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Maximilien de Robespierre: il volto dell’uomo che ha cambiato la Francia
Quando si parla di Rivoluzione francese non si può non pensare a Robespierre e al terrore giacobino. Ma chi era in realtà questo brillante avvocato di provincia, appassionato di Rousseau, di Cicerone e della Storia dell’antica Roma? Per molti uno spietato dittatore, per altri un vero e proprio martire, l’ultimo rivoluzionario democratico d’Europa. Ripercorriamo la sua storia e cerchiamo di conoscere da vicino un personaggio che ancora oggi, a distanza di più di due secoli, affascina o terrorizza.
Maximilien prima di diventare Robespierre
La biografia di Maximilien- Marie-Isidore de Robespierre è avvolta nel mistero. Conosciamo il rivoluzionario, il giacobino, «l’incorruttibile», ma del suo percorso di uomo abbiamo a disposizione pochissime notizie, molte anche un po’ “gonfiate”. Come accade per ogni personaggio di una così tale portata, infatti, anche su Robespierre non mancano leggende e suggestioni, spesso pilotate a proprio favore, a seconda se a raccontarcele è chi lo osanna o chi invece lo odia.
Sappiamo con certezza che i suoi genitori lo hanno concepito fuori dal matrimonio e che per la Francia dell’epoca – soprattutto per una piccola realtà come quella di Arras, permeata da un cattolicesimo quasi fondamentalista – basta questo per gridare allo scandalo. E infatti, quando nasce nel 1758 i nonni paterni non lo vogliono, salvo poi pentirsene qualche mese dopo.
Primo di cinque fratelli, il piccolo Maximilien vive un’infanzia tutto sommato felice. Le cose si complicano dopo la morte della sua giovane e amata madre, Jacqueline Carraut, venuta a mancare pochi giorni dopo aver partorito il quinto de Robespierre, anch’egli morto. È in questo momento che la vita di Maximilien cambia e si carica di responsabilità. Suo padre, infatti, si allontana da Arras e dai suoi figli, che vengono affidati a parenti diversi.
In molti vedono nell’abbandono la causa della sua schivezza e, a pensarci bene, non deve essere stato facile sopportare l’idea di un padre che va via da un momento all’altro, soprattutto se hai già perso tua madre e hai soltanto sei anni, un’età che effettivamente coincide con la formazione caratteriale.
Quella dell’abbandono, quindi, non è un’ipotesi che va scartata a priori, ma non possiamo comunque credere che sia stato un unico evento negativo a spingerlo a diventare uno degli uomini più temibili della Storia moderna (e forse della Storia in generale).
Quello che invece sembra aver svolto un ruolo predominante è il tipo di educazione ricevuta. Se ci soffermiamo sul tipo di educazione impartita, possiamo avere ben chiari i perché di certi suoi atteggiamenti e di certe scelte, a partire da quell’intransigenza e da quel rigore che lo accompagneranno nel suo percorso politico.
L’educazione di Robespierre al Collège Louis-le-Grand
Le testimonianze dell’epoca ci presentano Maximilien come un bambino assai intelligente, perspicace e precoce; un bambino prodigio, oseremmo dire, bravissimo a scuola e vincitore di innumerevoli borse di studio. Ed è proprio grazie alla sue qualità che all’età di undici anni riesce a essere ammesso in una delle più prestigiose scuole di Francia: il Collège Louis- le- Grand, a Parigi.
Situato nel Quartiere latino, fino al 1762 è gestito dalla Compagnia di Gesù ma poi, a causa di un attentato al re organizzato proprio da un funzionario gesuita del collegio, la gestione passa sotto il patronato del sovrano Luigi XV.
