CONTENUTO
Lo storico Marc Van De Mieroop descrive la propria professione con una similitudine a mio avviso molto azzeccata. Afferma che chi studia il passato, specie quello più lontano, è nelle stesse condizioni di chi si avventura di notte in un fitto bosco: intuisce dove si trova, lo immagina, ma quello che vede si limita all’area illuminata dalla sua torcia. I particolari diventano visibili solo se ricadono in quel cerchio di luce disegnato al suolo – che nel caso dello storico è definito dalle fonti che ha a disposizione.
Teniamoci cara questa immagine, e diciamo che allora i popoli nomadi sono destinati a rimanere nell’ombra: è difficile lasciare tracce quando non possiedi case, templi e città. Per questo motivo li conosciamo solo quando e in quanto vengono a contatto con le popolazioni sedentarie.
Dal punto di vista di queste ultime, il quadro che inizialmente ne otteniamo non è per nulla lusinghiero: Gutei, Lullu, Amurru – le principali popolazioni (semi) nomadi della regione – vengono dipinti come esseri non completamente umani, “gente che non conosce legami, con intelligenza canina e fattezze scimmiesche”, per citare un testo letterario sumero. Tanto astio e disprezzo derivano certamente dalla diffidenza delle popolazioni stanziali verso quelle che non hanno una fissa dimora. Ma le cose stavano veramente così?
Mesopotamia: gli Amorrei alla conquista del potere
In Mesopotamia i rapporti che si creano tra nomadi e sedentari dipendono da tanti fattori, in primis il tipo di nomadismo e il contesto ambientale. Lulli e Gutei, ad esempio, sono esempi di nomadismo verticale: d’inverno scendono dai Monti Zagros per svernare nelle valli adiacenti e vengono così a contatto con i villaggi della pianura tra il Grande Zab e il Dybala, due affluenti del Tigri. I rapporti con la popolazione stanziale della piana mesopotamica sono discontinui e incentrati soprattutto sul furto e sul saccheggio.
Molto più importanti nella vita politica e sociale sono le tribù di pastori che occupano le aree semidesertiche della Siria orientale (a occidente rispetto alla piana mesopotamica). La loro vita ruota attorno alle centinaia di migliaia di pecore e capre allevate per le loro “risorse rinnovabili”: lana e latte e, quando morte, pelle, ossa, corna e tendini. La carne è considerata un lusso da concedersi raramente, per cui gli animali macellati sono relativamente pochi.
Gli studiosi moderni definiscono il loro un “nomadismo orizzontale”. Durante la secca stagione estiva pascolano le greggi nelle fertili valli fluviali, vicino a città e villaggi, in inverno (più piovoso) si spostano nella la steppa che fornisce foraggio sufficiente. Questa è la loro vita almeno dal IV millennio, ma solo ora diventano “visibili” grazie alla documentazione urbana perché interagiscono più efficacemente con i residenti delle città, fino a gareggiare con loro per il potere. Nei testi sono state date loro designazioni diverse, ma tra la fine del terzo e l’inizio del secondo millennio sono raggruppati sotto il nome di Amorrei, che in accadico più o meno significa “Quelli dell’ovest” (Amurru).
Diversamente dai Lulli e dai Gutei, la relazione tra loro e la popolazione sedentaria produce benefici per entrambe le parti e permette numerose forme di cooperazione: pecore e capre vengono fatte pascolare nei campi, che fertilizzano con i loro escrementi e dove si cibano con le stoppie; i pastori scambiano i prodotti dei loro animali (latte e lana) con prodotti agricoli e dell’artigianato; possono prendersi cura dietro compenso delle greggi dei sedentari; molto spesso prestano servizio militare agli ordini delle autorità cittadine, ricevendo in cambio aiuto e difesa in caso di pericolo.
Le informazioni più complete ci arrivano dagli archivi di Mari, una città situata nell’attuale Siria orientale e in quel periodo uno dei principali centri commerciali e politici della Mesopotamia settentrionale. La città controlla un’ampia area della valle dell’Eufrate nella quale sono dislocati i villaggi dei pastori che durante l’inverno abbandonano le loro case e si spostano in tenda nella steppa occidentale. Ne emergono dettagli per certi versi sorprendenti dei rapporti tra i “sedentari” e i nomadi.
