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Il destino di tutte le guerre è quello di trascinare chiunque, inesorabilmente, verso la disumanizzazione. Perché scrivere oggi dopo ventisei anni dell’ex Jugoslavia? Cosa è avvenuto in Bosnia Erzegovina, in Serbia, in Kosovo, in Montenegro che valga la pena di essere ricordato?
La guerra della vergogna per tutto il mondo occidentale, una guerra per certi versi tribale, nella quale gli uomini si manifestarono in tutta la loro brutalità al solo scopo di «cancellare» un Paese e la sua gente. Una guerra civile, generatrice di atrocità inimmaginabili in tempo di civile convivenza.
Quando si odia il vicino, si dà sfogo agli istinti più bestiali senza più freni inibitori. Questo è ciò che è avvenuto nell’ex Jugoslavia. Dopo i lager nazisti, dopo i gulag staliniani, dopo le Foibe titine, l’11 luglio 1995 a Srebrenica si realizza il peggior massacro che la storia d’Europa ricordi dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Srebrenica: nome difficile da pronunciare, una cittadina dimenticata, al confine tra Bosnia e Serbia, è qui che avviene un dramma annunciato; il genocidio di civili inermi, oltre 8.000 uomini di ogni età, separati dalle loro famiglie. Un massacro di innocenti dove distruzioni, stupri, torture, portarono a perseguitare anche l’amico di sempre, un abuso senza limite in una terra da sempre molto tormentata. Come è stato possibile tutto questo?
Dalla «fratellanza e unità» di Tito alla guerra di Slobodan Milošević
L’anno di nascita della Jugoslavia come Stato federale è il 1919: si chiamava Regno dei Serbi, Croati e Sloveni ed era formato dalle sei Repubbliche di Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Serbia (comprendente a sua volta le due regioni autonome della Vojvodina e del Kosovo). Alla fine della Seconda guerra mondiale diventa una repubblica a regime comunista alleata dell’URSS di Iosif Stalin, sotto il comando di Josip Broz, meglio conosciuto con il nome di Maresciallo Tito, l’uomo forte, vincitore con i suoi partigiani della guerra contro il nemico invasore nazista.
Tito governa dapprima come Primo Ministro e in seguito come Presidente, una federazione di Stati con notevoli differenze fra loro – differenze di lingua, religione, cultura, tradizione – potenzialmente in disaccordo tra loro ma tenute insieme dall’autorità e dal carisma del maresciallo. Con lui le cose funzionavano, teneva unita la Federazione – sostenendo e favorendo «fratellanza e unità» tra le diverse etnie – e questa situazione di apparente benessere aveva fatto assopire i vari nazionalismi che pure esistevano nelle Repubbliche.
Lo stato titino era talmente saldo da trovare una posizione onorevole a livello internazionale, specialmente dopo il suo divorzio da Stalin, nel 1948: una repubblica comunista indipendente che dialogava con l’occidente sfidando l’egemonia dell’Urss. Ma lentamente la Jugoslavia si stava sgretolando come un fragile castello di carte con il suo corollario di morte, distruzione e odio etnico che, covando sotto la cenere della dittatura titina, era sembrato per così tanti anni del tutto assopito.
Tito muore il 4 maggio del 1980 dopo 35 anni di dittatura, lasciando ai suoi effimeri successori, Lazar Koliševski prima e Cvijetin Mijatović e Sergej Kraigher subito dopo, una terra sull’orlo della guerra civile, una terra che ben poteva compendiarsi nella massima “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Una filastrocca quasi fanciullesca che sottolineava, tuttavia, l’esistenza di un potere egemonico centralizzato pronto ad intervenire, anche con mezzi brutali, per mantenere lo status quo di apparente tranquillità.
Se già sotto il pugno di ferro di Tito erano iniziati gli scricchiolii di una presunta unità nazionale, per le spinte indipendentiste delle varie compagini etnico-politico-religiose, fu nel 1981 che una prima crepa si allargò nell’apparente granitico muro dell’unitarietà: il Kosovo iniziò una sua contesa per giungere all’indipendenza dichiarandosi, peraltro, repubblica federata.
