CONTENUTO
La foiba, dal latino fovea (fossa, cava), è una profonda cavità naturale tipica dei terreni carsici. L’imboccatura può essere larga da alcuni centimetri ad alcuni metri e il pozzo può sprofondare per molte decine di metri, anche con più salti. Nel solo Carso triestino ed in quello goriziano si trovano alcune migliaia di cavità di vario tipo ed il medesimo terreno è diffuso in Slovenia e Croazia.
Il termine è correntemente usato per indicare le stragi dell’autunno 1943 in Istria dal movimento di liberazione jugoslavo (particolarmente nota la foiba di Vines) e nella primavera/estate 1945 in tutta la Venezia Giulia dallo Stato jugoslavo (note la foiba Plutone, vicino Trieste; le foibe di Gargaro e Zavni in provincia di Gorizia; la foiba di Costrena nei pressi di Fiume), occasioni nelle quali i corpi delle vittime vennero spesso gettati nelle foibe data la difficoltà di scavare fosse comuni nel terreno roccioso, di solito dopo fucilazione collettiva.
Medesimo utilizzo hanno avuto cavità minerarie, con le quali spesso le foibe vengono confuse nel linguaggio corrente. Particolarmente note sono la Huda Jama nella zona di Laško in Slovenia e nella Venezia Giulia il pozzo della miniera di Basovizza, solitamente chiamato foiba di Basovizza.
Definire pulizia etnica fenomeni quali le foibe è un grave errore, che denota incomprensione sia del termine che delle caratteristiche peculiari dell’italianità adriatica. Il termine “pulizia” richiama un campo semantico assai diffuso nel linguaggio della biopolitica del ‘900 (le “pulizie” naziste dagli ebrei, le “purghe” staliniane) che rimandano ad una concezione della comunità come organismo vivente che va depurato dagli elementi “infetti” (su base etnica, razziale, di classe). Il termine “etnico” rimanda alla concezione etnicista della nazione adottata dai movimenti nazionali slavi. Pertanto, non può venir applicato a comunità nazionali che si definiscono su basi non etniche, come gli italiani della Venezia Giulia e Dalmazia.
Occupazioni italiane in Jugoslavia
A seguito dell’aggressione alla Jugoslavia dell’aprile 1941 da parte delle truppe dell’Asse, seguita da una rapida vittoria tedesca, il Paese balcanico viene diviso fra i vincitori. La Serbia rimane formalmente indipendente sotto controllo germanico, ma grandemente ridimensionata, avendo perso territori a favore dell’Ungheria e della Bulgaria.
La Croazia viene costituita in stato indipendente, retto dal regime fascista degli ustascia (già movimento terrorista finanziato dall’Italia) con a capo Ante Pavelić. Essa comprende anche la Bosnia-Erzegovina, ma non la Dalmazia, annessa all’Italia. Il Montenegro viene staccato dalla Serbia, perde il Kosovo a vantaggio dell’Albania e viene controllato dall’Italia. La Slovenia perde alcuni territori a vantaggio dell’Ungheria e viene divisa fra la Germania e l’Italia (provincia di Lubiana).
La Croazia è considerata uno stato alleato della Germania e dell’Italia, ma il suo territorio rimane occupato sia da tedeschi che italiani, per garantire l’ordine pubblico. Infatti, la dura politica antiserba del regime scatena la ribellione armata dei serbi. Inoltre, dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica del 1941, in quasi tutta la ex Jugoslavia comincia ad agire un movimento partigiano a guida comunista.
Crimini di guerra italiani
Nei territori occupati le truppe italiane tengono comportamenti contradittori. In genere proteggono la popolazione serba là dove essa è minacciata dalle persecuzioni ustascia. Inoltre, si rifiutano di consegnare gli ebrei ai tedeschi e li pongono al sicuro sull’isola dalmata di Arbe.
Nella Provincia di Lubiana, fallito il tentativo di instaurare un regime di occupazione morbido, emerge presto un movimento resistenziale: la conseguente repressione italiana è dura e in molti casi sono commessi crimini di guerra con devastazioni di villaggi e ritorsioni contro la popolazione civile. Le sanguinose rappresaglie attuate dal Regio Esercito italiano, per reprimere le azioni di guerriglia partigiana, aumentano il risentimento della popolazione slava nei confronti degli italiani.
Nelle zone in cui è attivo il movimento partigiano adottano pratiche repressive estreme. Gli ordini impartiti, fra cui la “circolare 3C” del generale Roatta del marzo 1942, configurano una vera e propria guerra ai civili. Le azioni antiguerriglia prevedono arresti, prese di ostaggi, fucilazione degli ostaggi medesimi, distruzione dei paesi, uccisione degli uomini e deportazione di donne e bambini. In particolare, nelle zone in cui l’esercito italiano non riesce a venire a capo della ribellione, provvede a svuotare il territorio con la deportazione in massa della popolazione.