Nonostante il passaggio gestionale, la teologia si mantiene ancora come uno degli insegnamenti più importanti, una disciplina che deve necessariamente essere conosciuta perché il cristianesimo rappresenta una delle essenze della Francia moderna. Come apprendiamo dalle pagine di Peter McPhee, a cui ho cercato di fare affidamento perché è uno dei più grandi storici della Rivoluzione francese:
i ragazzi si alzavano alle cinque e mezzo per esseri pronti per la preghiera e la lettura devozionale. Si impegnavano poi in novanta minuti di studio, che iniziavano con l’apprendimento e la recitazione delle Scritture, prima di fare colazione. Le loro giornate erano lunghe, strettamente sorvegliate e dedicate allo studio e alla preghiera: «Nessun momento delle lezioni in classe delle interrogazioni, della preparazione o altri esercizi andrà mai perduto in divertimenti o vagabondando qua e là per il collegio o in qualsiasi altra cosa che non abbia rapporto con tali esercizi». Alle nove e un quarto di sera, i ragazzi avevano già detto le preghiere ed erano a letto nei loro dormitori [1].
È anche vero, però, che venuti meno i gesuiti il punto nodale degli insegnamenti del collegio si articola soprattutto intorno al tema del patriottismo, necessario per formare giovani fedeli alla Nazione, e prima ancora al re. Quindi, oltre alla teologia, gli studenti imparano la grammatica, il latino, il greco, la matematica, la filosofia e la retorica.
Assai prediletti sono gli autori romani perché in essi l’elemento patriottico è molto marcato. Se pensiamo a Virgilio, a Lucano o a Cicerone non possiamo non cogliere nelle loro opere l’amore per Roma e per le sue istituzioni. Quest’ultimo sembra essere l’autore più letto, soprattutto da Maximilien, che ricava dai testi ciceroniani (e in particolare dalle Catilinarie) moltissimi insegnamenti sulla morale e sulle virtù, insegnamenti che si riveleranno fondamentali in futuro.
Nel collegio vigono moltissime regole. Non solo studio, ma anche – e soprattutto – disciplina. Gli insegnati controllano praticamente tutto e tutti, anche la gestione del tempo libero, che non sembra essere poi molto. Chi studia lì ha come unico obiettivo quello di formarsi per contribuire, un giorno, alla felicità della Francia.
Sempre McPhee ci dice che gli studenti del Louis- le-Grand sono obbligati a vestire in maniera impeccabile e badano molto all’igiene e alla cura della persona. Non gli è concesso di socializzare e se trasgrediscono le regole vengono sottoposti a punizioni corporali.
Riallacciandoci al contributo dell’educazione sulla formazione del Robespierre politico, non pare forse assai evidente che egli abbia mantenuto molti di quegli insegnamenti appresi durante gli anni del collegio, primo fra tutti l’intransigenza?
Gli anni dell’università di Robespierre
Dopo aver completato il percorso al Louis-le-Grand Robespierre studia per diventare avvocato. La famiglia paterna vanta una lunga esperienza nel settore: nonno e padre sono stati importantissimi avvocati in quel di Arras, ma la scelta di continuare la professione di famiglia non è scontata. Sappiamo, infatti, che il rapporto con suo padre si è interrotto quando ancora piccolissimo e che quindi la sua non è una decisione dettata dal vincolo della fedeltà genitoriale quanto da una predisposizione all’arte dell’oratoria e della retorica, maturata proprio durante gli anni al collegio.
Già nel 1775, ad esempio, viene scelto come colui che deve porgere un omaggio ai neo-sovrani di Francia, Luigi XVI e Maria Antonietta di Asburgo-Lorena, che sfilano a Parigi per essere acclamati dal popolo. Quando questo accade, Robespierre ha solo diciassette anni e questo basta a farci rendere conto della sua innata abilità nello scrivere e nel recitare discorsi convincenti e maestosi, un’abilità che lo accompagnerà per tutta la vita, o quasi.
Le università parigine dell’epoca lasciano agli studenti un certo margine di libertà. Ovviamente il rispetto delle regole è una costante, così come l’insegnamento della religione, ma se nel collegio non è concessa nessuna opportunità di socializzare ora gli universitari possono tranquillamente andarsene in giro e vedere finalmente Parigi.
