CONTENUTO
Madre Francesca Cabrini: la suora che diede dignità agli italiani d’America
L’America deve qualcosa a Sant’Angelo Lodigiano: la nascita di Santa Francesca Cabrini, “suor moto perpetuo”, che a fine Ottocento e inizio Novecento sostiene materialmente e spiritualmente, con le sue Figlie Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, milioni d’italiani che per fame abbandonano la terra madre per cercare fortuna in terre lontane. Terre sconosciute, con popoli che parlano una lingua incomprensibile, dove non è nemmeno possibile entrare in chiesa, perché l’ingresso è loro precluso, perché troppo odorosi, sporchi e con la faccia da mascalzoni. Terre in cui un italiano è pari a un cane, in cui sulle vetrine dei negozi sono apposti cartelli con scritto: «ingresso vietato ai neri, agli italiani e ai cani».
Il 13 novembre 1935, Pio XI la beatifica; Pio XII il 7 luglio 1946 la canonizza e l’8 settembre 1950 la proclama «Celeste patrona di tutti gli emigrati»; infine, il 30 ottobre 1952, il Comitato per l’emigrazione di New York la proclama come la «più illustre Emigrante Italiana del secolo». Se Cristoforo Colombo ha scoperto l’America, Madre Cabrini ha scoperto gli italiani in America.
Madre Cabrini, prim’ancora di essere una santa, la prima santa d’America, è una donna. Una donna dell’Ottocento, che profonde tutta se stessa per i fratelli italiani emigrati in America, per dar loro dignità. Vuole il loro pieno inserimento nella società statunitense, facendone dei buoni cittadini, padroni della lingua inglese, senza rinnegare le proprie origini e la fede cattolica, per la partecipazione consapevole alla costruzione di una comunità solidaristica: una realtà in cui l’apporto dei singoli è fondamentale per il perseguimento del bene comune e per il raggiungimento di una vera emancipazione.
Francesca, prima vera donna religiosa pienamente emancipata, fondatrice di un istituto religioso femminile non collegato ad un primario ramo maschile, educa un esercito di donne all’autonomia e alla responsabilità; scelta vincente che le permette di aver successo dove gli uomini falliscono. È un esempio attualissimo di libertà nei valori cattolici; esempio da imitare perché traccia la via per un sano approccio, non ideologico, al fenomeno migratorio e alla parità uomo-donna.
La vita santangiolina della piccola Cechina (1850-1874)
Francesca nasce a Sant’Angelo Lodigiano (allora Regno Lombardo-Veneto), una cittadina della Pianura Padana, il 15 luglio del 1850, in anticipo di due mesi rispetto alla scadenza naturale della gravidanza. Il padre Agostino, seppur preso in contropiede, si comporta esattamente come aveva fatto tutte le altre volte per la nascita dei suoi figli: sale in camera, indossa l’abito della festa, invita gli altri a fare altrettanto, trova subito i padrini e, in corteo, si dirige verso la chiesa prepositurale per il battesimo.
Le danno il nome di Maria Francesca, ma da subito, per tutti, è la Cechina. Stella, la mamma sfiancata ormai dalle numerose gravidanze e già in là negli anni, non è in grado di allevarla. Ci pensa, allora, Rosa, la secondogenita di casa Cabrini, quindici anni più grande di Francesca; e lo fa giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, dall’infanzia alla giovinezza.
Per Francesca la sorella Rosa rappresenta un vero e proprio modello educativo tanto da imitarla nell’intraprendere gli studi magistrali. La famiglia è umile, semplice e devotissima, nonostante il cugino di Agostino Cabrini sia Agostino Depretis, futuro Presidente del Consiglio dell’Italia unita.
Alla sera, insieme a mamma, papà e fratelli legge gli Annali della Propagazione della Fede; lettura che l’appassiona, la fa sognare e le instilla il desiderio di farsi missionaria in Cina, proprio come San Francesco Saverio. Per prepararsi, comincia, persino, a non mangiare più dolci, perché convinta non ce ne siano in Cina.
Diplomatasi maestra elementare nel 1868, torna nella sua Sant’Angelo, in famiglia, e fa la sua prima esperienza di insegnamento elementare nella vicina Castiraga Vidardo dove ha modo di farsi amare e dove conosce don Antonio Serrati, il futuro prevosto di Codogno, figura fondamentale per Francesca, insieme al padre spirituale, il prevosto di Sant’Angelo, monsignor Bassano Dedé.
Tra il 1870 e il 1872, conosce gli anni più difficili della sua gioventù: la morte quasi contemporanea di papà Agostino e di mamma Stella e una terribile epidemia di vaiolo (che colpisce anche lei) segnano profondamente i suoi progetti.
Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!
