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Cenni biografici: vita e opere
Sappiamo poco della giovinezza di Lucio Anneo Seneca, nato a Cordova (in Spagna) da una famiglia di rango equestre, fra il 4 e l’1 a.C. Il padre, un agiato cavaliere che viene conosciuto come Seneca il Vecchio o Seneca il retore, è un uomo colto e appassionato di storia e di retorica, che si trasferisce a Roma per studiare con maggiore agio e ascoltare gli oratori più famosi e per permettere ai suoi tre figli di ricevere un’adeguata educazione.
Seneca dunque inizia a frequentare alcuni tra i più famosi intellettuali dell’epoca: Sozione il Giovane (filosofo neopitagorico), Attalo (stoico) e Papirio Fabiano (retore e filosofo). Attraverso essi conosce le dottrine di Quinto Sestio, che aveva predicato un ideale di vita ascetico, ispirato in parte anche al neopitagorismo, cui egli rimase sempre fedele.
Seneca si trasferisce intorno al 26 d.C. in Egitto da uno zio per curare la sua salute cagionevole. Qui intraprende la carriera oratoria e politica intorno al 31 d.C. e, nel giro di qualche anno, diviene senatore. I primi attriti con il potere risalgono al 39 d.C., quando rischia la condanna a morte, apparentemente per un capriccio dell’invidioso Caligola, in presenza del quale aveva brillantemente difeso una causa, ma più probabilmente perché è legato all’ambiente vicino a Germanico, ostile all’imperatore. In questa occasione egli viene salvato da un’amante di Caligola, la quale fa osservare all’imperatore che non valeva la pena di ammazzare quell’intellettuale malaticcio, che certamente sarebbe morto in breve tempo.
Nel 41 d.C. Seneca è vittima di una trama di palazzo e, dopo essere accusato di adulterio con una delle sorelle di Caligola, viene esiliato in Corsica dal nuovo imperatore Claudio. L’esilio – si tratta, in effetti, di una relegatio – dura dal 41 al 49 d.C. Questa volta è Messalina, la prima moglie dell’imperatore Claudio, l’artefice della condanna. Lei infatti teme l’antico clan di Germanico, rappresentato dalle sorelle di Caligola, e per questo fa accusare Seneca di adulterio con la minore di esse, Giulia Livilla.
Il rientro di Seneca a Roma viene promosso da Agrippina, moglie di Claudio, dopo la morte di Messalina. La nuova moglie dell’imperatore infatti prepara la successione al trono per il figlio Lucio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone, avuto da un precedente matrimonio, e ritiene il filosofo di Cordova un consigliere ideale per lui. Nel 54 d.C. Claudio muore, forse avvelenato dalla stessa Agrippina, e gli succede il sedicenne Nerone, affiancato da Seneca e dal prefetto del pretorio Afranio Burro. Nerone sarà un principe molto controverso nella sua epoca; avrà infatti alcuni innegabili meriti, soprattutto nella prima parte del suo impero, ma sarà anche responsabile di delitti e atteggiamenti dispotici.
Seneca concepisce allora l’ambizioso disegno di guidare il giovane allievo verso un esercizio illuminato del potere, cercando di realizzare una mediazione tra potere imperiale e potere del senato, suggerendo a Nerone una politica di rispetto per le prerogative dell’aristocrazia. Tuttavia è un periodo difficile per il filosofo, non solo per l’impegno che questa politica gli richiede, ma soprattutto per i molti compromessi che deve accettare: da un lato il carattere di Nerone, insofferente della sua tutela, e dall’altro le trame di Agrippina, che avrebbe voluto controllare il figlio attraverso Seneca e Burro, per gestire in questo modo il suo potere.
Il primo quinquennio del principato è contraddistinto da un periodo di apparente equilibrio — il cosiddetto “periodo del buon governo” — ma dopo la situazione sembra precipitare drasticamente. La positiva influenza dei due illustri precettori ha infatti breve durata; Nerone, pieno di ambizione e di presunzione, inizia a sbarazzarsi di coloro che ostacolano il suo progetto di affermazione individuale, tradendo gli stessi valori e princìpi a cui è stato educato dal suo maestro.
Il dispotico imperatore infatti, comincia presto a rendersi protagonista di azioni terribili: fa uccidere il figlio di Claudio, Britannico, nel 55 d.C. e, pochi anni dopo, nel 59, la stessa madre Agrippina, in seguito a forti contrasti. Seneca peraltro rimane al fianco dell’imperatore fino al 62 d.C. quando, dopo la morte di Burro (forse avvelenato), si accentuano sempre più i contrasti sia con lo stile di vita di Nerone e di Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, sia con una politica sempre più autoritaria.
A questo punto Seneca intuisce la pericolosità della situazione e comincia a frequentare sempre meno il palazzo imperiale, soprattutto dopo l’incendio di Roma nel 64 d.C. Inoltre chiede all’imperatore di potersi ritirare dalla vita politica e, nonostante il suo rifiuto, si allontana progressivamente nelle sue ville di campagna, dedicandosi allo studio della filosofia. Proprio in questo periodo Seneca compone alcune delle sue opere maggiori: le Naturales quaestiones, il De providentia e le Lettere morali a Lucilio.