La Parigi del XVIII secolo è il riflesso della sua situazione politica: ricchezza e miseria si alternano con costanza. Capita spesso di vedere lussuose carrozze che passeggiano tra le strade degradate e sarà così fino agli anni dei Grands Travaux voluti da Napoleone III e dal suo prefetto della Senna, il barone Haussmann, quando nella seconda metà dell’Ottocento si pensa di marginalizzare i più poveri in quartieri appositamente creati per loro.
Dal punto di vista culturale, Parigi è un vivaio ricchissimo di idee, soprattutto religiose. I laici discutono continuamente sui diritti e sui doveri della Chiesa, nonché sul parassitismo del clero (ricordiamo che questi sono gli anni dell’Encyclopédie, delle idee illuminate che portano dritto alla Rivoluzione francese).
Potendo ora passeggiare liberamente per le strade di Parigi è ovvio che Robespierre assista in prima persona a questi dibattiti e cominci a interrogarsi, a riflettere. È stato educato alla religione, alla preghiera, al rispetto della Fede ma ora comincia a vedere con chiarezza quanto la fede professata dalla Chiesa sia tutta rilegata al materialismo e al ricambio economico.
In realtà, già durante gli anni del collegio ha avuto modo di leggere clandestinamente le opere di Rousseau, in particolare la nuova Eloisa, il Contratto sociale e l’Emilio, ma ora, grazie al pragmatismo dei dibattiti, i suoi interrogativi diventano molto più ossessionanti, fino a quando il suo rapporto con la Chiesa si interrompe completamente e in maniera assai brusca quando da avvocato si troverà a guidare una causa civile contro un prete.
Proyart, concittadino di Robespierre, insegnate e vicedirettore del Collège Louis-le-Grand, ci fornisce molte testimonianze su quella che è stata la vita di Robespierre, testimonianze non sempre veritiere visto il profondo odio che Proyart nutre per il suo ex alunno. Diamo comunque per vera quella che vede Robespierre leggere, oltre a Rousseau, le causes célèbres, i celebri processi raccolti in un unico volume da Gayot De Pitaval nel 1757. In quest’opera vige un completo ripudio per i privilegi aristocratici e clericali e pare che Robespierre ne sia totalmente affascinato tanto da farsi ispirare nella sua condotta futura.
La carriera di avvocato
Robespierre si è distinto in intelligenza sin da bambino. Abbiamo visto che la sua predisposizione allo studio gli ha concesso di vincere una borsa di studio a Parigi e di essere scelto per leggere un discorso ai nuovi sovrani. La carriera universitaria si conclude con lo stesso prestigio: gli viene affidata (spontaneamente) un’ennesima borsa di studio che gli consente di provvedere a se stesso per un anno e consegue il tanto ambito titolo di avvocato, tra l’altro in tempi assai più brevi del previsto. Infatti, agli studenti più brillanti è concesso di accorciare i tempi bypassando gli iter burocratici.
Così, dopo dodici anni trascorsi a Parigi, Robespierre fa ritorno al nido familiare. Ha ventitré anni ed è un giovane avvocato ambizioso, scaltro e con le idee chiare sul suo futuro e sulla sua carriera. Come a Parigi, anche ad Arras domina il privilegio. Ricordiamo che Robespierre non è nobile e quello che ottiene se lo costruisce da solo, con intelligenza e ingegno sopraffino. Già da subito diventa membro del Consiglio dell’Artois e già subito gli viene affidata la prima causa, a cui seguiranno molte altre. Mostra una particolare propensione a difendere gli indifendibili e ama rischiare accollandosi cause che già dal principio sembrano essere perdenti ma che invece riesce a vincere grazie all’astuzia e a quell’oratoria che lo rende così diverso dagli altri.