Ripresasi senza tangibili segni, decide di consacrare la sua vita all’apostolato e si trasferisce a Codogno, su invito di monsignor Serrati, dove vive i suoi anni di avvicinamento alla vita religiosa. Dopo un turbolento periodo legato all’impegno in un’istituzione fondata da Antonia Tondini, Francesca dà vita, insieme a sette consorelle, all’Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore: una piccola congregazione religiosa con finalità missionarie, un progetto allora strano per un istituto femminile.
Si sentiva, ormai, pronta per dare inizio al suo sogno di fanciulla: imitare San Francesco Saverio ed essere missionaria in Cina. Numerosi sono gli incontri con il vescovo Scalabrini di Piacenza che cerca di farle cambiare idea descrivendole la condizione miseranda degli emigrati in America e la necessità di operare laggiù. Francesca è confusa, non sa se andare all’Oriente o all’Occidente. Rimette, perciò, la decisione al Papa.
Papa Leone XIII, in un’udienza privata, l’ascolta a lungo, poi le dice senza se e ma: «Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente!». Ascoltare il Papa, per lei, è come ascoltare la parola stessa di Dio che indica la Sua volontà. Ha 39 anni, è malata ai polmoni e i medici le pronosticano non più di due anni di vita. La storia sarà diversa.
Parte, in nave, con sette compagne: con lei viaggiano, in terza classe, trattati come animali ben 900 migranti. Dopo un viaggio turbolento in nave è nella metropoli americana e incontra l’arcivescovo Michael Corrigan che le permette, non senza perplessità, di aprire un orfanatrofio per bambini figli di emigranti italiani in West Park (quell’orfanatrofio oggi è conosciuto come Casa di Santa Cabrini).
L’operare dei primi mesi attira l’attenzione di un quotidiano non benevolo verso i cattolici e nello specifico verso gl’italiani. In un articolo si legge: «Nascoste sotto il velo che le ricopre, ciascuna di esse non è per il pubblico che una semplice monaca: il suo nome, la sua personalità scompaiono. Chi sono e a quale condizione sociale appartengano nessuno lo sa. Gl’infelici, al servizio dei quali si sono consacrate, non le conoscono che sotto questa nome di “suora”. A capo di queste suore c’è Madre Cabrini».
L’emigrazione italiana di fine Ottocento
Siamo abituati, ormai da alcuni decenni, a essere un paese d’immigrazione. Le nostre coste – ma anche i nostri confini terrestri – sono prese d’assalto dalle carrette del mare: sicché l’Italia, oggi, ha una percentuale d’immigrazione stabile e regolare pari a oltre il 10 % dell’intera popolazione. Nelle epoche storiche precedenti, prima che la Penisola vivesse la sua rivoluzione industriale, fu terra d’emigrazione: i nostri connazionali “invasero” il mondo intero. E non sempre furono trattati come esseri umani.
In una biografia di Madre Cabrini si leggono testualmente queste parole: “In quell’Ottocento americano, madri e nonne, volendo intimorire il proprio frugolino troppo irrequieto, invece di nominare l’orco, gridavano: ‘Ecco un italiano!’ e subito il bimbo correva a cercare riparo nel loro grembo”. Sembra un’annotazione di colore, ma non lo è. Sono, invece, righe tra le più tristi che siano state scritte sulle tragiche vicende dei nostri emigrati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Ingresso vietato a negri e italiani
È l’epoca in cui i bar delle città americane espongono cartelli per avvertire che l’ingresso è vietato “a negri e italiani”, perché quest’ultimi sono considerati come “negri bianchi”. Tra il 1876 e il 1914 (alle soglie della prima guerra mondiale) emigrano, dicono le statistiche, circa quattordici milioni d’italiani, quando l’intera popolazione italiana non superava i trenta milioni.
Nei testi di storia si parla delle grandi migrazioni dei popoli e dei tempi in cui intere popolazioni erano ridotte in schiavitù, ma si sorvola sul fatto che del tutto simile è la storia dei nostri emigrati. Italo Balbo scrisse: «tutti quei nostri connazionali – inghiottiti nelle miniere di carbone, nelle imprese di sterramento per le strade ferrate, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria siderurgica, nei capannoni dell’industria tessile, nei cantieri per la costruzione dei porti, nelle piantagioni di cotone e di tabacco – erano l’Italia di nessuno, un popolo anonimo di schiavi bianchi, materiale umano mercanteggiato a migliaia di capi».
Si calcola, infatti, che nelle miniere il numero degli italiani superi, a un certo punto, quello di tutti gli altri immigrati messi assieme. Giungono a centinaia di migliaia l’anno, insidiati già alla partenza e all’arrivo da loschi procacciatori che ne sfruttano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventavano letteralmente il materiale umano su cui – come su detriti necessari, ma senza valore – si costruiva la potenza economica americana.
