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Lyndon B. Johnson: un texano alla Casa Bianca
Un presidente a cavallo tra J. F. Kennedy e Richard Nixon, tra il carisma del suo predecessore e gli scandali di chi gli è succeduto. Un’amministrazione, quella di Lyndon B. Johnson, storicamente non meno importante, a tratti trionfale, a tratti tragica.
Una presidenza inaspettata
Dallas, 22 novembre 1963, John Fitzgerald Kennedy viene assassinato mentre sfila sull’auto presidenziale lungo Elm Street. A poche ore dalla sua morte il suo vice, Lyndon B. Johnson, giura come 36° presidente degli Stati Uniti sull’Air Force One che sta riportando a Washington la salma di JFK. Accanto a lui, Jackie Kennedy, vestita con un tailleur rosa, macchiato del sangue del marito.
In Texas è stato assassinato un presidente; in Texas subentra un nuovo presidente, nato proprio nello Stato della stella nel 1908, precisamente a Johnson City, una cittadina fondata da un suo antenato nella contea di Blanco. Dopo una vita difficile, fatta di lavori occasionali, compreso l’insegnante in una scuola di bambini messicani a Cutolla, Johnson si laurea in legge alla Georgetown University per poi sposarsi con Claudia Alta Taylor, passata alla storia con il soprannome di Lady Bird.
Contemporaneamente inizia la sua vita politica alla corte di Franklin D. Roosevelt e nel 1937 viene eletto alla Camera dei deputati per il partito democratico. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Johnson si arruola come ufficiale di marina, primo membro del Congresso a farlo e, terminato il conflitto, riprende l’attività politica con l’elezione a senatore, diventando leader del partito. Alla convention democratica di Los Angeles nel 1960, dopo aver perso la nomina a presidente, viene scelto come vice di Kennedy, contribuendo in modo significativo alla vittoria contro il candidato repubblicano Richard Nixon. Tre anni dopo, l’attentato a Dallas e l’inaspettata presidenza.
Super Lyndon B. Johnson e il progetto della Great Society
Nel 1964 Johnson è il candidato naturale alla presidenza: è lui che ha tenuto unito il paese dopo la morte di JFK, sbloccando tutti i meccanismi che avevano impedito al suo predecessore di realizzare gli obiettivi che l’amministrazione si era data.
Già a maggio alla Michigan University Johnson annuncia la sua agenda, la Great Society, che si fondava su una società dove abbondasse la libertà e che aveva come scopo la fine della povertà e delle ingiustizie: un poderoso programma legislativo in grado di aiutare i meno abbienti e gli emarginati, che garantisse i diritti civili degli afroamericani, la parità di genere, indirizzando la spesa federale a vantaggio dell’istruzione pubblica. E riguardo a quest’ultimo punto, il pensiero di Johnson corre certamente al tempo in cui insegnava ai poverissimi bambini messicani.
A luglio viene così approvato il Civil Rights Act, fortemente osteggiato dagli Stati del sud, che va ben oltre quanto progettato da Kennedy, e che rappresenta la legislazione più completa in materia di lotta alla segregazione razziale e alla discriminazione. Alle elezioni di novembre la vittoria di Johnson è schiacciante, ottenendo 43.127.041 milioni di voti, la più vasta maggioranza nel Novecento, e lasciando allo sfidante, ultraconservatore, Barry Goldwater solamente sei Stati.
Il presidente venuto dal Texas, alto quasi due metri, dall’andatura alla Walter Matthau e – nonostante un infarto – dall’inesauribile energia, già cooptato dalla Camelot del clan Kennedy (pur rimanendone sempre a margine) ora è diventato colui che è riuscito ad andare oltre la visione del suo giovane predecessore: Johnson è diventato Super LBJ, e così viene raffigurato, vestito da supereroe, nel fumetto di DJ Arneson e Tony Tallarico.
In questa dimensione superlativa prosegue il secondo mandato da presidente eletto con una serie di virtuosi risultati, come il sorpasso americano sui sovietici nella conquista dello Spazio con il programma Gemini; il Medicaid Act, che aiutava le famiglie con basso reddito fornendo assicurazione ospedaliera e assistenza medica gratuita; il Medicare Act, che offriva lo stesso servizio agli anziani; una serie di leggi sull’istruzione che destinavano fondi alle scuole pubbliche e istituivano borse di studio per i meno avvantaggiati; il Voting Act, che proibiva la discriminazione razziale al voto e infine, l’Immigration Act, che aboliva la discriminazione fondata sull’origine nazionale.
Johnson e la tragedia del Vietnam
Nonostante i trionfi dell’amministrazione, Johnson inizia a trovarsi in una situazione paradossale: da una parte il diffuso consenso in virtù delle riforme approvate, dall’altra la crescente contestazione da parte di chi, pur approvando l’operato del presidente, radicalizza le istanze chiedendo di andare oltre.