Nonostante queste spinte centrifughe, la federazione, in apparenza compatta, sembra per qualche anno sopravvivere alla mancanza del suo fondatore, ma in realtà, già durante la dittatura del Maresciallo, la Serbia aveva iniziato a vivere malumori, dovuti al tentativo di Tito di dare libertà alle diverse etnie puntando sull’equità, allo scopo di garantire alla Federazione quell’equilibrio che rischiava di venire meno: più autonomia avrebbe significato più salda alleanza tra le componenti della federazione. Tito era arrivato a concedere con la Costituzione del 1974 il diritto alle singole repubbliche di staccarsi dalla Federazione con un eventuale referendum.
Quindi ai vari movimenti indipendentisti che cominciano a diffondersi tra le Repubbliche, e al processo di dissoluzione della Jugoslavia, è proprio la Serbia che si oppone ferocemente, sentendosi minacciata nel suo ruolo di leadership nella Repubblica di Jugoslavia. Colui che guida questo movimento serbo di unificazione forzata è Slobodan Milošević, a cui non basta essere a capo della Serbia, ma vuole il ruolo egemone che era stato di Tito.
Fine politico, maestro di trasformismo nell’orchestrare i suoi giochi di potere manovrando l’opinione pubblica, Milošević piomba prepotentemente sulla scena politica serba, pubblicando nel 1986, appena eletto Presidente della Lega dei Comunisti di Serbia, il Memorandum dell’Accademia delle Scienze. Nel Memorandum egli sostiene che il popolo serbo si è sempre sacrificato per le altre etnie, per colpa delle quali i serbi si sentivano vittime di sopraffazioni: «vincitori nella guerra e perdenti nella pace», la leggenda della vittoria mutilata secondo la quale i serbi erano stati ingiustamente dispersi nei territori delle varie Repubbliche.
Milošević quindi, con il Memorandum, chiede il ripristino della piena sovranità di Belgrado su tutto il territorio repubblicano, in pratica delle autonomie regionali del Kosovo e della Vojvodina e «l’instaurazione della piena integrità nazionale e culturale serba, a prescindere dalla Repubblica o dalla provincia in cui si vive»: il mito della Grande Serbia per una forte Jugoslavia.
Milošević, con questo scritto, fomenta il rigurgito nazionalista e sovranista, trovando terreno fertile nella rabbia dell’opinione pubblica serba, manovrata dai mezzi d’informazione verso un progetto di pulizia etnica.
Nell’aprile del 1987 serbi e montenegrini si ritrovano per un incontro di attivisti politici a Kosovo Polje, luogo simbolo per il popolo serbo in quanto nel giugno del 1389, il giorno di San Vito (15 giugno per il calendario giuliano, corrispondente al 28 giugno per quello gregoriano) i Serbi vengono clamorosamente sconfitti dagli Ottomani nella famosa battaglia della Piana dei Merli (oggi appunto Kosovo Polje), ponendo fine alle conquiste e all’espansione del Regno di Serbia, sbaragliati dai Turchi che così iniziano la loro ascesa in Europa. A questo incontro l’allora presidente della Serbia Ivan Stambolić invia il suo fedele amico Milošević, in qualità di Presidente della Lega dei Comunisti di Serbia, per controllare la situazione ed in caso calmare le acque. È l’inizio del declino di Stambolić e il preludio del mito Milošević.
Una moltitudine di serbi e montenegrini terrorizzati si era organizzata con pietre e armi di fortuna per scagliarsi contro la polizia ed attirare così l’attenzione sulla precaria situazione dell’etnia serba in Kosovo. In quel momento Milošević decide di prendere in mano la situazione. Ripreso da telecamere e TV si fa avanti, divenendo immediatamente l’incarnazione della causa nazionale serba, l’eroe da tanto tempo atteso, promettendo «nessuno può farvi del male», ma soprattutto incitando alla resistenza, in nome della forza serba:
« Questo è il vostro paese, qui ci sono le vostre case, i vostri campi e i vostri giardini, le vostre memorie.[….] I popoli serbi e montenegrini non si arrendono mai davanti agli ostacoli, non smobilitano quando si tratta di combattere, né si demoralizzano quando occorre fronteggiare le difficoltà. […]. La Jugoslavia non esiste senza il Kosovo! La Jugoslavia si disintegrerà assieme al Kosovo! La Jugoslavia e la Serbia non abbandoneranno il Kosovo!»