Nonostante la sua incoraggiante bravura, però, non dispone di chissà quali risorse economiche; al contrario, attraversa molti periodi bui fatti di ristrettezze e sacrifici. Saranno sicuramente la sagacia e la consapevolezza delle sue qualità a spingerlo a non demordere e a costruirsi una posizione molto alta nella gerarchizzazione sociale francese, fino ad arrivare, come si dice oggi, sul tetto del mondo.
Nel 1783, a venticinque anni, è già membro della Regia Accademia di Arras dove c’è tutta l’élite dell’Artois, e proprio per l’Accademia compone un importantissimo discorso sull’ingiustizia e sui pregiudizi. La società dell’epoca, in effetti, è fondata sulla nascita e sull’onore. Chi nasce nobile, lo abbiamo detto, è privilegiato. Non solo: se qualcuno commette un crimine tutta la famiglia è punita dal giudizio.
«Desidero che la legge non infligga nessuna macchia sui figli bastardi: vorrei che non sembrasse punire i peccati dei loro padri proibendo loro posizioni sociali e persino il ministero ecclesiastico».[2]
Insomma, nel discorso di Robespierre si legge la rabbia per quell’antico pregiudizio che aveva portato i suoi nonni a rifiutarlo perché concepito al di fuori del matrimonio e per le supponibili dicerie per aver avuto un padre che ha abbandonato i suoi figli immediatamente dopo la morte della moglie. L’essersi pronunciato contro i privilegi dell’élite in un ambiente in cui domina l’élite dà prova del suo grande coraggio e dell’impossibilità di piegarsi dinanzi ai poteri forti.
Maximilien Robespierre a Versailles
L’escalation professionale di Robespierre è lineare e breve, visto che a soli trentuno anni è già membro degli Stati Generali in qualità di rappresentante del Terzo Stato. Re Luigi XVI decide di convocarli dopo quasi due secoli di silenzio perché la situazione della Francia è esasperata. L’economia è in forte recesso e lo Stato è sulle soglie della bancarotta. Anche il raccolto è stato pessimo e questo ha provocato una fortissima carestia.
In realtà è tutta l’economia a essere in crisi e questo porta il tasso di disoccupazione alle stelle. Più disoccupati equivale a dire più problemi di ordine pubblico. Insomma, è una catena di eventi che porta il monarca, evidentemente disperato, ad appellarsi a un organo che non agisce dal lontano 1614, senza però prendere in considerazione il fatto che la società si è “evoluta” e che si sono evolute soprattutto le aspettative.
Nella convocazione degli Stati, fissata per il maggio del 1789, Robespierre coglie l’opportunità di mettere in mostra se stesso ed esprimere all’opinione pubblica le sue idee di giustizia e di giustezza. La sua elezione non è comunque scontata. Egli è ormai alienato dai ceti privilegiati e dal clero; il suo atteggiamento da “giustiziere” non è gradito ai poteri forti e sono proprio questi poteri a influenzare il voto. Tuttavia, si presenta alle elezioni come rappresentante della corporazione dei calzolai e come esempio di uomo integro e deciso a difendere i più deboli. È convinto di potersi fare portavoce dei disagi sociali e di far valere, con la voce della sua cultura, le richieste avanzate sui cahier de doléance.
La sua vicinanza al popolo, ai più fragili, gli ha già concesso l’appellativo di «avvocato del popolo» e avere l’opportunità di poter esprimere a tutti le ingiustizie subite da coloro di cui si fa portavoce è, per ora, il massimo delle sue aspirazioni. Durante le riunioni degli Stati Generali, Robespierre mette in mostra tutta la sua arte: accusa con convinzione gli aristocratici e il clero; si dimostra un vero patriota e prende a cuore i problemi del popolo. Il suo schierarsi contro la corruzione, l’ingiustizia, i soprusi sono qualità che ritroviamo anche nella fase più tragica della Rivoluzione, sebbene in maniera molto più esasperata.