L’atteggiamento di progressivo distacco dalle scelte politiche di Nerone, porta Seneca ad essere guardato con sospetto e ad essere visto da molti come un oppositore del regime. Dunque, quando nel 65 d.C. è sventata una congiura senatoria ai danni di Nerone, guidata da Caio Calpurnio Pisone (detta appunto “congiura dei Pisoni”), Seneca non riesce a sfuggire al sospetto di avervi preso parte e viene condannato a morte da Nerone.
Riceve quindi l’ordine di togliersi la vita, morendo con onore secondo i principi del mos maiorum; se non lo avesse fatto sarebbe stato ugualmente giustiziato, poiché Nerone rimane fermamente convinto della sua partecipazione alla congiura pisoniana. Seneca forse è solamente informato della congiura, ma non sappiamo con certezza se ne abbia davvero preso parte. Non potendo e non volendo sottrarsi, il filosofo opta per il suicidio e non ha altra scelta.
La morte di Seneca è narrata da Tacito, il quale la descrive prendendo spunto dalla morte di Socrate nel Fedone e nel Critone di Platone, con toni molto simili; Seneca si rivolge agli allievi e alla moglie Pompea Paolina, che vorrebbe suicidarsi con lui, ma nonostante il filosofo la spinge a non farlo, lei insiste.
Tacito descrive così gli ultimi istanti di vita del filosofo: «Seneca intanto, poiché l’attesa si prolungava e la morte era lenta a venire, pregò Stazio Anneo, della cui lunga amicizia e della cui arte medica aveva fatto esperimento, di versargli il veleno preparato da tempo, quello stesso con cui si estinguevano in Atene i condannati per sentenza popolare. Gli fu recato, ma lo bevve inutilmente; ché aveva gli arti già freddi e precluso il corpo all’azione del veleno. Da ultimo, si fece mettere in una vasca d’acqua calda, e spruzzandone i servi più vicini disse ancora ch’egli offriva quella libagione a Giove liberatore. Messo infine in un bagno a vapore, fu soffocato dal caldo, e venne cremato senza alcuna cerimonia funebre. Così aveva disposto per testamento quando, ancora ricchissimo e al colmo della potenza, pur già pensava alla sua fine».
Un suicidio coraggioso e giustificabile per lui che non teme la morte e che ha vissuto tutta la vita cercando la felicità nella virtù, nella saggezza e nella tranquillità dell’animo e che considera l’importanza del tempo della vita non in base alla sua lunghezza, ma alla qualità con cui esso viene vissuto. Lui che, attraverso le sue tragedie, ha cercato, condannando il furor, di insegnare al suo sovrano ad evitare gli eccessi di ira, dedicando a questa passione malvagia addirittura uno dei suoi Dialoghi (il De ira), anche se ne rimane vittima.
La sua è una morte che, tuttavia, corona in modo glorioso una vita pienamente vissuta; lui è sempre capace di adeguarsi alle circostanze positive e negative, lasciando ai posteri un ricco repertorio di opere, sia di carattere filosofico sia morale, attraverso i suoi dieci Dialogi e le sue Epistolae, di carattere più intimo e personale.
Il filosofo, che per lungo tempo è stato accusato di non vivere in accordo con i propri precetti, di avere accumulato ricchezze e praticato l’usura, di essersi compromesso con il potere e di avere assecondato le uccisioni di Britannico e di Agrippina, con la sua teatrale morte socratica mette infine pace tra la sua vita e le sue opere.
L’intensa e drammatica pagina tacitiana degli Annales (15, 62-64) – cui peraltro si è ispirata la tradizione iconografica moderna, da Rubens a David – è, assieme alla Storia romana (25, 1-3) di Cassio Dione, la fonte principale per la ricostruzione del suicidio di Seneca. Come egli stesso afferma nelle Lettere a Lucilio (libro VIII, 70, 6 e 28): «Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. (…) La ragione stessa ci esorta a morire in un modo, se è possibile, che ci piace».
Il potere, la politica e la morale
La vita di Seneca, molto vicina ai centri del potere, ci è ben nota grazie alle testimonianze di autorevoli storici romani dell’epoca come Tacito, Svetonio e Dione Cassio. Per comprendere fino in fondo il rapporto che Seneca intrattiene con il potere, bisogna prima analizzare il tempo storico in cui si trova.
Il principato neroniano, è un periodo molto difficile, pieno di tensioni e di terrore, anche se tutto ciò non avviene da subito. Infatti appena ascende al trono, Nerone, anche grazie al saldo appoggio di uomini come Seneca e Afranio Burro, riesce a mantenere un equilibrio all’interno dell’impero romano. Questo periodo di prosperità venne chiamato dagli storici quinquiennium Neronis o quinquennium felix, proprio perché sono cinque anni di pace e serenità.