In primo luogo, “Amurru” è solo un nomignolo (dispregiativo) affibbiato dagli scriba delle città. Il loro vero nome è Khanei e sono tutt’altro che un’orda indistinta di predoni. Sono divisi in due etnie principali: i Simaliti, che occupano la regione del triangolo superiore del fiume Khabur, e gli Yaminiti, stanziati soprattutto sul medio Eufrate. Questi ultimi sono ulteriormente divisi in cinque tribù di cui le principali sono gli Amnanu e i Yakhruru. I clan dei Simaliti, più numerosi, sono riuniti in due raggruppamenti: Yabasu e Asharugayu. Un terzo gruppo, meno documentato nelle fonti dell’epoca, è quello dei Sutei, attivi nelle steppe del deserto siriaco e del Jebel Bishri, un massiccio montuoso collocato tra Mari e l’oasi di Palmira e quindi lontano dagli insediamenti agricoli. Sono descritti nelle fonti come ladri e predoni, anche se vengono utilizzati spesso come scorta alle carovane che si avventurano nel deserto siriano.
Ogni tribù è formata da clan, costituiti da più famiglie, ed è governata da sovrani eletti dagli anziani tra i membri delle famiglie più importanti. Non tutta la popolazione segue uno stile di vita nomade; ogni “Re beduino” (termine utilizzato dallo storico Nicola di Zorzi) è supportato da un funzionario (merḫum in semita) che ha il compito di guidare la parte della popolazione che durante la stagione delle piogge si sposta sui pascoli della steppa.
La popolazione stanziale, che esercita la pastorizia e un minimo di agricoltura in piccoli villaggi dislocati lungo il corso dell’Eufrate o dei suoi affluenti, è affidata a un altro ufficiale (sugagum) che ha il compito di rappresentare il re e la tribù nei rapporti con la città; l’elezione del sugagum è spesso ratificata dal re di Mari. A questo funzionario fanno capo le questioni militari come il censimento e la leva militare attivata su richiesta dell’esercito cittadino.
Per centinaia di anni queste popolazioni sono rimaste ai bordi di quel “cerchio di luce” di cui parla Marc Van De Mieroop, presenti nei documenti amministrativi solo come controparte degli scambi commerciali che abbiamo descritto o, alla peggio, quali autori di scorrerie e rapine.
A cavallo tra il III e il II millennio il quadro cambia bruscamente. Da un lato, la minaccia della loro potenza militare si fa più forte, al punto che Shu-Sin, penultimo re della III dinastia di Ur, fa addirittura erigere una muraglia (chiamata “il deterrente di Amurru”) che taglia in due la piana mesopotamica per impedire le incursioni delle bande nomadi nel cuore dell’impero (come ai giorni nostri, erigere muri si rivela totalmente inutile e queste scorrerie, insieme alla guerra con l’Elam, porteranno al progressivo disfacimento dell’impero).
Dall’altro si assiste a una impennata del numero di nomi amorrei nei documenti ufficiali. Durante i primi quattro secoli del secondo millennio si assiste a un nuovo fenomeno: molte persone influenti affermano con orgoglio la propria discendenza amorrea. Evidentemente il rapporto tra popolazioni nomadi e sedentarie è profondamente cambiato; vediamo perché.
L’importanza degli Amorrei nelle società della Mesopotamia cresce di pari passo alla crisi dei grandi imperi centralizzati. Già durante l’impero sargonide ci sono numerosi casi di funzionari, specie in ambito militare, provenienti dalle tribù nomadi, ma è con la III dinastia di Ur che si assiste a un duplice fenomeno: da un lato la crescente influenza di personaggi amorrei fino ai più alti gradi delle gerarchie cittadine, dall’altro la pressione delle tribù – sempre più ricche e potenti – sulle aree occupate dagli insediamenti agricoli stanziali.