Nell’aprile 1942 viene costituito l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, specificatamente dedicato alla lotta antipartigiana mediante l’infiltrazione e la tortura. I deportati sono alcune decine di migliaia, reclusi in un gran numero di campi di concentramento collocati sulle isole dalmate e nella penisola italiana. I più famigerati sono quelli di Gonars in Friuli e dell’isola di Arbe. Qui la mortalità è assai elevata per le pessime condizioni igieniche ed abitative e la sistematica sottonutrizione.
A partire dal 1942 le azioni partigiane cominciano ad interessare anche le province giuliane di Fiume, Trieste e Gorizia. Anche qui pertanto le autorità italiane adottano le medesime pratiche repressive. Va segnalata ad esempio la strage compiuta il 12 luglio 1942 a Podhum, nei pressi di Fiume: per rappresaglia i reparti militari italiani, su ordine del prefetto della Provincia di Fiume Temistocle Testa, fucilano novantuno persone, ossia tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 e i 64 anni. Il resto della popolazione viene deportata nei campi di internamento italiani e le abitazioni sono incendiate.
I massacri delle foibe
L’uso simbolico del termine infoibati per indicare tutte le vittime delle stragi dell’autunno 1943 e della primavera 1945, per quanto assai diffuso, può dar luogo a fraintendimenti.
In primo luogo, va precisato che l’infoibamento non era una modalità di uccisione, ma di occultamento delle salme, legato in genere alla difficoltà nello scavo di fosse comuni. Risultano pochissimi casi in cui nell’abisso sono gettate persone ancora vive, specie per errori nella fucilazione. In secondo luogo, non tutte le vittime delle stragi concludono la loro vita nelle foibe. Molti, forse la maggior parte, trovano la morte in prigionia. Un uso non accorto del termine infoibati può dar luogo quindi a contestazioni ed equivoci sulla quantificazione delle vittime. Più corretto sarebbe parlare di uccisi e dispersi.
Per le stragi del 1943 l’ordine di grandezza è delle centinaia (le stime variano da 500 a 700). Per le stragi del 1945 l’ordine di grandezza è delle migliaia. Lo stato della ricerca non consente quantificazioni precise. Gli arrestati nelle province di Trieste e Gorizia sono circa 10.000, ma la maggior parte di essi è liberata nel corso di alcuni anni.
Molte delle vittime infatti non sono uccise subito dopo l’arresto, ma condotte in prigionia e muoiono nei campi, per gli stenti e le angherie. Di molti altri arrestati si è persa ogni traccia e rimangono nella categoria dei dispersi (ma non degli infoibati veri e propri). Non vi è quindi alcuna corrispondenza fra il numero degli esumati (gli infoibati veri e propri) e quello complessivo delle vittime.
Secondo una ricerca condotta a fine anni ’50 dall’Istituto centrale di statistica, le vittime civili (infoibati e scomparsi) nel 1945 dalle province di Trieste, Gorizia ed Udine sono 2.627. Probabilmente la cifra è leggermente sovrastimata, perché qualche prigioniero può essere rientrato senza darne notizia. D’altra parte, a tale stima vanno aggiunte le circa 500 vittime accertate per Fiume e qualche centinaio dalla provincia di Pola.
Inoltre, mancano dal computo i militari della RSI, per i quali il calcolo è difficilissimo, in quanto le fonti non li distinguono dagli altri prigionieri di guerra. Una stima complessiva delle vittime fra le 3.000 e le 4.000 sembra perciò abbastanza ragionevole. Cifre molto superiori (10.000 o più) sono sicuramente frutto di errori, volute leggerezze metodologiche (come il computo di presunte migliaia di vittime nel pozzo della miniera di Basovizza o nella foiba 147 del Carso triestino), ovvero intenti propagandistici.
Le foibe istriane
La prima ondata di stragi avviene nell’autunno del 1943 in Istria dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per poco più di un mese la penisola istriana cade per la maggior parte sotto il controllo del movimento di liberazione jugoslavo.
Le pratiche adottate prevedono nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l’immediata eliminazione dei “nemici del popolo”. Tale categoria, nel caso dell’Istria, riguarda alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo svolto nel regime fascista (gerarchi, squadristi), nelle istituzioni (podestà, segretari comunali) e nella società locale (possidenti terrieri, commercianti ed artigiani accusati di strozzinaggio) o comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere.
Le nuove autorità organizzano gli arresti, la concentrazione dei prigionieri in alcune località specifiche, come Pisino, i processi sommari e le conseguenti fucilazioni collettive, seguite dall’occultamento dei cadaveri nelle foibe o in cavità minerarie. Si tratta quindi di una violenza dall’alto, programmata e gestita dai quadri del movimento di liberazione jugoslavo.
Peraltro, essa è gestita in un clima di grande confusione, segnato da forme di ribellismo dei contadini croati, nel quale trovano spazio estremismo nazionale, conflitti d’interesse locali, motivazioni personali e criminali, come nel caso di alcuni stupri seguiti da uccisioni, fra i quali assai noto quello di Norma Cossetto.
