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Letizia Bonaparte
Egli fu, o meglio, ella fu. C’è stato un tempo in cui, alzando lo sguardo su Piazza Venezia, avreste potuto intravedere tra le persiane di un balconcino verde, una figura esile in là con gli anni, dai lineamenti duri e gli occhi scuri, inquieta e assorta, constatare il mondo che scorreva veloce giù sulla strada. A quel mondo Letizia Bonaparte già non apparteneva più, ella continuava tuttavia ad osservarlo con severa attenzione e risoluto distacco. Stava tutto il giorno affacciata su una Roma trafficata di paggi, dame e carrozze, eppure le pareva di avere ancora dinnanzi il mar Tirreno, quei giorni con suo figlio all’Elba, che aveva voluto raggiungere soltanto per toccarlo, abbracciarlo, viverlo ancora una volta.
Cosa restava di Napoleone? Di quei giganteschi stivali, del suo cappotto pesante, di quella camicia bianca, le braccia conserte e le spalle larghe? Quanto si era battuta Letizia per riavere il suo corpo, quanto tratteneva a sé ogni suo bene materiale, al punto di dormire di fianco alla brandina da campo sul quale era morto lui. E pensare che quando il Generale stava in esilio, c’era stato persino chi temesse che lei, fragile com’era, potesse organizzare un complotto per riportare la sua creatura al potere. Pur se a dir poco improbabile, i francesi avevano però ben inteso che mettersi contro una madre che reclama il proprio figlio potesse fare molto ma veramente molto male.
Dietro ogni grande sovrano c’è sempre stata una grande madre: di storie come quella di Letizia ce ne sono tante e nel libro Madri d’Europa – viaggio nell’anima e nel tempo di dieci regine madri (Bookabook) si capisce ben presto che tutte queste donne si passano inconsapevolmente il testimone tra loro, stringendo tra le dita un unico filo rosso che attraversa la linea del tempo dall’Antica Roma al Novecento.
“Hanno in comune un portamento rigido, lo sguardo fiero, un forte temperamento, la capacità di resilienza e di attuare strategie. Altere, intelligenti, austere, metterebbero in soggezione chiunque. Bramano, scrivono, pregano, viaggiano, combattono. Governano i paesi a cui appartengono attraverso i loro figli, influenzando ogni scelta politica, diventando i loro principali consiglieri”.
Madri d’Europa
Sofia di Baviera, arciduchessa d’Austria, è di sicuro tra queste la più emblematica. Seppur figlia, madre, sorella, nonna, suprema-zia, sarebbe riduttivo ricordarla solo come suocera dell’Imperatrice Elisabetta (Sissi) sebbene le loro vicende siano intrinsecamente legate. Ebbene tutta la sua esistenza è scandita da un Napoleone: prima come principessa del ramo reale di Baviera, regno istituito da Napoleone I consegnando alla famiglia Wittelsbach la regione a sud della Germania, poi Napoleone II, il giovane duca confinato a Schönbrunn sotto la protezione del nonno Imperatore, tenuto a tutti i costi lontano dal fantasma di suo padre.
Nel ragazzo cagionevole di salute, Sofia trovò conforto nei primi anni alla corte di Vienna e la prematura morte di egli la cambierà per sempre, rendendola proprio quell’inflessibile (anche con se stessa) arciduchessa, che abbiamo imparato a conoscere sul piccolo schermo. Infine Napoleone III, che lei definirà per sempre “l’assassino di mio figlio”, considerandolo fino all’ultimo responsabile indiretto della fucilazione del suo secondogenito Massimiliano, a seguito della Rivoluzione promossa da Benito Juárez, al termine della sua esperienza messicana, incarico ottenuto proprio su mandato dell’Imperatore francese e per cui l’arciduca era volato via con tutti i suoi sogni.
E, riterrei, non sarebbe scorretto pensare che in modo subdolo, Napoleone III, fosse paradossalmente riuscito a indebolire la Casa d’Austria, se non in battaglia o sul tavolo delle trattative, colpendo il cuore dell’“unico uomo a corte”, la donna dal quale Francesco Giuseppe dipendeva in tutto e per tutto e che dopo questo lutto uscì di scena fino ad attendere la morte. Per Sofia, infatti, la morte arrivò poco dopo per una fulminante polmonite che non combatté affatto: quello era un corpo senza vita già dal momento in cui Max aveva avuto l’ultima volta sulle labbra il suo nome, quel suo nome pieno di saggezza.
D’altronde era stata lei, inscenando una sorta di colpo di Stato, a convincere, senza troppi sforzi, il marito ad abdicare nei confronti del figlio, obbligandolo a sostituire al governo direttamente il cognato con il figlio, lasciano sfumare il desiderio bramato di diventare imperatrice affinché salisse al trono una giovane speranza per il regno. Laddove davanti il ’48 tanti uomini fuggirono via in preda al panico, Sofia si era rimboccata le maniche e sebbene sacrificando la speranza di una vita di diventare imperatrice, salvò la casa reale d’Austria dal collasso.