Le cause di questi fenomeni sono molteplici e la ricerca etnografica può aiutarci ad approfondirle. I dati mostrano che la sedentarizzazione da parte dei nomadi pastorali avviene solitamente tra i più ricchi e i più poveri del gruppo. I pastori di grande successo non possono continuare ad espandere le dimensioni delle loro mandrie poiché diventerebbero ingestibili, per cui iniziano a investire parte della loro ricchezza in terra e si stabiliscono in città per prendersene cura; in questo modo danno origine a una nuova classe agiata di possidenti e commercianti che si amalgama rapidamente con quella preesistente.
I più poveri, al contrario, hanno troppo pochi animali per mantenersi e cercano di ottenere un impiego tra la gente stanziale, anche come mercenari negli eserciti. Le continue lotte intestine tra le ex città-stato sia durante l’impero sargonico sia durante quello della III dinastia di Ur ha reso frequente il ricorso alle forze mercenarie; una volta ristabilito l’ordine, la conseguente diffidenza del potere centrale nei confronti della classe dirigente locale ha fatto sì che la fiducia guadagnata sul campo favorisse il consolidamento di posizioni di potere da parte dei guerrieri nomadi, che assumono spesso il ruolo di funzionari militari preposti al controllo dei governanti locali (chiamati sagina durante la III dinastia di Ur).
Un altro elemento per spiegare la crescente importanza delle popolazioni nomadi può essere costituito dall’introduzione in Mesopotamia delle tecniche di addomesticamento del cavallo, a partire dalla fine del III millennio. I documenti in nostro possesso sono sorprendentemente scarsi ma sembra che i primi a impiegarli siano state le popolazioni nomadi, prima per il pascolo del bestiame e poi (forse) per scopi militari. Le popolazioni sedentarie continuavano a preferirgli l’asino, domestico o ibridizzato con quello selvatico.
Fatto sta che in breve a capo degli stati che si formano dopo la frammentazione dell’impero di Ur III troviamo sovrani che rivendicano la propria ascendenza amorrea. Lo fanno con orgoglio, in contrasto con la rappresentazione negativa degli Amorrei nella letteratura. I signori Amorrei di Mari preferiscono la tenda ai palazzi cittadini. Dopo il 1800 a.C., Hammurabi di Babilonia, che governa un vasto territorio urbanizzato, si riferisce a sé stesso come “re degli amorrei” e il suo quarto successore, Ammisaduqa, produce un elenco di antenati della dinastia in cui si riconosce esplicitamente che erano amorrei.
Gli stessi nomi compaiono in un elenco di antenati del re Shamshi-Adad trovato ad Assur, il che fa ipotizzare un legame tra i principali protagonisti della scena politica costruito sul reciproco riconoscimento di un insieme di antenati comuni. Non solo scompare lo stigma legato all’essere amorrei, la discendenza dai “re beduini” diventa un punto d’onore.
La presa di potere in Mesopotamia da parte degli Amorrei, quindi, non avviene tramite una invasione, ma attraverso l’infiltrazione di quelle genti in un tessuto sociale e in una rete di relazioni politiche che la costante guerra intestina ha logorato. Nonostante ciò, come vedremo, è tutt’altro che pacifica.
Per chi volesse saperne di più sui periodi precedenti:
- Mesopotamia: antichi abitanti, popoli e civiltà
- Mesopotamia, l’alba della civiltà: i primi imperi (2400 – 2000 a.C.)
Gli stati territoriali e il regno paleo-babilonese
Nel 2004 a.C., con la caduta della città in Ur nelle mani dell’esercito di Kindattu, sesto sovrano della dinastia Shimashski dell’Elam, finisce la III dinastia di Ur. L’egemonia elamita sulla Mesopotamia meridionale è brevissima: l’eredità dell’impero di Ur III viene raccolta dalla città di Isin.
Ishbi-Erra, già governatore della città sotto i sovrani di Ur, volta loro le spalle durante l’invasione elamita provocandone di fatto la caduta, ma otto anni più tardi sottrae la vecchia capitale agli Elamiti proprio con l’aiuto delle tribù Amorree e inizia un tentativo di ricostruzione del vecchio impero sumero.