Così Super LBJ è nella difficile condizione di chi deve reprimere con la forza le rappresaglie dei razzisti, che non intendono accordare nessun tipo di diritto alla comunità afroamericana, e allo stesso tempo deve contrastare la contestazione, spesso violenta, della popolazione nera. Ma, parallelamente alle questioni di politica interna, c’è la politica estera che preoccupa la Casa Bianca, in particolare ciò che sta accadendo nel Sud-Est asiatico.
Immediatamente dopo l’assassinio di Kennedy il Vietnam era, come disse Jack Valenti, assistente speciale di Johnson, “una nuvoletta piccolissima all’orizzonte.” Il Vietnam, eredità dell’amministrazione precedente, che nel giro di pochissimo tempo si trasforma in un uragano.
Ad agosto del 1964 c’è l’incidente del Golfo del Tonchino quando si scontrano navi americane e nordvietnamite. Johnson opta per una decisa politica di containment: evitare che il regime comunista del Vietnam del Nord oltrepassasse il 17° parallelo e conquistasse il Vietnam del Sud filoamericano.
Certamente, sollecitato dagli ambienti militari, il presidente attua una politica di escalation che porta _ in una guerra mai dichiarata _ allo sbarco dei primi Marines a Da Nang nel marzo del 1965 e una vertiginosa crescita delle forze americane in Vietnam che due anni dopo raggiungono le 500.000 unità.
Nonostante gli sforzi, gli Stati Uniti affondano sempre di più nella palude del Vietnam. Cresce la contestazione tra i giovani, nelle università, nell’opinione pubblica, contro una guerra che sembra impossibile da vincere e che riporta a casa troppi ragazzi nelle bare di zinco; anche i costi sono altissimi ed è ormai sentimento comune quello che afferma l’inutilità del conflitto. Sicuramente l’indole di Johnson contribuisce all’escalation: “Dobbiamo scendere in campo aperto e vincere la guerra!” ribadisce, ma è altresì probabile che qualunque presidente, in quella circostanza, si sarebbero comportato allo stesso modo.
La guerra prosegue. Nel gennaio del 1968 gli americani subiscono l’Offensiva del Tet, il generale Westmoreland, comandante in capo delle forze armate statunitensi, richiede altri 260.000 uomini e a marzo la Compagnia Charlie della 23° Divisione di Fanteria massacra più di 500 civili inermi nel villaggio di My Lai. Una guerra che logora sempre di più Johnson, una guerra le cui immagini passano continuamente alla televisione e che erode, oltre che le casse dello Stato, anche il consenso nei confronti della presidenza.
Lyndon B. Johnson: il tramonto di un presidente
Sempre a marzo del 1968 il senatore Eugene McCarthy prima, Bob Kennedy poi, dichiarano la propria la candidatura alle primarie per il partito democratico. È il segnale che suggerisce a Johnson di annunciare il 31 marzo che non sarà lui il candidato alla presidenza alle elezioni di novembre. Lo fa con un discorso alla Nazione dove annuncia inoltre che è in procinto di chiedere dei colloqui di pace per la soluzione del conflitto nel Vietnam.
A maggio segue l’apertura dei negoziati a Parigi in una primavera a dir poco tumultuosa per gli Stati Uniti, con gli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy. A Lyndon B. Johnson non rimane che terminare il mandato sostenendo il suo vice Hubert Humphrey alla presidenza, il quale – seppur di poco – non riesce a vincere le elezioni, sconfitto dal candidato repubblicano Richard Nixon.
In attesa di consegnare le chiavi della Casa Bianca al nuovo presidente, Johnson trascorre l’ultimo Natale a Washington assistendo – insieme alla moglie, le figlie e i nipoti – alla missione dell’Apollo 8, il primo volo umano intorno alla Luna: un ultimo successo per il presidente che più di chiunque aveva sostenuto il programma spaziale e a cui verrà dedicato il Centro di controllo missione della NASA.
Il 22 gennaio 1973, cinque giorni prima che gli Stati uniti e il Vietnam del Nord firmassero l’accordo di pace, Lyndon Baines Johnson ha un secondo attacco di cuore, questa volta fatale, e muore nel suo ranch di Stonewall, vicino a Johnson City.
Scrisse di lui Eric F. Goldman, assistente alla Casa Bianca e professore a Princeton: “Johnson ha avuto la statura tragica di un presidente eccezionalmente dotato, che è stato l’uomo sbagliato, proveniente da un luogo sbagliato, in un momento sbagliato e in circostanze sbagliate.”
Documentario a puntate in inglese su L.B.J.
https://youtu.be/qj_kFAmZrpI?si=Inpn7AmTW9qsSfXl
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Doris KEARNS GOODWIN, Lyndon Johnson and the American Dream, New York, Harper & Row, 2015.
- Citazioni del presidente LBJ, Milano, Mondadori, 1968.
- Lyndon B. JOHNSON, Il momento dell’azione, la mia speranza per l’America, Milano, Garzanti, 1965.
- Robert DALLEK, Lyndon B. Johnson: portrait of a president, Oxford University Press, 2005.