Le piccole Italie
Gl’italiani vivono in condizioni d’incredibile degrado, affollati in alveari umani (fino a ottocento persone stipate in un piccolo edificio di cinque piani), in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche morale. Con il loro genere di vita sembrano accreditare l’idea dell’italiano come di un semi-selvaggio, pronto alla rissa e alla violenza. Vivono senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro piccole italie: quartieri che proliferano ai margini delle grandi città.
E quasi sempre non sono nemmeno uniti perché i vari campanilismi frazionano e mettono rissosamente i vari gruppi regionali gli uni contro gli altri. I ragazzi crescono sulle e nelle strade. Un destino di strilloni o lustrascarpe attende i bambini (quando non diventano procacciatori e guide di clienti ai vari bordelli) e spesso un destino ancora più equivoco attende le ragazzine. Quand’anche qualcuno li voglia aiutare, l’impossibile comunicazione (quasi tutti sono analfabeti e si esprimono solo in stretto dialetto) rende vano ogni tentativo di solidarietà.
Quelli che riescono a far fortuna (e molti cominciarono con negozi di frutta e verdura o organizzandosi in cosche malavitose) si guardano bene dal mescolarsi con i propri disprezzati connazionali, cercando piuttosto di far dimenticare la comune origine.
“Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici”
Un giorno del 1879 un deputato osa leggere al Parlamento italiano la lettera di un colono veneto: «Siamo qui come bestie: viviamo e moriamo senza preti, senza maestri, senza medici». I politici italiani chiudono però gli occhi. Affrontano il problema dell’emigrazione dal punto di vista dell’ordine pubblico, con qualche provvedimento di polizia, ma senza nessuna intelligenza volta a immaginare forme di tutela economica e sociale. Alcuni anni dopo – quando Madre Cabrini avrà fatto da sola, per amore di Cristo, quello che l’intero governo non aveva mai saputo fare – i politici, guardando indietro ai loro provvedimenti legislativi, confesseranno: «Abbiamo sbagliato tutto».
I flussi non sono regolamentati, sono lasciati all’iniziativa egoistica e interessata di agenti e subagenti dell’emigrazione, di piccoli operatori economici, di mediatori delle compagnie di navigazione, di procacciatori d’ingaggi che, con alettanti notizie sulle terre da coltivare e sui facili guadagni di un sicuro lavoro nelle industrie, forniscono a questi poveri, ignari e sprovveduti, documenti necessari all’espatrio, oltre a vitto e alloggio nel periodo d’attesa per l’imbarco.
Nemmeno la Chiesa cattolica d’America può fare qualcosa. In tutta New York non vi sono più di venti preti che comprendono un po’ d’italiano. E, ad aggravare le cose, i nostri emigrati trovano un costume, a essi estraneo, che lega la frequenza alla chiesa con l’obbligo, già all’entrata, di contribuire economicamente al sostegno delle attività parrocchiali. Sono già poveri e un simile costume sembra loro ingiusto (chiamavano quell’elemosina: la dogana).
Per non dire poi che le sole organizzazioni italiane attive sul posto sono i circoli Giordano Bruno, che hanno come unica preoccupazione quella di diffondere e mantenere un acceso anticlericalismo. Così finiscono per non andare più in chiesa e per perdere anche gli ultimi brandelli di dignità spirituale e morale. In Italia il problema è avvertito da papa Leone XIII (che lo analizza anche nella celebre enciclica Rerum Novarum) e dal vescovo di Piacenza, Scalabrini, che aveva fondato una congregazione per la cura dei migranti.
Suor moto perpetuo
«È troppo piccolo il mondo per soddisfare i miei desideri e non mi darò pace finché sull’Istituto non tramonterà il sole»
Madre Cabrini è sempre in viaggio; la sua è un’attività che può apparire frenetica, ma non lo è: è logica perché Francesca è cosciente di aprire un’opera laddove serva e di chiuderla nel momento in cui gl’italiani siano integrati, abbiano recuperato la dignità perduta, per spostare le sue suore altrove, appunto dove ci sono italiani bisognosi.
Scrive Francesca: «Poveri emigrati…Li vedevo nel mio viaggio quei nostri cari connazionali, intenti a costruire ferrovie, nelle più intricate gole dei monti, lontani miglia e miglia dall’abitato quindi per anni separati dalle loro famiglie… Qui al lavoratore italiano sono riservati i lavori più pesanti, sono pochi coloro che con occhio di simpatia si curino di lui e ricordino che anch’egli ha cuore e mente… È vero che anche qui l’italiano sa farsi stimare perché sobrio, onesto, operoso, fedele; ma di quante pure gioie si priva colui che abbandona la nostra patria per venire in queste terre forestiere, senza chi lo guidi sulla strada del vero benessere, che non consiste solamente nel raggranellare un gruzzolo che tante volte, per infortuni sopraggiunti, nemmeno si gode!».