Ci riesce solo in parte, perché le città più distanti diventano sede di dinastie indipendenti. Questo, ad esempio, è il caso di Eshnunna, situata nella parte inferiore della valle del fiume Diyala, un affluente orientale del Tigri, dove si viene a creare uno stato teocratico, nel quale il sovrano locale, un principe, svolge semplicemente il ruolo di governatore o rappresentante del dio cittadino.
Nella Mesopotamia centrale a partire dall’inizio del II millennio cresce l’importanza di Babilonia, prima come semplice centro commerciale sull’Eufrate, poi, dal 1880 a.C. circa, anche come centro di aggregazione politica di una piccola area che comprende anche l’antica Kish. Inizia il periodo detto paleobabilonese. A nord ovest Mari, già importante città dell’impero sargonico prima e di Ur poi, diventa indipendente sotto la dinastia amorrea dei Lim.
La dinastia di Isin dura meno di cent’anni. Sulla costa meridionale Larsa (moderna Tell Senkere), si è resa indipendente dall’impero sumero di Ur già dall’inizio del regno di Ibbi-Sin (2017 a.C.) e da allora è retta da una dinastia amorrea. Dopo quasi un secolo di precaria convivenza con Isin, i due regni entrano in aperto conflitto per l’egemonia sulle città e le risorse idriche della Mesopotamia meridionale.
Nel 1926 a.C. Gungunum di Larsa, toglie a Isin il dominio sulla città di Ur e con esso il controllo del commercio marittimo nel Golfo. La definitiva espansione di Larsa ai danni di Isin ha inizio con il regno di Sumu-El che, oltre a espandersi militarmente verso nord, porta a termine una serie di grandi opere di canalizzazione destinate a modificare a favore di Larsa il corso di un braccio dell’Eufrate che prima alimentava la regione rivale.
A nord est si trova il “regno dell’Alta Mesopotamia”, fondato da un re amorreo di nome Samsi-Addu. Quest’ultimo riesce in pochi anni a estendere la propria egemonia su tutta la Mesopotamia settentrionale fino al confine con la Siria. La fama e il prestigio raggiunti da Samsi-Addu sono tali che nei secoli successivi molti re assiri lo includeranno tra i propri antenati dinastici.

Secondo alcune fonti, Samsi-Addu diventa sovrano di Akkad, la perduta città di Sargon e dei suoi successori, nel 1833 a.C. Nel 1820 a.C. la politica di espansione di Eshnunna costringe Samsi-Addu ad abbandonare la propria sede e a trovare esilio a Babilonia, ma non per questo rinuncia alle sue ambizioni.
Nel 1808 a.C. occupa la città di Assur, assicurandosi il controllo del ricco circuito commerciale con l’Anatolia che a questa città faceva capo; quindi si muove verso ovest, scontrandosi con la città di Mari. Quando muore il sovrano Yakhdun-Lim, nel 1794 a.C., briga con i servitori di questo per farne sopprimere il figlio Sumu-Yaman; quindi, approfittando del vuoto di potere, conquista la città, estendendo così il suo dominio su tutta la Mesopotamia settentrionale. Ma non si ferma qui.
Mette fine alle contese con Eshunna, con la quale stipula una alleanza. Così facendo è libero di muoversi verso i Monti Zagros dove conquista il regno di Arrapkha (1780 a.C.), situato a circa 100 km a est di Assur, e le città di Ninive e Qabra (1779 a. C.). Tutta la regione a est del Tigri, dalla valle del fiume Adhem fino al nord di Ninive, viene annessa al regno dell’alta Mesopotamia. L’alleanza con Eshnunna, inoltre, permette a Samsi-Addu di andare in aiuto al re di Qatna che si contende con quello di Yamkhad l’egemonia sulla Siria occidentale. Grazie a questa nuova alleanza Samsi-Addu è il signore di tutta la regione tra l’altopiano iranico e il mar Mediterraneo.