Tutti i telegiornali quella sera mandarono in onda le riprese del discorso di Milošević a Kosovo Poljie.
Era l’inizio della leggenda; era l’inizio della scalata al potere di Milošević, che sbaragliò senza remore il suo mentore e amico Stambolić (grazie al quale aveva ottenuto la Presidenza della Lega), arrivando poi a soffiargli la Presidenza dello Stato con l’elezione nel 1989 a Presidente della Repubblica di Serbia.
Si era reso evidente il ruolo cruciale dell’informazione, in questo caso della televisione, nel favorire il processo di idealizzazione di Milošević da parte del popolo serbo; egli aveva capito il ruolo fondamentale del giornalismo di propaganda e dei mass media per la sua scalata al potere.
La preparazione della guerra si identifica quindi con la scalata al potere del serbo Slobodan Milošević, scriverà Paolo Rumiz. Essa ci rivela impressionanti retroscena di manipolazione e intrigo; un lavoro scientifico, labirintico e dalle tempistiche inesorabili. E’ dalla Serbia che parte la prima, determinante spinta alla disintegrazione della Jugoslavia.
Perno di questa spinta è la disinformazione attraverso i mass media. Assistiamo a qualcosa di nuovo e stupefacente. Non è la disinformazione bellica, antica come il cavallo di Troia e banalmente finalizzata al depistaggio del nemico. Quella cui assistiamo a Belgrado dalla fine degli anni ottanta è disinformazione pre-bellica.
Essa rappresenta qualcosa di tremendamente moderno e complesso: non serve a depistare l’avversario, ma a costruire la guerra nella mente della gente, a gonfiare un antagonismo solo latente, ad attirare gli uni e gli altri nella trappola dello scontro.
Quando, il 25 giugno 1991, il più occidentale degli stati balcanici – la Slovenia – dichiara la propria indipendenza, è l’inizio della disgregazione dei Balcani.
Verso il massacro di Srebrenica del luglio 1995
La Slovenia non interessa a Milošević; dietro alle sue dichiarazioni roboanti sull’integrità dei confini, egli già lavora per ritagliare dal Paese la fetta più larga possibile di Grande Serbia, dunque il separatismo sloveno gli è utile a mettere in moto il processo e a schivarne le responsabilità, arte in cui si rivelerà un maestro.
Già prima della dichiarazione d’indipendenza slovena i capi di stato delle Repubbliche avevano cercato di trovare un compromesso che rendesse in qualche modo tutti soddisfatti: di trasformare cioè la Federazione in una Confederazione di Stati indipendenti. Chiaramente questo non poteva in alcun modo soddisfare Milošević, che aveva nel frattempo caricato il popolo serbo di illusioni ed odio etnico.
Alla proposta rispose che «se la Jugoslavia dovesse diventare una Confederazione di Stati indipendenti, la Serbia chiederà dei territori dalle Repubbliche confinanti affinché tutti gli otto milioni e mezzo di Serbi possano vivere nello stesso Stato».
Avviò in questo modo il sollevamento di tutti i serbi sparsi nelle diverse Repubbliche, dove iniziarono a nascere Province Autonome auto proclamate di serbi che volevano mantenersi legati alla madrepatria, come avvenne già nel febbraio del 1991 per la regione della Krajina, in Croazia. Lo slogan era uno solo: «È terra serba là dove ci sono tombe serbe».
Così, seguendo a ruota il separatismo sloveno, la Croazia proclama anch’essa la propria indipendenza, che sfocia nel luglio 1991 nell’offensiva militare dell’esercito nazionale jugoslavo appoggiato da gruppi paramilitari, tra le quali primeggiano per ferocia le famose «Tigri di Arkan» al secolo Željco Ražnatović.