Nel 1890, Madre Cabrini fonda, a due ore di auto da New York, un noviziato. Nel 1891, è in Nicaragua, invitata da Elena Arellaro, nobile e pia signora, e accetta la donazione di una sua casa per fondarvi un collegio religioso. Nello stesso anno intraprende un viaggio, via terra, nell’America centrale e incontrerà numerosi indigeni.
A New Orleans però vive da vicino una delle pagine più cupe dell’emigrazione italiana: il linciaggio di undici connazionali. Il dolore e lo sdegno sono però presto sostituiti dalla forza di volontà e nel giro di pochi mesi apre un’altra casa apostolica per accogliervi gli emigranti italiani e i neri che vivevano in condizioni disumane.
I fatti di New Orleans
In città, la colonia italiana vive una situazione difficile: nel 1891 viene assassinato il capo della polizia mentre si trovava nel quartiere italiano. I sospetti cadono sulla comunità siciliana, sulle cui organizzazioni criminali l’ufficiale stava indagando. Vengono incriminati diciannove italiani. È celebrato un processo che si conclude con diciannove piene assoluzioni. Questo provoca una rivolta di piazza al grido di “a morte gli italiani”. La folla inferocita uccide ben undici prigionieri.
La vicenda crea sdegno in Italia e porta, addirittura, al ritiro del nostro ambasciatore negli Stati Uniti. Molti giornali americani approvano il linciaggio. Si diffondono le aggressioni: un’ondata d’ostilità investe l’intera comunità italiana. La Cabrini interviene, sollecitata dagli scalabriniani, per dare credibilità alla comunità italiana. Arriva in città con quattro suore e apre una scuola e un orfanotrofio. Si dà da fare per raccogliere fondi chiedendo agli italiani ricchi di farsi carico delle difficoltà dei più poveri, affinché anche i loro figli, una volta ripuliti e istruiti, possano diventare a pieno titolo americani.
Per assurdo i più convinti ad appoggiarla sono gli anticlericali, i quali comprendono la lungimiranza della sua politica, la bontà del suo agire per dare dignità alla comunità degli italiani d’America che vuole far integrare in quella americana. È, questo, l’esempio lampante del modello d’integrazione proposto e concretizzato dalla Cabrini: farsi accettare! Per farlo bisogna conoscere il tessuto sociale in cui si è inseriti, farlo proprio; in pratica la proposta che Francesca fa agli emigranti italiani è quella di diventare a tutti gli effetti cittadini americani, senza scordarsi la cultura italiana.
La pedagogia del cuore di Madre Cabrini
Dice Francesca alle sue suore: «se ogni fanciullo che è affidato alle nostre scuole… è da noi cresciuto nel santo timor di Dio, se oltre a istruirgli la mente, gli educhiamo il cuore… perché cresca buon cristiano e buon cittadino..»
L’educazione del cuore per Madre Cabrini è fondamentale e ha uno scopo: proporre alle alunne, ai bambini, agli studenti la bellezza del bene perché possano arrivare ad amarlo, farlo proprio, essere un tutt’uno con esso. Il termine che Madre Cabrini usa spesso nei suoi consigli alle suore e alle Maestre: «usate sempre le buone maniere, manifestate sempre rispetto alle persone, ai bambini, non umiliateli mai, non fate paragoni, sosteneteli nelle loro debolezze».
L’educazione del cuore è alla base di ogni rapporto sociale, nazionale, internazionale. Madre Cabrini denuncia senza riserva coloro che «facevano una speculazione dei sacri interessi del povero… Poveri emigrati! Sfruttati tante volte da coloro che si atteggiano a protettori, e ingannati tanto più quanto meglio questi sanno colorire i loro privati interessi col manto della carità e dell’amor patrio!» La sua pedagogia del cuore è atta al discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, rivolta ai fratelli italiani.
Le innumerevoli fondazioni
Dopo l’arrivo il 31 marzo del 1889 in America, la sua attività missionaria è instancabile. Dal 1890 al 1893: dopo un soggiorno in Italia, ritorna a New York e fonda a West Park il noviziato per le case americane; a Granada inaugura il Collegio dell’Immacolata; su battelli costieri e chiatte passa per la Mosquita e va a New Orleans dove fonda una missione per gli italiani; sarà poi a New York a fondare il Columbus Hospital e ad aprire una scuola a Brooklyn; torna in Europa e dà vita a una casa a Montecompatri, un istituto superiore di magistero a Roma e un collegio a Genova.
