club e associazioni, spesso di dimensioni ridotte, che promuovono valori tradizionali e il controllo sociale. Alcuni gruppi, ispirati alle idee di Kita Ikki e Ogawa Shūmei, puntano a una rivalutazione ideologica della tradizione nazionale, opponendosi al marxismo, al socialismo e al parlamentarismo, e lottando contro il grande capitale rappresentato dagli zaibatsu.

Kita Ikki, 1883-1937, è il maggiore ideologo del “tennōsei-fascizumo”, cioè del fascismo giapponese, e della necessità dell’espansione nipponica a danno dell’“imperialismo bianco”. La sua zelante attività incomincia  nel 1905 con La teoria del kokutai, sistema nazionale, e il socialismo puro, proseguendo con Storia personale della rivoluzione cinese e culminando con La Linea delle misure per la riorganizzazione del Giappone del 1923. Secondo l’intellettuale, è necessario attuare una “riorganizzazione interna” per restaurare un rapporto diretto tra Imperatore e sudditi, eliminando le “incrostazioni” militari, burocratiche e politiche, sospendendo il Parlamento e limitando il potere degli zaibatsu, considerati la causa di tutti i mali del Giappone.

Propone la confisca delle grandi proprietà terriere e dei patrimoni industriali, da redistribuire ai capitali societari. Kita sostiene che, una volta attuata la riorganizzazione interna, il Giappone debba perseguire una politica internazionale aggressiva, alleandosi con gli Stati Uniti per espandersi fino all’India e all’Australia. Le sue idee influenzano giovani ufficiali e movimenti che tentano vari colpi di Stato, tutti falliti, ma che contribuiscono a diffondere l’ideologia nazionalista e militarista. Dopo il fallimento dell’”incidente del 26 ottobre 1936, la corrente legata a Kita perde centralità e viene represso il “fascismo dal basso”, ma il suo pensiero continua a influenzare settori dell’esercito e della società, facendo compiere un significato balzo in avanti al movimento ultranazionalista in seno all’esercito, che poi prenderà definitivamente il potere con Tojo nel 1941 e condannando così l’impero  alla disfatta.

Il ruolo della crisi economica degli anni 20

Negli anni Venti, l’economia giapponese è caratterizzata da oscillazioni tra brevi cicli di crescita e crisi. La conquista della Manciuria avviene nel contesto della Grande Crisi iniziata nel 1929 con il crollo di Wall Street, ma già prima il Giappone aveva vissuto momenti difficili, come il panico finanziario del 1927, Shōwa kyōkō, e le gravi conseguenze del terremoto del Kantō del 1923, che provoca più di centomila morti e danni per sei miliardi e mezzo di yen, ovvero due volte il bilancio pubblico giapponese del 1922. Per far fronte a queste difficoltà, il governo Yamamoto autorizza le banche a concedere prestiti garantiti da titoli persi durante il sisma, ma questi titoli, ancora numerosi nel 1926, rappresentano un ostacolo al ritorno al Gold standard e alla ripresa della competitività internazionale.

Il governo decide quindi di superare la crisi riorganizzando il sistema finanziario e sostenendo le grandi banche dei principali zaibatsu, come Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo, che beneficiano della concentrazione dei depositi. Tuttavia, il sistema finanziario non si riprende completamente e il Giappone rimane in una fase recessiva, aggravata dalla mancata riduzione del Gold standard e dalla crisi internazionale del 29. Nel 1930, il ministro delle Finanze Junnosuke Inoue annuncia il ritorno al Gold standard, ma la scelta si rivela dannosa: la crisi colpisce soprattutto il settore tessile, le famiglie contadine e le banche, portando a una forte contrazione della domanda interna e a una crisi bancaria. Solo l’azione di Takahashi Korekiyo, ministro delle Finanze dal 1931, permette al Giappone di uscire dalla crisi: Takahashi abbandona il Gold standard, aumenta la spesa pubblica, sostiene la domanda attraverso l’emissione di titoli e favorisce l’espansione del credito, anticipando le politiche keynesiane che sarebbero state adottate in Occidente.

La svolta militarista e l’economia di guerra

Tra il 1931 e il 1935, sotto la guida di Takahashi Korekiyo, il governo aumenta notevolmente gli stanziamenti per Esercito e Marina, mentre i vecchi zaibatsu riorganizzano le proprie attività, privilegiando investimenti in Manciuria e nei settori collegati all’industria militare. I nuovi zaibatsu, legati ai funzionari civili e militari, si affermano in settori innovativi come quello chimico. Nel 1937, con l’invasione della Cina settentrionale, il Giappone entra nella cosiddetta Guerra dell’Asia Orientale, concepita fin dall’inizio come guerra totale. Ciò comporta una ristrutturazione progressiva dell’economia in funzione dello sforzo bellico, con un controllo sempre più asfissiante dello Stato sulla società e sull’economia. Il dirigismo statale si impone, con la creazione di organismi come la Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale) e la fondazione di associazioni di produzione e mobilitazione industriale. Nel 1938, il Parlamento approva la sōdōinhō, la Legge di mobilitazione nazionale, che fornisce al governo ampi poteri per regolamentare l’economia, razionalizzare la produzione, controllare le esportazioni e le importazioni, e mobilitare risorse per la guerra. Questa legge segna la fine della separazione tra Parlamento e governo e rafforza il controllo statale sull’industria e sul lavoro.