E la sofferenza per la perdita di un figlio, spesso quello prediletto è un elemento ricorrente tra le dieci regine. Per l’arciduchessa accade due volte, se la seconda la porterà a morire, la prima, quella della piccola Anna, le instillerà il desiderio di trovare sua figlia in altre creature, per prima con Elisabetta, un tentativo quasi vano non lasciandosi, anima eterea com’era, in alcun modo addomesticare e poi nelle sue nipotine, anche se con la primogenita, sua omonima, che teneramente le rosicchiava coi dentini i suoi occhiali in tartaruga, rivivrà la stessa maledetta disperazione.
Ma è anche giusto rammentare che l’apparenza inganna e a coloro a cui spesso è stato attribuito il ruolo di villains, di spudorate antagoniste seguite da fedeli scagnozzi, che compromettono matrimoni ed evitano riconciliazioni, la storia ha inflitto una condanna non facile da sopportare. È sempre tutto molto più complesso, di ciascuna il libro fornisce il ritratto psicologico, i turbamenti, i moti d’animo e le peripezie. Ombre e luci, necessarie a “spiegare la sofferenza, non per giustificarla o legittimarla, ma unicamente per spiegarla”.
È il caso di Maria Carolina regina di Napoli, che iniziò a spargere sangue tra gli illuministi, dichiarando guerra a tutti i giacobini che avevano sostenuto la Rivoluzione francese, la rivoluzione per la quale aveva perduto la sua metà, la sorellina preferita Antoniette, con la quale scambiava libri sull’asse Parigi – Caserta, ricordi indelebili d’infanzia e consigli familiari.
A perdere la testa, sebbene metaforicamente, non era stata una sola sorella, ma due. Questo non legittima in alcun modo il male che genera il male, la guerra che altro non genera che guerra e Carolina forse poteva difendersi e scegliere di reagire altrimenti. Ma il suo dolore, questo suo punto di vista personale e vero e vivo, non può essere solo annotato a bordo pagina, emarginato dalle grandi narrazioni. Sono donne terribilmente umane ed è forse questo a renderle tragiche eroine, affascinanti e sfuggenti. È quanto emerge nei loro diari e nelle loro corrispondenze, nelle cronache dei giornali d’epoca e nelle parole di poeti e scrittori, passati in rassegna ancora con le originali piegature, manoscritti intrisi ancora di lacrime e sospiri, di attese, di gioia, di tristezza.
Tra le protagoniste del libro figura una donna dall’appellativo altisonante, ma non lasciate spaventarvi da esso: Sant’Elena, madre di Costantino, cerca la sua Terra Promessa, attraversa luoghi pervasi dal sacro, porta con sé sulla schiena indolenzita la croce di Cristo, oscillando come una fiamma nel deserto. A lei molto dobbiamo per le radici cristiane dell’Europa, la diffusione del Cristianesimo, le prime basiliche, a partire dal libero culto stabilito dall’Editto del 313 d. C, mentre il figlio Costantino, uomo in bilico tra credo e credenza, rappresentava quell’ossimoro presente in tanti uomini del suo tempo di passaggi e radicali cambiamenti.
E con il racconto della sua vita che impariamo a distinguere l’umano e il divino, lei che perdona al figlio la morte del nipote Crispo che aveva amato e cresciuto, ucciso a sua insaputa affinché, avendo idee divergenti dal padre, non ereditasse il potere. Se Sofia di Baviera non perdonerà mai Napoleone III di avergli così tolto Massimiliano, Elena compie invece un salto di qualità, Elena perdona, dopo un viaggio di tribolazioni, e perdona perché il suo Dio le ha insegnato a superare la sua umanità, a farsi santa, testimone autentica di santità e di Fede.
Innovative, pioniere, inventrici come Caterina de’ Medici che arriva a segnare e far progredire un regno che non sentiva il proprio (adattarsi difficilmente alle corti a cui sono state destinate è un’altra loro caratteristica comune), del quale si è sempre sentita straniera, lontana dalle verdi colline di Firenze.
“Quando la sua statura non era stata considerata abbastanza, aveva brevettato i tacchi a punta e ora era la più alta tra le donne a corte, suscitando la loro invidia e il loro disprezzo. Caterina inventava, progettava, collaborava con artisti, scienziati, chef, modellisti, giardinieri, architetti, capitani di frontiere e di fregate. Dava vita a un mondo di nuovi oggetti, nuovi sapori, nuovi profumi, strumenti che potessero semplificare la vita quotidiana delle donne e degli uomini del suo tempo”.
Maria Teresa d’Austria è anch’ella colta, come la regina di Francia, nel momento vedovile, mentre ripensa ai figli sparsi in tutta Europa, teste coronate con cui ha attuato la propria serrata politica matrimoniale, rivitalizzando quello che già tre secoli prima si andava dicendo in un celebre motto: “bella gerunt alii, tu felix Austria nube” (letteralmente, “le guerre le fanno gli altri, tu Austria, felice, sposati”). La sua vita è narrata nel libro come una coerente e lunga metafora musicale.