Non è solo un abile stratega e diplomatico, Samsi-Addu. È un fine politico, che sa garantirsi l’appoggio delle popolazioni conquistate rispettando e facendo propri i loro costumi e i loro dei: ad Assur assume il titolo di “Ensi (governatore) del dio Assur”, mantenendo quindi il regime teocratico preesistente, mentre a Ninive si fa benvolere ricostruendo il tempio di Ishtar, patrona della città. Quando può, preferisce mantenere sul trono i governanti sconfitti. Mantiene però uno ferreo controllo sul territorio, che divide tra i suoi due figli.
Questi ultimi però non sono al suo livello. Gli ultimi anni fino alla morte di Samsi-Addu nel 1776 a. C. sono segnati da un inasprimento delle relazioni con Eshnunna e Yamkhad a cui si aggiungono rivolte interne, epidemie e attacchi da parte delle tribù nomadi (tra cui gli amorrei Yaminiti), che indeboliscono notevolmente il regno dell’Alta Mesopotamia. Mari torna indipendente, lo stesso fanno molte altre città stato. Il regno si sfalda e alla sua morte il figlio Ishme-Dagan riesce a mantenere il controllo della sola regione di Ekallatum, a oriente del Tigri.
Nella Mesopotamia centro-settentrionale i contendenti sono rimasti tre: Eshunna a est, la nuovamente autonoma Mari a ovest e Babilonia un poco più a sud, governata da Hammurabi che ha ereditato il trono dal padre Sin-muballit . All’epoca quello di Babilonia è il più piccolo tra i regni importanti e il giovane sovrano si fa conoscere come abile diplomatico piuttosto che per le sue doti militari,
Ai confini troviamo i regni di Yamkhad con capitale Halab (Aleppo) e Qatna situata vicino all’odierna Homs, dominati da dinastie amorree in costante lotta tra loro, e a oriente il regno elamita incentrato sulle città di Susa e di Anshan. Completa il quadro il regno di Larsa, nella Mesopotamia meridionale, in cui dal 1830 a.C. la precedente casa amorrea è stata spodestata da una dinastia probabilmente proveniente dal regno elamita di Ashan sull’altipiano iranico.
È Eshunna la più attiva e tenta di estendere il proprio dominio alle terre un tempo sotto Samsi-Adud. Questo suscita la reazione militare di Babilonia e Mari. Alla breve guerra segue una pace precaria.
Della situazione approfitta il potente regno dell’Elam che attacca Eshunna da est. Hammurabi ha firmato una alleanza con Eshunna, ma non esita a schierarsi insieme a Mari con gli elamiti e a fornire un contributo decisivo per la vittoria di quest’ultimi, Ma gli elamiti non si accontentano: vogliono mettere le mani su tutta la Mesopotamia e inviano due armate, una più a nord in direzione di Mari e l’altra a sud, alla conquista di Babilonia.
Le due città comprendono il grave pericolo e stringono una alleanza a cui partecipa anche il re di Yamkhad: nel 1764 a.C. i tre eserciti riescono a sconfiggere gli elamiti e a ricacciarli nei loro territori.
Hammurabi di Babilonia coglie al volo l’opportunità e nel 1763 a.C. si scaglia contro Larsa, rea di non essersi schierata contro gli elamiti invasori. Il regno meridionale è ricco e potente, ma sono decenni che non è coinvolto in guerra e il suo re, Rim-Sin, è vecchio. Dopo sei mesi di assedio le truppe babilonesi sconfiggono il nemico e prendono la città.

La vittoria su Larsa cambia gli equilibri nell’area e Hammurabi ne approfitta. Due anni dopo attacca Mari e la rade al suolo, ne annette i territori e diventa l’uomo più potente della regione. Evidentemente Hammurabi è tanto abile quanto spregiudicato e non ci pensa due volte a girare le spalle a vecchi alleati… Festeggia auto incoronandosi “Re di Sumer e Akkad”, facendo suo il titolo utilizzato dai sovrani della scomparsa dinastia di Ur.
Nell’ultima parte del suo regno Hammurabi amplia il regno verso nord, grazie a una serie di vittoriose campagne contro Gutei, Turukkei e altre popolazioni seminomade situate nella zona pedemontana dei Monti Taurus. Quando muore, nel 1750, lascia al figlio Samsu-iluna un regno vasto e potente, senza uguali nella regione.