La guerra è cominciata: è l’inizio della prima guerra in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Vengono immediatamente attaccate le città di Vukovar e Dubrovnik (la veneziana Ragusa).
Il 14 ottobre 1991, nel Parlamento della Repubblica Federale di Bosnia Erzegovina, si svolge il dibattito sull’indipendenza dalla Jugoslavia. E’ in questa occasione che appare sulla scena politico-militare bosniaca Radovan Karadžić, leader del Partito Democratico Serbo, che interviene dicendo:
«Non vi sto minacciando, ma vi sto pregando di capire seriamente la volontà politica del popolo serbo.[….] Dovete capire che non è saggio quello che fate; questa è la strada nella quale volete portare la Bosnia Erzegovina? È la stessa autostrada per l’inferno della Slovenia e della Croazia; porterete il popolo musulmano all’estinzione, perché non può difendersi se dovesse scoppiare una guerra».
Nel marzo del 1992 viene indetto il referendum per la secessione della Bosnia Erzegovina dalla Jugoslavia, boicottato dai Serbi. Radovan Karadžić con altri membri serbi del Parlamento proclama la nascita della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina: la Repubblica Srpska, in contrapposizione alla dichiarazione di indipendenza della Bosnia Erzegovina.
Comincia il sanguinoso conflitto serbo-bosniaco che vede contrapporsi le forze serbe della neonata Repubblica Srpska, appoggiate dall’Armata popolare Jugoslava che occupa tutti i punti strategici del paese, e l’Armata della Repubblica di Bosnia Erzegovina.
Nel 1993, in relazione agli attacchi che le bande armate serbe, sostenute dall’Armata popolare, conducevano dall’anno precedente nella Bosnia orientale e nord occidentale, il vicepresidente della Repubblica Serba di Bosnia arrivò ad affermare che «eravate così preoccupati dell’assedio di Sarajevo che nel resto della Bosnia potevamo fare quello che volevamo». Lo scopo delle forze serbo bosniache era sempre stato quello di assicurarsi, oltre alla capitale bosniaca e alle zone a maggioranza serba, anche quelle sulle rive della Drina, ovvero di contatto con la Serbia.
Fin dall’inizio della guerra in Bosnia queste aree, ovvero Bijeljina, Zvornik, Srebrenica, Žepa, Foča, Goražde, Višegrad, facevano parte del progetto serbo bosniaco di unità con la “madrepatria”, passando più volte di mano e creando nelle regioni che le circondavano un odio etnico che andava sempre più rafforzandosi.
A dirigere le operazioni sono Radovan Karadžić, in qualità di presidente della Repubblica Srpska, e il suo braccio armato Ratko Mladić, capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia. Karadžić parlava apertamente di “pulizia etnica”, la “radice turca” andava estirpata ad ogni costo, tanto da arrivare ad affermare nel giugno del 1995:
«Voi turchi dovreste sapere che questi tempi non sono gli stessi tempi passati quando voi avevate le spade, ora invece noi abbiamo le armi. Anche Gesù era solo, ed era nel giusto; noi dobbiamo difenderci dai turchi».
Nel giro di poche settimane dall’inizio della guerra già il 60% dell’autoproclamata Repubblica Srpska veniva “ripulito” con atrocità, stermini e crimini di ogni sorta, mentre da parte internazionale nulla si muoveva, nonostante le ripetute richieste di aiuto: nessuno osava immischiarsi in una guerra fratricida che, giorno dopo giorno, andava assumendo aspetti sempre più drammatici.
La prima cosa che successe in pochi mesi di guerra è che la Jugoslavia aveva smesso di esistere. Nessuno sapeva più chi era. La prima cosa che la guerra aveva portato via era stato il nome.
Una guerra meschina: il musulmano non si aspettava che il vicino di casa, amico di una vita, decidesse da un giorno all’altro di uccidere suo figlio, stuprare sua moglie e di venire ad abitare nella sua casa; i musulmani bosniaci sono da sempre i più laici in assoluto.
Ciò è dovuto alla loro storia più che centenaria di insediamento in Europa, che li ha resi cittadini di una Europa libera e moderata, certamente non fondamentalisti islamici!