L’alleanza del Giappone con le potenze dell’Asse, l’espansione militare

Nel 1940, il Giappone firma il Patto tripartito con Italia e Germania nazista, rafforzando la propria posizione internazionale e proseguendo l’espansione in Asia. Nel 1941, dopo la firma del Patto di neutralità con l’Unione Sovietica, l’esercito giapponese occupa l’Indocina meridionale, provocando l’embargo degli Stati Uniti delle esportazioni verso il Giappone. Questo embargo è uno dei fattori scatenanti dell’attacco a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941, che segna l’inizio della guerra tra Giappone e Stati Uniti. All’inizio della guerra nel Pacifico, il Giappone ottiene una serie di vittorie rapide, occupando Filippine, Malesia, Birmania, Indonesia, Nuova Guinea e Singapore. Tuttavia, la situazione cambia  con la battaglia di Midway, che vede l’inizio delle sconfitte giapponesi e il progressivo arretramento delle forze dell’Impero.

Dal 1937, il blocco fascista dell’oligarchia giapponese impone un controllo sempre più rigido sull’economia. L’intervento dello Stato, già sperimentato durante il periodo Meiji, trova ora una piena applicazione: la partecipazione pubblica è preminente nei settori strategici come acciaio e armamenti, e le politiche di investimento vengono orientate alla Manciuria e alle colonie, in particolare a Taiwan e Corea. La politica economica è guidata dagli interventi del ministro Takahashi Korekiyo e dalla programmazione delle commesse di armamenti, che portano a una mobilitazione generale delle risorse nazionali. Il modello giapponese di economia di guerra si ispira in parte alle esperienze italiane e tedesche, ma mantiene alcune peculiarità, come il ruolo centrale degli zaibatsu e la collaborazione tra lo Stato e questi grandi gruppi industriali. L’intervento dello Stato è determinante nel dirigere gli investimenti e nel razionalizzare la produzione, soprattutto nei settori strategici, come quelli dell’acciaio e del petrolio.

Dai primi anni ’30, il ruolo dello Stato nell’economia aumenta, culminando in un controllo più diretto e centralizzato durante la guerra. Figure come l’ammiraglio Kiyoshi Hasegawa e il giornalista Ryū Shintarō, che sostengono un ruolo più forte dello Stato nell’economia, ritengono che la creazione del Ministero degli Affari della Grande Asia Orientale nel 1942 sia un’istituzione chiave nella gestione dell’impero in espansione del Giappone. Inoltre, essi si fanno promotori dei fondamenti ideologici di questa trasformazione economica, rilevando l’influenza delle idee totalitarie  prevalenti in Europa, portando avanti la soppressione del pensiero liberale e socialista in Giappone e l’adozione di un modello “nazional-socialista”, sebbene distinto dalla variante tedesca. L’obiettivo finale è quello di  mobilitare tutte le risorse nazionali per lo sforzo bellico contro l’imperialismo bianco.

La fine del militarismo giapponese

Tuttavia un Ministero delle Munizioni viene istituito solo nel 1943, guidato dallo stesso Hideki Tōjō, come autorità centrale per la gestione dell’economia di guerra. Congiuntamente vengono emanate varie leggi e regolamenti per controllare gli investimenti, la produzione e la distribuzione di beni essenziali, per esempio dalla Legge per l’Aggiustamento Provvisorio del Capitale del 1937 e successive modifiche, che conferiscono allo Stato un potere significativo sulle risorse finanziarie. La Legge per il Controllo delle Industrie Importanti del 1941 rafforza ulteriormente il controllo statale su settori chiave come l’estrazione mineraria, la metallurgia, i macchinari e i prodotti chimici. Al tempo stesso si procede a riorganizzare le associazioni economiche e la soppressione dei movimenti laburisti indipendenti per garantire la conformità alle politiche statali. La creazione dell’Associazione per l’Assistenza al Governo Imperiale e del suo braccio economico, l’Associazione Politica per l’Assistenza al Governo Imperiale, mira a unificare la nazione dietro lo sforzo bellico ed eliminare il dissenso.

Dunque, spinto da ambizioni nazionalistiche, dalla ricerca della “Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale” e dalle esigenze della guerra, il governo giapponese implementa una serie di politiche che portarono a un controllo centralizzato su industrie chiave, finanza, lavoro e allocazione delle risorse. Questa trasformazione comporta la soppressione dei principi economici liberali, l’adozione di un modello quasi nazional-socialista e la subordinazione degli interessi privati agli obiettivi dello Stato e dei militari, che altro non portano se non alla dichiarazione di resa incondizionata dell’imperatore il 15 agosto, percepita da molti come un messaggio di liberazione da una situazione “intollerabile”. Le sconfitte militari segnano il crollo del militarismo giapponese che voleva rendere asiatico l’impero. Il modello di economia di guerra, che ha permesso una rapida espansione e una mobilitazione totale delle risorse, si rivela insostenibile di fronte alla superiorità industriale e militare degli Alleati.

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  • Gary J. Bass, Judgment at Tokyo: World War II on Trial and the Making of Modern Asia, Knopf, 2023.
  • Rosa Caroli, Francesco Gatti, Storia del Giappone, Editori Laterza, 2004.
  • Andrew Craig, La caduta del Giappone, Res Gestae, 2023.
  • Jay Allen Schmidt, The Role of the Japanese Emperor: Theory and Reality, Ann Arbor, 1994.
Letture consigliate
Riccardo Andreatta

Riccardo Andreatta

Sono un laureato magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli studi di Padova, con una tesi sullo sviluppo dell’esercito cinese dal 1948 ad oggi. Invece la triennale l’ho conseguita a Cà Foscari, sempre in Storia contemporanea, ma sul conflitto sino indiano per il Kashmir.

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