Ma è un regno fragile, presto scosso da ribellioni interne che portano a una crisi economica talmente grave da comportare il parziale abbandono delle città meridionali, la cui popolazione si sposta verso la Mesopotamia settentrionale. A nulla valgono alcune spedizioni vittoriose verso nord, il regno si indebolisce e i successori di Samsu-iluna dovranno fronteggiare la fuoriuscita dal regno di molte città soprattutto meridionali, presso le quali si installa una dinastia, forse di origine elamita.
Gli storici l’hanno definita “la prima dinastia del Paese del Mare”, facendo riferimento alla zona paludosa a sud est della piana mesopotamica, oltre la quale sorge la città elamita di Susa, ma non ne sappiamo molto. I molteplici tentativi di riconquistare le terre perdute non fanno altro che indebolire il regno babilonese, che subisce numerosi attacchi finché nel 1595gli Ittiti, durante una spedizione militare a scopo di razzia, non saccheggiano la stessa Babilonia mettendo fine alla dinastia amorrea.
Diplomazia e organizzazione statale dei regni amorrei
Qatna, Yamkhad, Babilonia, Mari, il Regno dell’Alta Mesopotamia, Larsa, per non parlare di tutti gli stati minori, spesso coincidenti con il territorio di una città, asserviti ai regni principali: pur con alterne vicende, per cinque secoli i sovrani amorrei diventano signori quasi incontrastati della Mesopotamia. Vediamo come ne hanno influenzato cultura, economia e religione.
Nonostante il costante stato di belligeranza sembri dimostrare il contrario, la comune appartenenza tribale dei sovrani trasforma radicalmente le relazioni diplomatiche tra gli stati. Durante il periodo sargonico e della III dinastia di Ur i rapporti tra gli Ensi (Re) delle città-stato erano almeno formalmente paritetici, essendo ciascuno di loro il tramite tra la città e il dio poliade. Con i re amorrei le relazioni cambiano drasticamente.
Poiché la famiglia costituisce l’elemento fondamentale della tribù nomade, a essa fanno riferimento i sovrani per definire i rapporti tra di loro: un monarca può essere “figlio” di un vicino più potente, “fratello” di un pari grado, “padre” di sovrani degli stati minori, costituendo una ragnatela di parentele fittizie accanto agli effettivi legami di sangue. La terminologia “famigliare”, così formalizzata, non è solamente una questione di etichetta: essa permette di chiarire la posizione reciproca di ciascuno rispetto agli altri e quindi di riconoscere i propri doveri e far valere i propri diritti.
Tra i vari sovrani sono frequenti anche relazioni di vera e propria subordinazione che ricordano il vassallaggio medioevale, sancite attraverso cerimonie di giuramento caratterizzate da gesti simbolici: il “vassallo”, prende un lembo della veste del suo signore, mentre quest’ultimo gli tocca il mento. Diritti e doveri sono ben definiti: in cambio della protezione in caso di attacco, il subordinato si impegna trasmettere al suo signore tutte le informazioni in suo possesso; inoltre, è tenuto a pagargli un tributo annuale e offrirgli l’appoggio militare di cui ha bisogno; infine, deve recarsi periodicamente a rendergli omaggio.
Figli, padri o fratelli nei rapporti tra di loro, per la popolazione della Mesopotamia nel II millennio i sovrani mantengono il ruolo di indispensabile intermediario tra gli dèi e il popolo. A livello politico ciò si traduce in due modelli: il regime teocratico, nel quale il dio locale esercita il potere e il re non è che un suo rappresentante (è il caso di Eshunna e di Assur) e, più frequentemente, monarchie di diritto divino, nelle quali il sovrano (e quindi l’intera dinastia) sono scelti dagli dèi.
All’interno di ciascun regno l’organizzazione statuale presenta la stessa dicotomia tra potere centrale e realtà cittadine locali già presente durante il periodo di Ur III. Ad esempio, per il controllo del territorio Hammurabi si avvale di ufficiali di alto grado che mantengono uno stretto rapporto con il sovrano, sotto i quali vi sono governatori locali responsabili di aree più piccole oppure di città (šapirum). Altri funzionari di livello inferiore presiedono a incarichi specifici, come, ad esempio, il mantenimento dei canali.