Dalla guerra al massacro di Srebrenica
All’inizio Croati e Bosniaci erano alleati contro i Serbi, ma a partire dal 1993 l’alleanza si rompe per il sogno nazionalista dei Croati di creare la “Grande Croazia”, come per i Serbi era la creazione della “Grande Serbia”. Il bottino da spartire era la Bosnia musulmana, l’obiettivo l’annientamento del suo popolo: di qui l’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, la distruzione di Mostar, per citare alcuni dei fatti più salienti.
Esecuzioni, mutilazioni, violenze, umiliazioni: ogni musulmano che si trovasse sulla strada che portava alla “Grande Serbia” non veniva solo cacciato di casa o ucciso, veniva costretto a veder soffrire e morire i propri cari per mezzo di mutilazioni, stupri, roghi umani e molte altre barbarie.
Queste uccisioni di massa avevano fatto sì che a sopravvivere fossero solo piccole zone isolate, piccole “enclave”, che resistevano agli attacchi, oppure erano state riconquistate dalla resistenza: tra queste Srebrenica, già dichiarata zona protetta, ma strategicamente di vitale importanza per le forze serbo bosniache.
La città, inizialmente caduta in mano serba, era stata riconquistata grazie alle forze di Naser Orić, militare bosniaco a capo delle forze bosniache a Srebrenica, il quale a sua volta si era macchiato delle stesse atrocità subite, infliggendo ai serbi delle località circostanti le medesime sofferenze che stavano patendo i bosgnacchi (erano così chiamati gli slavi bosniaci musulmani). Centinaia di serbi uccisi, case bruciate, profughi in fuga.
L’idea di Orić era quella di conquistare l’intera vallata della Drina, interrompendo in tal modo i collegamenti tra i serbi di Bosnia e la Serbia. Tentativo vano per la scarsità di approvvigionamenti da parte dei musulmani e la preponderanza serba degli uomini di Mladić: Srebrenica, Žepa, e Goražde, gli unici tre centri ancora in mano alle forze bosgnacche, si riempirono così di profughi costretti a dormire per strada, senza acqua né elettricità, avendo i serbi distrutto le riserve e le centrali.
Scrive Hasan Hasanovic, in Surviving Srebrenica:
«Vivevamo come gli animali; eravamo come una mandria, guardavamo i nostri villaggi distrutti da lontano. La nostra vita al villaggio era stata bella, poi era arrivata la guerra e ogni cosa era andata in cenere – le nostre case, i libri, le foto di famiglia, i vestiti – tutto quello che avevamo. Era come se tutto il nostro mondo fosse crollato e la sola cosa rimasta fosse la speranza – la speranza di poter sopravvivere».
Per due anni le cose non cambiarono, fino a quando con l’avanzare del 1995 i serbi di Bosnia capirono che la guerra sarebbe finita a breve e quindi era indispensabile conquistare le enclavi. Dopo anni di vaghe minacce mai realizzate da parte delle Nazioni Unite e della NATO, l’esercito della Repubblica Srpska aveva capito che nessuno sarebbe intervenuto per fermarle.
Nel giugno 1995 le BSA (le truppe dell’esercito serbo bosniaco) attaccarono il check-point olandese dell’UNPROFOR (truppe ONU poste a guardia dell’enclave) circa sei chilometri a sud della città, a Zeleni Jadar. Gli olandesi si ritirarono senza opporre resistenza, lasciando in tal modo scoperto il campo profughi di Slapovici e le sue 3000 persone.
Si giunse così al 6 luglio 1995. l’inizio dell’attacco serbo a Srebrenica: i bosgnacchi chiesero aiuto ai caschi blu dell’UNPROFOR affinché fossero restituite loro le armi, inutilmente. Venne chiesto un intervento NATO, mai attivato; il generale francese Janvier disse senza mezzi termini di doversi “sbarazzare di quelle enclavi”. I caschi blu rimasti ripararono nel loro quartier generale a Potočari, tre chilometri dopo Srebrenica.