Dal 1894 al 1899: con quindici suore torna a New York e acquista il Post Graduate Hospital e vi trasferisce gli ammalati del Columbus; va a Panama e a Lima; attraversa le Ande a dorso di mulo e giunge a Buenos Aires dove fonda il collegio Santa Rosa; torna in Italia; poi sarà a Parigi dove fonda una casa, poi a Liverpool; poi di nuovo a New York dove fonda due scuole; sarà a Chicago per fondarvi una scuola; riparte per la Spagna e là fonda un collegio dedicato a papa Leone XIII.
Dal 1900 al 1916: ecco fondazioni in Europa a Torino, Città della Pieve e Bilbao; torna in Sud America, in Argentina, e fonda un orfanotrofio e un collegio, un altro a Santa Fè, un altro ancora a Villa Mercedes, uno a Dewer; poi di nuovo è in Europa, a Londra, a fondare una scuola che entrerà in un componimento di Eliot: «Gli usignoli stanno cantando presso il convento del Sacro cuore»; fonda anche il Columbus Hospital a Chicago, orfanotrofi a Seattle, a New Orleans, Denver, Los Angeles, un collegio a Rio de Janeiro e ancora a Chicago l’Extension Hospital; nel 1912 lascia per l’ultima volta in Italia e intraprende il suo ultimo viaggio oceanico e prima della morte a Chicago nel 1917, instancabile, riesce a fondare una scuola a Filadelfia, un orfanotrofio a Dobbs Ferry e un sanatorio a Seattle.
Madre Francesca Cabrini e Gabriele D’Annunzio
I suoi viaggi sono frenetici: attraversa l’Oceano (da lei definito «la strada dell’orto di Sant’Angelo») ben ventiquattro volte. E in una di queste scrive di aver provato «strazio» per non esser riuscita a convertire un illustre letterato. È nel salone della nave e gli indicano un signore, un uomo di lettere, tra i più rinomati in Italia, una personalità poliedrica dotata di ingegno, ma, aimè ateo.
Discorrono, parlano della situazione tremenda in cui vivono gl’italiani in America, discorrono di tutto, anche di Dio. La conversazione termina con un invito della Madre al letterato: «Convertitevi!». «Convertirmi? Il mio genio ne sarebbe danneggiato» rispose l’illustre poeta. Quel genio è Gabriele D’Annunzio, l’uomo che nel Notturno dimostrerà di essersi convertito, se non a una vita morigerata, di certo alla certezza dell’esistenza di Dio.
Madre Cabrini a Chicago tra business-man e mafia
Dopo aver fondato il Columbus Hospital di New York per servire la numerosa popolazione di italiani poveri che vi era emigrata, Madre Cabrini si reca a Chicago con l’intenzione di costruire un orfanotrofio. Ma il vescovo Quigley la esorta a costruire, invece, un ospedale sul lato nord di Chicago. Madre Cabrini trova presto un edificio di dimensioni adeguate nel Lincoln Park, un ex albergo con oltre cento stanze.
Tutti le sono contro: in primis gli uomini d’affari americani che non vogliono una forestiera tra i piedi né tantomeno un edificio adibito a ospedale con all’interno emigrati italiani. L’affare, però, va in porto: Madre Cabrini trova i soldi per acquistare l’immobile e subito iniziano i lavori, il cui controllo, vista la partenza della Madre, vengono delegate alle suore del posto.
E qui iniziano i dispetti: gli edili propongono alle sprovvedute suore lavori su lavori, al punto tale che al ritorno della Cabrini per verificare lo stato dell’opera rimane solo lo scheletro del vecchio albergo. «Le rovine di Gerusalemme!» esclama la Cechina appena vede ciò che rimane dell’albergo. «Lor signori saranno pagati quel che è giusto, neanche un centesimo di più. Del lavoro, ora me ne occupo io!». A queste affermazioni, uno di loro azzarda «sarebbe a dire?». «Sarebbe a dire» risponde Francesca «che siete tutti licenziati. Da ora il direttore dei lavori sono io».
Riassume i più onesti e mette fine agli imbrogli dei locali imprenditori edili. In otto mesi, anziché i dodici previsti, l’opera è terminata: il 26 aprile 1905, il Nort Shore Hotel, restaurato, viene ufficialmente inaugurato: è il Columbus Hospital in onore di Cristoforo Colombo, motivo di grande orgoglio per la comunità italiana. È subito criticata, perché circa 3/4 dei pazienti dell’ospedale sono residenti locali benestanti, mentre solo circa 1/4 sono immigrati italiani svantaggiati.
Madre Cabrini, da buona imprenditrice santangiolina (il suo paese natale è infatti conosciuto per la capacità commerciale dei suoi abitanti, figlia di una storia secolare) però va avanti: ha in mente un piano ancora più grande. Cinque anni dopo, fonda il Columbus Extension Hospital in un quartiere italiano a basso reddito sul lato ovest di Chicago. I fondi in eccedenza dell’originale Columbus Hospital servono per sostenere questo nuovo ospedale, che offre servizi sanitari completi alla comunità di immigrati, per lo più povera.