Le foibe giuliane
La seconda ondata di stragi inizia nel maggio 1945 con l’arrivo dei titini nella Venezia Giulia. Dopo il 1° maggio tutta la regione viene occupata dalle truppe jugoslave, che vi rimangono fino al 9 giugno, data dopo la quale si ritirano ad est della linea Morgan, mentre ad ovest della linea medesima viene instaurata un’amministrazione militare anglo-americana.
Durante l’occupazione si verifica l’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive tipiche della presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista. Tale presa del potere è accompagnata da una grande ondata di violenza politica, che nell’arco di poche centinaia di chilometri fra l’Isonzo, la Slovenia e la Croazia fa circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi (la denominazione collettiva degli appartenenti alla Slovensko domobranstvo, la Guardia territoriale slovena, formazione collaborazionista nazista di miliziani prevalentemente volontari, costituitasi in Slovenia nel settembre 1943, per contrastare l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia), almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani.
Si tratta chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare dall’Ozna, la polizia politica). Nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza è strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime. Nei territori adriatici quindi lo stragismo ha:
- finalità punitive nei confronti di chi è accusato di crimini contro i popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi);
- finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all’annessione alla Jugoslavia (membri dei CLN, combattenti delle formazioni partigiane italiane che rifiutano di porsi agli ordini dei comandi sloveni, autonomisti fiumani);
- finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall’opporsi al nuovo ordine. Anche in questo caso vi sono infiltrazioni di criminalità comune, come nel caso della foiba Plutone.
Il Rapporto finale della Commissione storico-culturale italo-slovena sulle foibe del 1945 evidenzia che
L’estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un’ondata di violenza che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone, – in larga maggioranza italiane, ma anche slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo -, parte delle quali vennero a più riprese rilasciate; in centinaia di esecuzioni sommarie immediate – le cui vittime vennero in genere gettate nelle “foibe”; nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.
Sorte simile a quella degli arrestati civili hanno i militari della RSI. Dopo la resa i reparti vengono in genere sottoposti a decimazioni selvagge. Poi i prigionieri vengono inviati ai campi di concentramento dove trovano condizioni spaventose, per la denutrizione ed i maltrattamenti. Particolarmente noto è al riguardo il caso del campo di Borovnica presso Lubiana, dove la mortalità è assai elevata.
La foiba di Basovizza
Essa è in realtà una cavità mineraria di grandi dimensioni (larga una decina di metri, profonda più di 250). Nella prima decade di maggio del 1945 viene probabilmente utilizzata per gettarvi le salme di diverse centinaia di prigionieri italiani fucilati nei pressi.
Testimonianze concordi parlano dei processi sommari tenuti nell’arco di un paio di giornate a carico di alcune centinaia di uomini arrestati a Trieste, pare in massima parte membri della Questura. Ai processi seguono le fucilazioni collettive e l’occultamento dei cadaveri nel pozzo e forse anche in altre foibe vicine. Nell’abisso vengono gettati anche i resti della battaglia svoltasi pochi giorni prima nel vicino paese di Basovizza, alle porte di Trieste, fra truppe tedesche e jugoslave, nonché altri materiali.
I recuperi delle salme tentati dalle autorità anglo-americane non hanno esito, per difficoltà tecniche legate soprattutto alla presenza di munizioni inesplose. In assenza di riscontri obiettivi, ancora nell’estate del 1945 un giornalista italiano, considerata la massa di detriti presenti nel pozzo, la cui profondità era nota, ipotizza che entro la foiba ci sarebbero fino a 1.500 cadaveri.
Una simile ipotesi, da parte dei media del tempo e nell’ambito della lotta politica assai vivace in quegli anni, si trasforma ben presto nell’affermazione che a Basovizza sono infoibati 1.500 italiani. Tale convinzione si è poi consolidata nella memoria e nell’uso pubblico e viene ancor oggi spesso ripetuta senza alcun vaglio critico.
Il pozzo della miniera di Basovizza è divenuto nel tempo il luogo simbolo di tutte le foibe. Costituisce a tutt’oggi la sede privilegiata di cerimonie commemorative e patriottiche. Utilizzato negli anni ’50 come discarica di materiali inerti, è stato successivamente chiuso con una lastra di pietra, proclamato nel 1992 monumento nazionale e nel 2007 oggetto di un nuovo intervento di monumentalizzazione, che ha comportato anche la realizzazione di un centro visite.
Il “Giorno del Ricordo”, la legge 92 del 30 marzo 2004
Per il 10 febbraio 2005 viene istituito in Italia dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, il “Giorno del Ricordo”, dedicato alle vittime delle foibe e alle migliaia di esuli costretti a lasciare l’Istria e la Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale. Queste le parole della legge 92 del 30 marzo 2004 che istituisce il “Giorno del Ricordo“, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata:
“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
I 4 libri consigliati da Fatti per la Storia
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- Guido Rumici, Infoibati 1943-1945. I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, 2002.
- Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, 2003.
- Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, 2009.
- Giampaolo Valdevit, Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, 1997.