Il governo locale opera a due livelli: la città (alum) e il quartiere (babtum). I rispettivi funzionari sono reclutati all’interno della comunità e sono in teoria indipendenti dall’amministrazione reale; in pratica devono operare in accordo con gli ufficiali provinciali. Al governo della comunità cittadina troviamo il “capo della città” o rabianum, coadiuvato dall’organo collegiale costituito dagli Anziani (šibutum), cioè i capi delle famiglie più importanti. Entrambi questi organi hanno compiti di tipo giuridico e amministrativo (ad esempio la distribuzione delle terre arabili e il reclutamento della manodopera destinata a svolgere servizi per il palazzo). Amministrano anche la giustizia, insieme alla puhru, l’assemblea dei cittadini.
La giustizia, quindi, è erogata su base locale, ma anche il sovrano vi può prendere parte. Egli accorda, su incarico divino, misure di amnistia e di grazia e soprattutto di remissione dei debiti. Questo secondo aspetto in particolare ha importanti risvolti sociali: gli individui che non possono rimborsare i loro debiti sono infatti costretti a consegnare i propri congiunti ai creditori come schiavi; gli editti di remissione permettono dunque il ricongiungimento delle famiglie.
Il codice di Hammurabi
All’attività giuridica del re si lega anche l’esistenza di codici di leggi, dei quali il più famoso è il Codice di Hammurabi. Ci è arrivato iscritto su una stele, oggi al museo del Louvre, rinvenuta a Susa ma che in origine doveva trovarsi a Sippar, nel tempio del dio Shamash. È diviso in tre parti: un prologo, 275 “articoli” e un epilogo. Frammenti del codice sono stati trovati anche in altri siti e si ritiene che una copia del codice si trovasse in tutti i principali templi dell’impero babilonese.
Benché sia il più famoso, quello di Hammurabi non è il primo codice mesopotamico. Vi sono almeno tre precedenti, due redatti in sumerico, quello del re di Ur Ur-Namma (2114-2094 a.C.) e quello di Lipit-Eshtar di Isin (1936-1926 a.C.), e uno in accadico, quello di Dadusha, Ensi di Eshnunna (1770 a.C.). Il nome però non deve trarre in inganno, perché in realtà non sembra si tratti di vere raccolte di leggi.
Per quanto riguarda quello di Hammurabi, per esempio, gli atti processuali che ci sono pervenuti non si riferiscono quasi mai esplicitamente al codice e a volte arrivano a contraddirlo. Secondo alcuni storici (ma il tema è ancora oggetto di dibattiti) il ruolo del codice di Hammurabi è soprattutto propagandistico, volto a celebrare la figura del sovrano enfatizzandone il ruolo di “re giusto”, di pastore che guida il suo popolo sulla retta via, accordando, su incarico divino, diritto e giustizia al paese. All’evoluzione dell’organizzazione sociale di cui sopra corrisponde una pari evoluzione economica.
Nel ventunesimo secolo la burocrazia statale della III Dinastia di Ur aveva supervisionato praticamente tutto e aveva impiegato ampi segmenti della popolazione come forza lavoro, che sosteneva con razioni, lasciando all’iniziativa dei singoli un ruolo economico marginale. La proprietà privata certamente esisteva, All’inizio del secondo millennio si verifica quella che potremmo chiamare una parziale “privatizzazione” dell’economia attraverso un processo graduale e probabilmente non pianificato.
Istituzioni, palazzi e templi, detengono ancora risorse molto vaste. Possiedono terre e opifici e mantengono una gran quantità di gente al proprio servizio. Tuttavia, accanto a queste organizzazioni si iniziano a notare operatori privati, veri e propri imprenditori a cui l’organizzazione statale appalta non solo la produzione dei beni e dei servizi ma anche attività di carattere amministrativo, lasciando a loro il ruolo di intermediari tra lo stato e la cittadinanza.