Si ha come l’impressione che egli creda davvero in quello che fa e che dice; che senta particolarmente viva la disuguaglianza sociale e che cerchi di eliminarla, costi quel che costi. «Che i vescovi rinuncino a un lusso che è un’offesa all’umiltà cristiana; che vendano le loro carrozze e cavalli, e diano i proventi ai poveri».[3]
Il suo atteggiamento di disprezzo nei confronti della Chiesa matura giorno dopo giorno. In realtà, Robespierre non è contrario alla religione cristiana né a qualsiasi altro culto; il suo disprezzo è dettato semplicemente dalla costatazione che il clero non adempie ai messaggi cristiani di povertà e misericordia ma che anzi agisca esclusivamente a proprio vantaggio.
Messa così, Robespierre sembrerebbe un vero e proprio paladino della giustizia sociale. Le cose, ovviamente, non sono così semplicistiche e andrebbero analizzate più nel profondo, tuttavia, il fatto che ancora oggi gli approfondimenti su quest’uomo siano così tanto scarni ci aiuta a renderci conto di quanto sopravviva in maniera maggiore quell’immagine negativa che si è guadagnato durante gli anni del terrore. Pochi sanno, ad esempio, che Robespierre è un uomo sentimentale, che rincorre molti amori (mai ricambiati), che compone poesie per molte donne, alcune estremamente profonde e toccanti.
Credetemi, giovane e bella Ofelia,
Qualsiasi cosa dica il mondo e malgrado il vostro specchio,
Siate contenta di essere bella e di non saperne nulla,
Conservate sempre le vostra modestia.
Del potere del vostro fascino
Siate dimora sempre allarmata.
Sarete tanto più amata
Se non temete di esserlo.[4]
Eppure, si preferisce mettere l’accento sul suo fervore, su un aspetto fisico che incute moltissimo timore, sulla sua bassa statura, sui vari tic facciali e su quel viso butterato dal vaiolo.
Persino nel 2013 è stata ricostruito in 3D il volto di Robespierre, a partire da una maschera in cera realizzata subito dopo la sua morte da Madame Tussand, la quale ci parla di lui come di un uomo dallo sguardo glaciale, inquietante e terrificante. Il raccontare solo della sua freddezza e della sua crudeltà trascurando il suo lato umano è un errore in cui ricadiamo noi tutti e che non ci aiuta a vedere oltre.
Robespierre e la Rivoluzione
Per un uomo così agitato, lo scoppio della Rivoluzione (14 luglio 1789) sembra essere una mano venuta dal cielo. Finora Robespierre ha gridato al cambiamento ma ora il cambiamento diviene meno utopico. In qualità di membro dell’Assemblea Nazionale sembra essere uno dei pochi che ha le idee chiare: porre sulla posizione più alta del podio lo Stato prima ancora dei cittadini.
Non si tratta di un volta faccia al popolo quanto di una razionalizzazione del principio di libertà, che deve essere comunque controllata per non portare al caos: nessun diritto può esistere se questo danneggia lo Stato. È molto probabilmente a questo che Robespierre si appella, visto che le rapide condanne decretate nell’ultimissima fase rivoluzionaria sono dettate dall’esigenza di provvedere al riequilibrio di una prevaricazione del diritto sugli interessi della Nazione.
Nel quadro dei principi democratici, merita una particolare attenzione il concetto di democrazia che Robespierre porta avanti. Se per molti hanno diritto di voto solo coloro che pagano le tasse, Robespierre è fortemente convinto che tutti gli individui, a prescindere dal loro status economico, abbiano gli stessi diritti in quanto cittadini.
L’idea di Robespierre è tipicamente “americana”: uno Stato in cui il popolo è sovrano sebbene si lasci guidare da delegati che si preoccupano di far rispettare delle leggi che ha formulato egli stesso. Nessun compromesso con la monarchia, con il clero e con i nobili, ma solo la volontà dell’Assemblea poiché essa rappresenta la Francia, e un’interpretazione letterale dei principi incarnati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (giugno 1789).