La gente in città non aveva più modo di opporre resistenza. L’11 luglio cominciarono gli stermini di massa. Una parte dei profughi si incamminò verso Tuzla lungo un percorso di circa 50 km nel bosco, minato dai serbi. Intercettati dalle truppe serbo bosniache, vennero dispersi con gas allucinogeni, catturati e uccisi sul posto.
Altri convogliarono verso Potočari chiedendo rifugio ai caschi blu delle Nazioni Unite: respinti, vennero lasciati cadere nelle mani delle truppe serbe. Il 12 luglio Mladić e i suoi uomini entrarono in città con a seguito cameramen e giornalisti per farsi filmare a consegnare caramelle ai bambini e assicurare alla gente che a nessuno sarebbe stato fatto del male.
Disse che tutti sarebbero stati portati a Tuzla, dove erano presenti strutture atte ad accogliere i profughi, e che la precedenza sarebbe stata data a donne, vecchi e bambini; arrivarono i primi furgoni, sui quali la gente iniziò effettivamente ad essere portata a destinazione.
Tutti gli uomini in età militare – tra i 17 e i 60 anni – verranno invece trattenuti ed identificati. Nella notte, dopo essere stati radunati in un edificio lì vicino, una parte di loro venne fucilata sul posto, un’altra trasportata a Bratunać, seviziata ed infine trucidata.
Tra il 16 e il 17 luglio la colonna partita da Srebrenica raggiunse il territorio sotto giurisdizione musulmana: dei 15.000 partiti, ne arrivarono tra i 5/6.000. In seguito si scoprirono la presenza di numerose fosse comuni, nelle quali furono buttati i cadaveri delle migliaia di persone uccise; alcuni furono seppelliti ancora vivi.
Il numero dei morti, tuttora indefinito, supera gli 8000, e qualcuno ancora oggi asserisce che questo crimine non è stato un genocidio in quanto, secondo la definizione adottata dall’ONU, costituiscono genocidio “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.
E poi le donne. Quelle che non venivano uccise venivano stuprate, violenza che portava ad un triplice risultato: quello dell’annientamento della donna in quanto tale, che non accettando più il suo corpo spesso decideva di porre fine alla propria, quella ancora più subdola della pulizia etnica che vedeva la donna musulmana incinta costretta a procreare figli serbi, e per finire la donna rimasta vedova che per la legge musulmana non può risposarsi e quindi non può più avere figli. Si realizza quindi in ogni caso l’intenzione del carnefice, che è quello di porre fine alla “razza”. È una realtà che l’enclave di Srebrenica venne di fatto venduta.
Per ottenere in cambio la liberazione di Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa, messa sotto assedio dai serbi dal 1992; per porre fine alla guerra, che non a caso avvenne alla fine dello stesso anno 1995: il conflitto in Bosnia Erzegovina iniziato nel 1992 terminava quindi con gli accordi di pace di Dayton, che riconobbero la Repubblica Serba di Bosnia Srpska e la Federazione Croato-Musulmana, con la divisione dell’unità territoriale della precedente Bosnia Erzegovina.
Scrive il giornalista Đorđe Vlajić: «Quando il fatto successe non c’erano informazioni in proposito. I mass media e i giornalisti locali appoggiavano le operazioni della Repubblica Serba di Bosnia, ma Srebrenica era considerata un episodio di guerra come ce n’erano stati fino ad allora, e quindi un’operazione militare volta, in questo caso, a ripulire il terreno dalle forze musulmane di Naser Orić che stavano nella città, uscivano per compiere azioni contro i serbi, erientravano. I giornalisti riportavano quello che avveniva parlando solamente di queste azioni. È stata una sorpresa enorme quando, dopo un po’ di tempo, si è iniziato a parlare delle fosse comuni, dei massacri compiuti contro i civili. Da allora alcuni giornali, ad esempio Danas o i giornalisti stranieri, hanno cominciato a porre domande su quanto era avvenuto, mentre nella stampa nostrana la questione era minimizzata».
Venivano momentaneamente assolti gli artefici del genocidio della popolazione bosgnacca!