E nella realizzazione di questo Hospital, Francesca viene in contatto con la mafia dell’Illinois, sempre in agguato. Lei non paga tangenti e non vuole protezioni: non si fa intimorire dalle minacce, dalle rappresaglie. Una volta sono i tubi tagliati dell’acqua, un’altra un incendio negli scantinati. I mafiosi insistono ma lei insiste di più nel resistere.
L’avvertano alcuni dei suoi: «Madre, ci faranno saltare con la dinamite…non vogliono proprio saperne di lasciarci entrare qui. Come facciamo?». E lei: «Come facciamo? Ve lo dico io come facciamo: entriamo subito anche se i lavori non sono finiti. Voglio proprio vedere se faranno arrostire vivi i malati». Quella sera stessa, l’ospedale è attivo, pieno per metà; tre giorni dopo sarà tutto occupato. Da lì non ci sarà più nessun sabotaggio: Madre Cabrini ha sconfitto la mafia!
Questo ingegnoso modello finanziario sarà base imprenditoriale a servizio del bene che le Suore Missionarie del Sacro Cuore realizzeranno e che tutt’ora realizzano. Le cabriniane gestiranno anche, dopo la morte della fondatrice, il Cuneo Hospital nella parte ovest di Chicago. Questi tre ospedali (Columbus-Cabrini-Cuneo) saranno noti come le “Tre C”, entrati a far parte dei Catholic Health Partners nel 1995.
Il suo ultimo atto d’amore: i cioccolatini per i bambini italiani di Chicago
Il Natale di guerra del 1917 è oramai alle porte. Francesca è provata fisicamente e psicologicamente. La guerra è da lei considerata, come sostenuto da papa Benedetto XVI, «un’inutile strage»; è in apprensione per i suoi connazionali che stanno combattendo a Caporetto. E proprio mentre il Regio esercito italiano è lì sconfitto, si consumano gli ultimi giorni della sua frenetica vita. Vuole per tutte le sue figlie un abito nuovo e uno anche per sé. È a Chicago a riposare un po’.
Quando, però, viene messa al corrente che i bambini della scuola italiana di Eric Street sono rimasti senza dolci per le ristrettezze della guerra che anche gli Stati Uniti stanno combattendo in Europa, si preoccupa di provvedervi: il 21 dicembre aiuta le sorelle nella confezione dei dolci. Sarà l’ultima sua fatica, il suo ultimo atto d’amore. Sabato 22 dicembre a 67 anni, verso mezzogiorno, conclude la sua esistenza terrena.
L’eredità di Madre Francesca Cabrini
Alla sua morte lascia in eredità sessantasette fondazioni tra Europa e America e circa milletrecento suore missionarie. Nel 1926 sei suore cabriniane raggiungeranno la lontana Cina e nel 1927 fonderanno la prima missione: il sogno della piccola Cechina è così realizzato.
Tumulato in West Park-New York, il suo corpo viene riesumato nel 1931 e custodito in una cassa di vetro nell’altare del St. Francesca Cabrini Reliquario, di Fort Washington, a nord di Manhattan. La strada che conduce al reliquario è ribattezzata in suo onore, Cabrini Boulevard, testimonianza delle lunghe processioni giornaliere di fedeli che si recano a pregare la Santa degli italiani.
Madre Cabrini sarà beatificata il 13 novembre 1938 da papa Pio XI e canonizzata da Papa Pio XII il 7 luglio 1946; nel 1950 lo stesso Pontefice la proclamerà “Celeste patrona di tutti gli emigranti”. Il 13 novembre 2010, giorno dell’anniversario della beatificazione e memoria liturgica della Santa, con una solenne cerimonia, lo scalo ferroviario principale di Milano (la Stazione centrale) è a lei dedicato: da allora è la Stazione centrale Francesca Cabrini.
La semplici spiritualità di Madre Cabrini
Madre Cabrini non la ricordiamo per le sue opere teologiche o per grandi rivelazioni e miracoli. Niente di tutto questo. La ricordiamo per la sua santità semplice, umile, fatta non di tante ore di preghiera, ma per tutte le ore delle giornate, di tutta la sua vita, passate a lavorare, sudare, faticare per Dio, per la sua gloria, per farlo conoscere ed amare. Una santità fatta non di rapimenti o di rivelazioni mistiche, ma di grande impegno sociale. Consuma la vita lavorando con gioia e umiltà.
Un giorno, infatti, ferma una suora che è sul punto di imbarcarsi per andare nelle missioni, solo perché, salutando parenti e amici, afferma che faceva volentieri il sacrificio. Sembra che per lei si tratti di una rinuncia da fare, che le manchi la gioia di partire e «lavorare per Dio». Madre Cabrini la ferma dicendole: «Iddio non vuole importi sacrifici così gravi».