Un pensiero che a noi sembra scontato ma che non lo è affatto per l’epoca. Nel novembre del 1789 Robespierre diviene membro del “Club dei giacobini” e nel marzo dell’anno successivo è eletto presidente. Questo significa una maggiore esposizione mediatica, quindi più critiche. La Rivoluzione ha concesso la totale libertà di stampa e ora la satira si scaglia pesantemente contro i personaggi più animati, quindi anche contro di lui. Le accuse vanno anche sul personale, ironizzando sulla sua sfortunata infanzia, sulla situazione familiare ed esasperando i suoi difetti fisici.
Non si discute che i continui sfottò lo segnano psicologicamente ma nonostante questo non si schiera mai contro la libertà di stampa, ritenendola necessaria perché conquistata con molta fatica e perfettamente coincidente con la libertà dell’individuo.
Robespierre rincorre qualsiasi tipo di libertà, anche se questo significa prenderlo di mira con diffamazioni e critiche, come quelle mosse da molti dei cittadini della bigotta Arras quando sostiene che anche i preti devono essere liberi di decidere se sposarsi o meno. Almeno nella prima fase della sua carriera politica, inoltre, si schiera contro l’abolizione della pena capitale, salvo poi cambiare idea.
Ma la cosa che più lo impegna è il costante tentativo di smantellare le cospirazioni. Robespierre è convinto che coloro che si lamentano della Rivoluzione sono i primi a volerla rovesciare. In effetti non sono pochi quelli che non condividono le idee rivoluzionarie. Sappiamo, ad esempio, che la nobiltà e il clero non possono appoggiare la Rivoluzione perché sono quei ceti che con la Rivoluzione perdono tutti i loro antichi privilegi.
Il sospetto si fa molto più palese quando nel giugno del 1791 viene sventrato un tentativo di fuga di Luigi XVI e consorte, aiutati proprio da alcuni esponenti della nobilita e del clero. Temporaneamente sospeso dagli incarichi, il 14 settembre dello stesso anno il re promulga finalmente la Costituzione e la Francia diviene una monarchia costituzionale, una forma di governo in cui c’è collaborazione tra il capo dell’esecutivo (il monarca) e l’Assemblea, che ha potere legislativo.
Robespierre viene osannato dalla folla, che lo considera l’artefice del cambiamento; lo elogia, lo ringrazia e si prostra come se sia lui, ora, il nuovo monarca. In realtà non sbaglia poi così tanto: di lì a non molto Robespierre diventerà il numero uno di Francia.
La Repubblica e il pensiero di Robespierre
Robespierre si è sempre schierato contro la guerra. Perseguendo ogni libertà e appellandosi letteralmente alla Dichiarazione del ‘89, ritiene che la Francia debba rinunciare ad espandersi perché l’espansione determina l’oppressione degli altri popoli e l’impossibilità di autodeterminarsi. Un pensiero certamente “nobile” e fuori dalle righe.
Nei confronti della guerra difensiva, però, assume un atteggiamento diverso. È convinto che la Francia debba certamente difendersi da un ipotetico attacco nemico; tuttavia condanna chi vuole muovere una dichiarazione di guerra che, ora come ora, finirebbe con il complicare una situazione interna già agitata. Nell’ottica di Robespierre è necessario prima sconfiggere i nemici interni e poi affrontare quelli esterni; a suo avviso l’urgenza non è la guerra ma la rigenerazione civica, rigenerazione che la guerra non consente di portare avanti ma che, anzi, minaccia.
Nonostante questo, nella primavera del 1792 la Francia sfida la Prussia e l’Austria, che sono ben contente di muoversi per destabilizzare i rivoluzionari e permettere al re di riprendere in mano il controllo della situazione. Le continue disfatte dell’esercito danno modo di validare gli avvertimenti di Robespierre e a Parigi si ragiona ormai da tempo sul fatto che siano macchinate dallo stesso sovrano. Per evitare una disfatta totale, il 10 agosto si decide di istituire una Comune che organizzi un’insurrezione contro il re e contro la monarchia, a cui si aggiunge una scia infinita di francesi arrabbiati che si trascina alle porte della Tuileries e destituisce il sovrano.