Radovan Karadžić, latitante per oltre tredici anni, viene arrestato solo nel 2008 e condannato dal Tribunale penale internazionale dell’Aia prima a quarant’anni di carcere e poi nel 2019 all’ergastolo per crimini contro
l’umanità.
Ratzko Mladić, comandante delle truppe serbe in Bosnia, viene arrestato nel 2011 e condannato all’ergastolo in quanto riconosciuto colpevole dal tribunale dell’Aia di crimini contro l’umanità.
Željco Ražnatović, imputato anch’egli per crimini di guerra contro l’umanità, non verrà mai portato in giudizio, in quanto assassinato in un albergo a Belgrado nel gennaio del 2000.
E’ il primo giugno 2005: all’Aia si sta svolgendo il processo all’ex Presidente della Repubblica serba, Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità (morirà l’anno seguente in carcere). Viene mostrato un video, assicurato al Tribunale internazionale dell’Aia da Nataša Kandić (fondatrice e direttrice del Fond za Humanitarno Pravo di Belgrado, nato nel 1992 per documentare i crimini di guerra commessi dalla Serbia), che testimonia il coinvolgimento di membri della polizia serba nel massacro di Srebrenica.
Il video mostra un prete ortodosso che benedice i membri di questa unitŕ, gli “Scorpioni”, i quali successivamente malmenano ed infine uccidono quattro bosniaci musulmani inermi. Gli Scorpioni a questo punto costringono i due uomini ancora vivi a portare i cadaveri in un fienile, dove vengono anch’essi giustiziati.
Passeranno altri 10 anni, siamo nel 2015, prima che vengano arrestati alcuni dei presunti responsabili materiali della strage: Nedjo il macellaio, al tempo Nedeljco Milidragović, insieme ai suoi sette compagni, mentre il loro comandante militare Ratko Mladić era già stato arrestato nel 2011.
Vale però la pena sottolineare cosa scriveva il Nezavisne Novine e il suo coraggioso lavoro all’interno della Repubblica Srpska:
«Di ogni guerra vengono ricordati i nomi di eroi, generali, luoghi: Salamina e le Termopili, Temistocle e Dario, ad esempio. Spesso è la morte stessa degli eroi a segnare il ricordo che resta di una guerra. Si parla delle guerre in tomi mitizzati», scrive il giornalista nell’articolo «Srebrenica, la fine di un’epopea». Ma Srebrenica, continua, è il vero nome dell’ultimo conflitto, nonché quello di un grande campo di sterminio. Il problema più grave, fa notare l’autore, sta nel fatto che molti lo celebrano ancora come un’eroica epopea.»
Il Memoriale di Srebrenica
Anche quest’anno, il ventiseisimo, come ogni 11 luglio a tre chilometri da Srebrenica – dove c’è Potočari – si celebra la cerimonia sul luogo chiamato Memoriale, inaugurato dall’ex presidente USA Bill Clinton il 30 settembre 2003; verranno piantate nuove provvisorie tavolette verdi che si mischieranno con le pietre tombali bianche.
Segneranno le tombe dei resti che, a distanza di ventisei anni e chissà per quanti anni ancora, sono stati identificati ed hanno finalmente un nome. Resti su cui qualcuno potrà piangere finalmente il figlio, il marito, la moglie, il padre, il fratello trucidati in quei maledetti giorni che precedettero e seguirono quell’11 luglio 1995.
Questo è il Memoriale: non solo un luogo per ricordare il passato affinché non si ripeta, ma anche un eterno presente che ogni anno sviscera l’odio che ha portato a tanto male.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- Hasan Hasanovic, Surviving Srebrenica, Gabrielli editori, 2019.
- Luigino Bravin, Srebrenica non è lontana, Piazza Editore, 2018.
- Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Feltrinelli Editore.
- Luca Leone, Srebrenica. I giorni della vergogna, Infinito Edizioni, 2013.
Grazie, mi piace molto leggervi. Leggendo del massacro di Srebrenica mi chiedevo: ‘a cosa servono la NATO e l’Onu?’ È stato fatto qualcosa per le azioni vergognose dei caschi blu olandesi e del generale francese Javier, oppure è finito tutto in chiacchiere?