Il Papa Pio XI esalterà il suo nome come un «poema di attività, un poema di intelligenza, un poema soprattutto di carità». Prima ancora è Leone XIII che nel 1898 afferma di lei: «È una santa vera, ma così vicina a noi che diventa la testimone della santità possibile a tutti». Una santità “accostevole” imitabile da tutti, perché consiste nel fare bene e per amore di Dio quelli che sono i nostri doveri.
Questo richiama la famosa frase e programma di santità consigliato da Don Bosco a Domenico Savio, smanioso di farsi santo a forza di penitenze: bastava l’esatto adempimento dei propri doveri quotidiani. «La spiritualità intensa di Madre Cabrini si realizzò soprattutto nelle opere, nella sua continua attività finalizzata ad opporre del bene al male. La preghiera stava nei fatti, non nelle parole. La sua vita è segnata da una perpetua attività» (L. Scaraffia).
Fatta tutta per Dio e per correre dietro al Cristo: «Con la tua grazia, amatissimo Gesù, io correrò dietro a Te sino alla fine della corsa, e ciò per sempre, per sempre. Aiutami o Gesù, perché voglio fare ciò ardentemente, velocemente».
Hanno scritto e detto di lei
Pio XII, nella Lettera apostolica di proclamazione a Patrona celeste di tutti gli emigranti: «Ci fu una donna, luce splendente di virtù e di probità, Francesca Saverio Carini, che esplicò un munifico lavoro nell’assistere corporalmente e spiritualmente gli emigranti. Ella infatti in molti luoghi dell’America Settentrionale, Media ed Australe fondò asili per i figli degli emigranti, aprì scuole per gli stessi, istituì pubblici ospizi per gli orfani. Visitava spesso gli ammalati fra quella gente che avevano stabilito la loro sede altrove, consolava i detenuti nelle carceri, preparava con animo pietoso e con la parola i condannati a morte ad espiare i loro delitti ed a subire con cristiano sentimento il supplizio».
Il Comitato per l’Emigrazione di New York (istituzione civile): «Santa Francesca Saverio Cabrini è stata Madre degli emigranti, Serva dei poveri, Consolatrice degli ammalati, Custode degli orfani, Insegnate dei piccoli, Amica dei lavoratori, Figlia d’Italia, Cittadina degli Stati Uniti, Messaggero della pace, Ancella del Sacro Cuore, che nella sua umile, nascosta vita di preghiere, di lavoro e di sacrificio per l’umanità ha meritato la corona della santità dell’eternità della città di Dio».
L’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, barone Mayon del Planche: «Ho percorso tutti gli Stati dell’Unione Americana, dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest, e, dovunque, ho sentito lodare e benedire la reverenda Madre Cabrini che, nel suo religioso e caritatevole apostolato, di tanta efficacia anche civile, dispiega, con sommo atto, ammirevoli doti di organizzatrice e di amministratrice. La considero quale una preziosa collaboratrice; mentre tutelo presso i potenti gli interessi dell’Italia, ella contribuisce a farla amare e stimare dai sofferenti, dagli umili, dai bambini».
L’inglese Thomas Martin: «Lo sviluppo che l’opera della Cabrini ha avuto nei primi venticinque anni può, in proporzione, paragonarsi allo sviluppo che la grande nazione degli Stati Uniti ebbe dopo la battaglia dell’indipendenza».
Il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo: «Madre Cabrini è la personificazione dell’eredità italoamericana. Ha fondato 67 scuole, ospedali e orfanotrofi. Ha servito i poveri e gli immigrati. Aveva un’energia illimitata e una capacità illimitata ed era un modello per l’emancipazione femminile prima che l’espressione fosse mai usata, facendo tutto questo alla fine del 1800 e all’inizio del 1900».
Giovanni Paolo II: «Armata di singolare audacia, dal nulla iniziò scuole, ospedali, orfanotrofi per masse di diseredati avventuratisi nel nuovo mondo in cerca di lavoro, privi della conoscenza della lingua e di mezzi capaci di permettere loro un decoroso inserimento nella società americana e spesso vittime di persone senza scrupoli. Il suo cuore materno, che non si dava pace, li raggiungeva dappertutto: nei tuguri, nelle carceri, nelle miniere. Per nulla intimorita dalla fatica e dalle distanze, Madre Cabrini si portava da New York al New Jersey, dalla Pennsylvania all’Illinois, dalla California, alla Louisiana e al Colorado. Anche oggi negli Stati Uniti, ove continua ad essere chiamata familiarmente col nome di “Madre Cabrini”, è sorprendentemente viva la devozione verso colei che, pur amando la sua patria d’origine, volle prendere la cittadinanza americana».