Arrivano persino a esercitare l’attività di esattori e banchieri, riscuotendo imposte e quote di produzione, emettendo pagamenti e organizzando la raccolta e la distribuzione delle risorse. Inoltre, gli imprenditori convertirono quelle raccolte di prodotti agricoli e beni di artigianato in argento più facilmente conservabile. Lo stato ci guadagna perché ha la certezza di incassare proventi difficili da raccogliere, mentre l’imprenditore lucra la differenza tra quanto anticipato –frutto di una stima al ribasso delle risorse da raccogliere – e il prezzo di mercato dei prodotti. Il sistema garantisce anche una maggiore stabilità: diversamente dai funzionari pubblici, legati al sovrano, gli imprenditori mantengono il posto nonostante i frequenti cambi al potere evitando il crollo dell’intera organizzazione.
Il rovescio della medaglia è costituito dalla notevole pressione esercitata sulla popolazione: in tempi di crisi diviene sempre più difficile fare fronte ai propri obblighi nei confronti degli imprenditori, i quali, d’altra parte, hanno fretta di riscuotere il dovuto. I piccoli tenutari e gli artigiani si trovano costretti a chiede prestiti per sopravvivere, a tassi di interesse che raggiungono frequentemente il 33%. L’effetto è una crescita del livello di indebitamento della popolazione al punto da generare vere e proprie crisi economiche e sociali. Gli editti di remissione dei debiti sopra citati hanno lo scopo di evitare queste crisi: il sovrano azzera l’onere per il debitore finale ma anche quello dell’appaltatore verso lo stato.
Anche la produzione agricola subisce una sorta di privatizzazione. Ricordo che fin dal periodo di Uruk (IV millennio) per le città della Mesopotamia la proprietà della terra è del Tempio, o meglio del dio poliade da cui tutto proviene (ci sono casi di documenti che attestano compravendita di terreni, ma sembrano del tutto marginali). La terra viene coltivata soprattutto da manodopera posta direttamente al servizio del Tempio, pagata col solito sistema delle razioni. Non mancano casi di terre assegnate a funzionari civili e militari in cambio dei loro servizi e, specie nei villaggi lontani dalla capitale, lotti assegnati a piccoli coltivatori, ma tutti devono versare una parte consistente del prodotto alle casse del Tempio.
Durante il periodo paleobabilonese assistiamo alla progressiva sostituzione della gestione diretta del Tempio con un sistema di appalti simile a quello descritto poc’anzi per i servizi. Sulla base della forma giuridica, possiamo quindi identificare quattro tipologie di gestione del territorio: i campi assegnati a singoli individui o famiglie per i servizi che rendono allo stato (in accadico suk–usum); i campi dati in affitto in cambio di una parte del raccolto (eqel biltim); i campi gestiti dallo Stato, direttamente (ekallim ukallu) o indirettamente tramite imprenditori agricoli (isshakkum). Questi ultimi diventano sempre più numerosi, come si moltiplicano i casi di funzionari militari o civili remunerati attraverso l’assegnazione di terreni anziché con in orzo e argento.
Con la caduta di Babilonia si chiude un periodo politico, ma queste forme di organizzazione sociale sopravvivranno. Ciò che è destinato a mutare è l’ordine di tutta l’area medio orientale, che vede assurgere al ruolo di potenze “internazionali” nuovi attori (gli Hurriti del regno di Mittani, gli Ittiti di quello di Khatti), e vede espandersi l’influenza egiziana. Del nuovo assetto, che resterà in vigore fino alla fine del XIII secolo e prende il nome di “Sistema Regionale”, ci occuperemo nel prossimo articolo.
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- Marc Van De Mieroop – A History of the Ancient Near East ca. 3000-323 b.C. – Wiley 2016;
- Lorenzo Verderame – Introduzione alle culture dell’antica Mesopotamia – Mondadori 2017;
- Davide Nadali e Andrea Polcaro – Archeologia della Mesopotamia antica – Carrocci editore 2018;
- Lucio Milano (a cura di) – Il vicino oriente antico – EncycloMedia Publishers;
- Produzione, commercio, finanza nel Vicino Oriente Antico (3500-1600 a.C.) Seminario ospitato dalla Banca d’Italia Roma, 10 giugno 2016.