Robespierre si dimostra entusiasta, addirittura più di quanto lo sia stato per gli eventi del 1789. Considera questa “Seconda Rivoluzione” come l’adempimento dei principi sanciti durante la Prima. Quella del ‘89 ha certamente abbattuto l’antico regime ma questa lo elimina definitivamente. Ora che la monarchia è stata abbattuta e la Convenzione nazionale ha proclamato la Repubblica, a cui segue una nuova Costituzione (1793), bisogna ben capire cosa farne del re. Se i moderati girondini vogliono esiliarlo, i giacobini e Robespierre (ora identificati come “i montagnardi”) si sbilanciano a favore della pena di morte. Solo pochi anni prima Robespierre si era espresso a sfavore della pena capitale e in realtà si dichiara ancora contrario, ma in questo caso la ritiene necessaria, se si vuole che la patria sopravviva.
È un po’ come dire “o il re o la Francia”. Dopo mesi di lunghi dibattiti Luigi XVI viene condannato a morte (21 gennaio 1793). Da questo momento in poi, Robespierre considererà l’esecuzione capitale ben accetta per punire tutti gli oppositori e di lì a poco ce ne darà prova.
Robespierre e il terrore
Dopo la morte del re la situazione interna peggiora: Olanda, Inghilterra e Spagna entrano nel conflitto e viene a crearsi una forte opposizione all’interno della stessa Convenzione. Per reagire all’emergenza della guerra, a cui si aggiunge anche la rivolta della Vandea, viene istituito un Comitato di salute pubblica. Il Comitato ha molti poteri ma quelli che sembrano essere più interessanti riguardano la facoltà di emettere mandati di arresto e di sorvegliare specifiche personalità. In poche parole, uno dei compiti del Comitato è quello di smascherare i traditori.
Congiunture esterne portano Robespierre a farne parte. È la stessa Convenzione che vuole perché spera di sedare i sediziosi sanculotti della Comune, che osannano Robespierre come l’unico vero grande rivoluzionario. Per la prima volta entra a far parte di un governo e in breve tempo ne diventa la figura predominante. Per dare al Comitato la giusta autorità, la Convenzione decide di sospendere temporaneamente la Costituzione e procede immediatamente alla supervisione degli arresti e delle esecuzioni dei traditori.
La guerra, i movimenti federalisti e la crisi del ‘93 spingono la Convenzione a sospendere tutte le libertà civili e a votare la «legge dei sospetti» (17 settembre 1793), necessaria per intimidire, e condannare, chiunque manifesti un atteggiamento ambiguo e sovversivo. Il Grande Terrore, termine che nasce solo successivamente, è un tentativo per spronare il popolo alla vittoria, interna o esterna che sia.
Lo scopo di Robespierre, del Comitato e della Convenzione (di cui sarà presidente) è quello di inculcare timore, terrore nei controrivoluzionari affinché si guardino bene dal tradimento e lo fanno anche se il prezzo da pagare è estremamente alto: la requisizione di derrate alimentari da cedere all’esercito, decine di migliaia di arresti ingiustificati e la morte di 17.000 persone, molte delle quali sono suoi ex collaboratori (si pensi a Danton).
Scoprire, o credere di aver scoperto, che molti dei tuoi ti hanno tradito, porta Robespierre a vivere in un profondo stato di angoscia e amarezza. I suoi discorsi si fanno quasi sconclusionati e sono ormai privi di quella magnifica retorica che ha sfoggiato nell’ ‘89 o nei suoi processi ad Arras. Lo stesso popolo che lo ha sempre acclamato smette di farlo e si aliena a un uomo che dà prova di essere crudele e sanguinario. Anche i molti che continuano a sostenerlo non si sa se lo facciano perché mossi da una sincera vicinanza al suo modo di agire o semplicemente perché timorosi di una ipotetica vendetta.