Una soluzione semplicissima per un problema complesso: integrazione
La società italiana è pluralistica, basata sul vivere insieme anche con differenze, presupposto di un reciproco riconoscimento di diritti e doveri, improntati al rispetto della persona. Il politologo Giovanni Sartori, al riguardo, scrive in Pluralismo multiculturalismo e estranei: «Stranieri che si propongono di restare estranei al mondo nel quale entrano sono destinati a essere contro-cittadini. Il contro-cittadino è inaccettabile in un sistema di democrazia liberale».
Un modello di integrazione possibile è quello che ci insegna, con la sua storia, Santa Francesca Cabrini. Il suo insegnamento è attualissimo: nel suo agire comprende che per un problema complesso come quello migratorio non è necessario predisporre soluzioni complesse. Con profonda capacità umana intuisce che per migliorare la situazione degli italiani in America la soluzione è semplicissima e logica: far prender loro coscienza che la nuova comunità di vita deve accettarli. Come fare?
Azionando un modello d’integrazione innovativo, per cui l’identità americana (riconosciuta pienamente) possa tranquillamente convivere con quella italiana e la fede cristiana fare da collante. Un’integrazione che vada di pari passo con la diffusione dell’istruzione. Ecco allora che la Cabrini apre scuole in cui all’insegnamento della lingua italiana affianca lo studio dell’inglese, crea opere di assistenza quali orfanotrofi, ospedali, per dare dignità ai migranti, tutte ubicate in edifici belli, luminosi, salubri, affinché gli italiani girino puliti e abbiano sempre un atteggiamento dignitoso.
Ogni nuova fondazione della Cabrini prevede una rete operativa con al centro la struttura ospitante le suore da cui partono le iniziative per raggiungere tutta la zona di competenza, attraverso una scuola parrocchiale, la periodica visita alle famiglie bisognose, a cui portare cibo e indumenti, a cui ricordare di battezzare i nuovi nati e di non abbandonare le usanze cattoliche.
Madre Cabrini e la cittadinanza americana
Tutta la comunità italiana sa che in caso di bisogno le suore di Madre Cabrini ci sono: per sollecitare un aiuto, per trovare occupazione ai disoccupati, per accudire gli orfani, dare assistenza legale, per aiutare gli analfabeti a leggere e a scrivere la corrispondenza con la famiglia d’origine, per aiutare a predisporre le pratiche legali per chi vuole far ritorno in Italia.
Madre Cabrini, ben prima dell’analisi sofisticata di scienza politica di Giovanni Sartori, comprende come nel tessuto sociale americano non sia possibile la presenza di contro-cittadini, di persone in contrasto ed estranee al mondo al quale decidono di appartenere. È lei a dare l’esempio più concreto prendendo, seppur in tarda età, la cittadinanza statunitense.
Gli italiani d’America
Milioni d’italiani per fame, a fine Ottocento e inizio Novecento, abbandonarono la terra madre per cercare fortuna in terre lontane. Terre sconosciute, con popoli che parlavano una lingua incomprensibile, dove non era nemmeno possibile entrare in chiesa, perché l’ingresso era loro precluso, perché troppo odorosi, sporchi e con la faccia da mascalzoni.
Eppure, erano solo e semplicemente italiani.
Eppure, erano solo e semplicemente delle persone umane.
Eppure, anche grazie all’insegnamento di Madre Cabrini compresero l’importanza dell’integrazione. L’importanza di sapersi fare accettare, non snaturandosi. L’importanza di essere italiani in un paese lontano, diverso, nemico.
Si sono fatti e ora sono parte integrante del tessuto social–politico-economico degli Stati Uniti. Basti, al riguardo, citare i nomi di Rudolph Giuliani (già sindaco di New York), di Bill De Blasio (attuale sindaco della metropoli), di Mario e Andrew Cuomo, rispettivamente padre e figlio governatori dello Stato di New York (Mario dal 1983 al 1994), di Antony Fauci (virologo della Casa Bianca durante la pandemia Covid), di Ron De Santis, governatore della Florida e candidato alle primarie repubblicane per la Casa Bianca e via elencando.
Gli italiani d’America sono una realtà; una grande realtà integrata nel tessuto statunitense. Al punto che essi sono e si sentono semplicemente americani. L’opera di carità di Madre Cabrini vive in loro, a testimoniare che un’integrazione possibile esiste. Madre Cabrini è attualissima. Anche per noi. Soprattutto per noi.
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- Achille Mascheroni, Madre Cabrini. La santa che scoprì gli italiani in America, Edizioni Paoline, Roma 1983.
- Lucetta Scaraffia, Francesca Cabrini. Tra la terra e il cielo, Paoline Editoriale Libri, novembre 2003.
- Sergio C. Lorit, La Cabrini, Città nuova editrice, Roma, 1965.