“Maria Teresa provvide di aumentare la luce fioca e fredda della fiammella per sedersi davanti a questo. Poggiò i piedi sui pedali e si concentrò sulle righe dello spartito. Le sue dita cominciarono a correre sulla tastiera, alternando tasti bianchi a tasti neri, poi di nuovo neri e bianchi, bianchi e neri, percorrendo una larga scala musicale. Di scale vertiginose, alla Hofburg di Vienna, alternando alti e bassi toni, ne aveva percorse abbastanza a ritmo sostenuto, arrivando su in cima mai con il fiatone”.
È una storia fatta i viaggi, come quello intrapreso dai pezzi della Collezione Farnese, capitanati dall’Antea del Parmigianino, da Parma a Roma e da Roma a Napoli, espediente letterario per raccontare la biografia di un’altra regina, Elisabetta Farnese, che intravide tutto il potenziale delle coste partenopee consegnandole al figlio Carlo che trasformerà immediatamente la città nella nuova capitale del regno borbonico e avvierà in essa un cantiere di scavi archeologici, musei, giardini, regge e ville.
“Una giovane fanciulla, ritratta sino alle ginocchia, viaggiava su una carovana, imprigionata su una tela imballata, sballottolata dalla selce e dai ciottoli della strada, in un sentiero ripido e scosceso circondato da una foresta. Chissà se i suoi due orecchini di perle pendenti oscillavano in tutto quel trambusto e la sua acconciatura non si era appena scomposta. Antea riposava, riscaldata dalla sua pelliccia di visone appoggiata sulle spalle e che stringeva da un lembo in un guanto, trattenendola per non farla scivolare di dosso”.
È un viaggio di tutt’altro calibro, silenzioso e non sfarzoso, anzi fatto di soppiatto, quello di Dagmar di Danimarca, zarina il cui gelo di San Pietroburgo le giaceva ormai nel petto, costringendola a scappare da se stessa e da ciò che era stato e che non poteva essere più.
“Era una fuggitiva e quell’uomo pretendeva un nome da dare al suo volto, ma Dagmar non ricordava più chi fosse. Avrebbe voluto leggere anche lei, sul passaporto, chi era davvero. Non era la prima volta che le era stato chiesto di essere qualcun altro, stavolta le toccava mentire sulla sua identità. Aveva preso il nome di Marija Fëdorovna quando si era convertita alla Chiesa ortodossa per diventare zarina di tutte le Russie. Le era stato imposto di non utilizzare quello di battesimo, di dimenticare il suo passato come principessa di Danimarca. In famiglia era Minnie, ma adesso non aveva più nessuno che potesse chiamarla così. Per questo fuggiva. Perché Dagmar, la madre dell’ultimo zar, era sopravvissuta”.
La regina Margherita e Livia Drusilla
I loro regni crollano, si sgretolano frantumandosi in mille pezzi, ma non l’amore che le muove, quello rimane inscalfibile, facendosi bussola e misura sui propri cammini. È quanto avviene anche per Margherita di Savoia, tra le prime donne al volante (possedeva una collezione di automobili per ogni occasione), capace di stare al passo coi tempi quanto ancora ancorata al passato. La dinastia dei Savoia perderà pocanzi l’Italia al referendum che ha dato esito la nostra attuale Repubblica. Indagato è soprattutto il suo rapporto con Napoli, inquadrata nel periodo della belle époque, tra i cafè chantant, i cabaret, le prime sale cinematografiche, il teatro di Scarpetta.
E sono queste le opportunità per riscoprire altre figure a loro contemporanee, nell’ultimo caso per esempio Matilde Serao, così come luoghi storici del nostro patrimonio artistico e naturale. Sono le crepe della domus di Livia Drusilla a rievocare le rughe del proprio volto, gli affreschi della sua cubicola a rivelarci chi fosse, cosa pensasse, cosa desiderasse. È la descrizione volutamente meticolosa dei luoghi in cui hanno vissuto le dieci regine madri a rendere protagonisti i loro posti prima ancora dei loro visi.
Tutto sta nel domandarsi chi ha arredato cosa e perché, come ciascuna di ella vedeva e sceglieva di rappresentare se stessa e sorprendendosi dei loro aspetti infantili, i più autentici e teneri che spesso si riconducono alle loro famiglie d’origine e a quando “tutto andava bene”. Hanno lasciato la loro impronta ovunque: nella cucina, nell’arte, nella moda, nella cultura, nella lingua, nella religione. Sono più presenti che mai, più vive che mai. È la storia di un’umanità che si riscopre in ognuno di noi, che viaggia sulle nostre gambe e dentro i nostri cuori.
“Un dialogo tra passato e presente per ripercorrere emozioni senza tempo: conquiste, memorie, gioie e dolori universali. Austere, temute e dallo sguardo fiero, icone e visionarie che rivivono nelle pagine e nei luoghi da protagoniste indiscusse, mosse da un amore incrollabile (…). Fonti, aneddoti, corrispondenze, discorsi e fiction, un lungo viaggio per raccontare un’altra Storia, restituendo un racconto autentico. Un invito a conoscere noi stessi attraverso gli antichi”.
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- Lea Amodio, Madri d’Europa. Viaggio nell’anima e nel tempo sulle tracce di dieci regine madri, Bookabook, 2024.