Non dobbiamo credere che Robespierre condanni a morte per una semplice obiezione. La stampa, ad esempio, continua ad essere libera di esporre le sue critiche, se in esse non si evince nessuna minaccia per l’ordine costituito. Le condanne perpetrate “dall’incorruttibile” sono tutte rilegate al tradimento e alla cospirazione, avvallate dalla necessità del momento.
Ci sembra strano dover parlare di necessità, ma non dobbiamo dimenticare che nel XVIII secolo si ragiona in maniera del tutto diversa da oggi; dunque, non dobbiamo cadere nell’errore di giudicare il passato così come giudicheremmo il presente. Nella Francia moderna la pena di morte non è così scandalosa, figuriamoci se giustificata dalla necessità di garantire un futuro prospero e giusto alla Nazione e ai suoi cittadini.
La fine di Robespierre
Robespierre sa bene che la sua presenza non è più gradita come una volta. Non è raro che la polizia sventi tentativi di assassinio, spesso evitati per un pelo. I continui tentativi di attentare alla sua vita lo rendono circospetto e paranoico. I contemporanei a lui più vicini ci descrivono un Robespierre invecchiato precocemente, un Robespierre che negli ultimi mesi di vita non fa altro che parlare di cospirazioni contro la Francia e contro la sua persona e che è talmente provato da volersi allontanare per un breve periodo dalla vita politica, probabilmente per nascondersi chissà in quale posto.
Questi pensieri paranoici lo rendono estremamente vulnerabile al punto di velocizzare le condanne a morte, per le quali ora non è più necessario fornire una prova di colpevolezza, né ricorrere in appello (legge del 22 pratile 1794). In meno di un mese dall’entrata in vigore della legge, nella sola Parigi sono ghigliottinate 1400 persone: preti, suore, semplici lavoratori vengono condannati a morte per aver commesso reati un tempo espiabili con pochi mesi di carcerazione.
È in questo momento che la fine di Robespierre si fa sempre meno astratta. Il suo atteggiamento si è inimicato moltissimi uomini della Convenzione, che cominciano a temere di essere i prossimi a provare la lama della ghigliottina. Robespierre va fermato prima che li accusi di cospirare contro di lui (accuse nella maggior parte dei casi vere). È ora la sua morte che è necessaria.
Portato in tribunale insieme agli ultimi fedeli collaboratori viene accusato di essere un tiranno spietato e viene condotto al Hotel de Ville. Non tutti sanno che arriverà alla ghigliottina già ferito. Probabilmente, ormai consapevole della sua fine, tenta di uccidersi sparandosi un colpo che gli rompe la mandibola, ma c’è chi sostiene che la ferita gli è stata procurata da un colpo sparato da uno dei gendarmi. Fatto sta che il suo corpo viene adagiato su una tavola di legno e messo in bella mostra affinché i curiosi possano gioire nel vederlo moribondo. Il 10 termidoro (28 luglio), dopo quasi un giorno di agonia la ghigliottina pone fine alla sua breve ma intensa vita.
Note:
[1] P. McPhee, Robespierre. Una vita rivoluzionaria, il Saggiatore, Milano 2015, p. 47.
[2] J.Sgard, Dictionnaire des journaux 1600-1789, Universitas, Paris 1992, nota 8.
[3] P. McPhee, Robespierre p. 97.
[4] CEuvres de Maximilien Robespierre, vol. I, Phénix éditions, Paris 2000.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Robespierre, Memorie sui miei fratelli, Sellerio Editore Palermo, 1989.
- J-C. Martin, Robespierre, Salerno Editrice, 2018.
- Peter McPhee, Robespierre, Una vita rivoluzionaria, il Saggiatore, Milano 2015.
Davvero un bell’articolo. Interessante conoscere Robespierre sotto il profilo umano, anche perché non ci sono molte notizie in giro.