Purtroppo tale quinquennio viene seguito da un periodo dominato dalla paura e dalla follia di Nerone, che pone una svolta autocratica sul principato, sostituendo le due figure che prima lo affiancavano. Burro viene sostituito da Tigellino, invece nessuno occupa la precedente carica di Seneca. Seneca non rinuncia ad esporsi in prima persona e non si tira indietro di fronte ai compromessi che la partecipazione alla vita politica gli impone, ma più volte paga a caro prezzo la fama e le ricchezze accumulate, fino ad essere costretto al suicidio.
Cronologicamente, nel 39 d.C., rischia la vita sotto Caligola e due anni dopo è costretto all’esilio in Corsica da Claudio, verso il quale passa dall’assumere un atteggiamento adulatorio per ottenerne la grazia scrivendo la Consolatio ad Polybium, al vendicarsi dopo la sua morte, esprimendo tutto il suo odio verso di lui nell’Apocolocyntosis, opera in cui lo sbeffeggia ferocemente. Divenendo precettore di Nerone, cerca di improntare il suo governo ai princìpi del rex iustus, teorizzando la figura del principe illuminato nel De clementia, ma presto l’indole autoritaria e spietata del giovane imperatore prende il sopravvento.
Seneca, a differenza di altri scrittori a lui contemporanei, sente il dovere di partecipare per buona parte della vita all’attività politica: per lui è molto importante il rapporto tra vita attiva e vita contemplativa, vita pubblica e vita privata, negotium e otium, individuo e società. Egli resta molto legato ad un principio: «compito dell’uomo è di essere utile agli altri uomini». Per essere utile, Seneca afferma che l’uomo virtuoso non deve sottrarsi alle sue responsabilità umane e civili. La morale di Seneca infatti è una morale attiva, fondata sul principio del bene comune.
Quindi il rapporto di Seneca con il principato è un rapporto travagliato. Inizialmente contento del principato neroniano, scriverà un’opera al novello imperatore Nerone, intitolata De Clementia. In quest’opera Seneca elogia la moderazione e la clemenza del princeps, dando anche un modello di comportamento che questo dovrebbe seguire. Il sovrano clemente, dice l’autore, dovrebbe comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Il metodo migliore per educare i sudditi è sempre quello della persuasione e dell’ammonizione, mai quello della minaccia e del terrore.
Seneca non mette in discussione il potere assoluto dell’imperatore ed anzi lo legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha assegnato il compito di governare sui suoi sudditi ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il peso del potere, e deve anche essere garante della ratio universale. Egli propone una sola norma nel trattare con gli schiavi: «Vivi con l’inferiore come vorresti che il tuo superiore vivesse con te».
Il re è il capo dello stato, i sudditi sono le membra, perciò questi sono pronti ad ubbidire al re come le membra ubbidiscono al capo e sono disposti ad affrontare anche la morte per lui: «Egli, infatti, è il vincolo grazie al quale sussiste unito lo Stato, egli è lo spirito vitale che tutte queste migliaia di uomini respirano. Essi, di per sé, non sarebbero null’altro che un peso e una preda per altri, se quell’anima dell’Impero venisse a mancare».
Essendosi accorto del fallimento dell’educazione morale di Nerone, Seneca scrive il De Beneficis, un trattato di sette libri che affronta il tema di saper donare e ricevere un beneficio, inteso come la concreta elargizione di un bene, e inoltre sfiora la concezione secondo la quale solo la fortuna può determinare la condizione di libertà o schiavitù. Ogni uomo dunque deve sapersi costruire una propria gloria con la fatica e con duri sforzi, senza contare su quella lasciatagli dai propri antenati.
Seneca, proprio per le sue “incoerenze” nei confronti del potere, è riuscito a mantenere nei secoli una notevole fama per un duplice motivo: i regimi totalitari e dispotici ne apprezzano i comportamenti da suddito, mentre gli intellettuali condividono il suo modo di opporsi ai sovrani.
Seneca è affascinato dalla morale stoica e la usa per soddisfare le esigenze della vita pratica. Tuttavia con il suicidio riesce a consegnare la propria immagine alla storia, riscattando una vita certamente contraddittoria. È forse proprio questo a dargli la maggiore fama e, con il proprio suicidio, scrisse un’importante pagina della sua esistenza.
Seneca nelle sue tragedie metterà a tema un lato della sua personalità pressoché sconosciuto, cioè quello del vir sapiens et bonus, che si suiciderà per la giusta causa della libertà. La libertà, per Seneca, è dentro di noi e nessuno può comprimerla: nella sapienza, nel disprezzo del nostro corpo caduco è la libertà più sicura. Se sapremo rivolgerci a cose più grandi della schiavitù del corpo, conquisteremo la libertà interiore, diventeremo possesso di noi stessi. «Mi domandi quale sia la strada per andare verso la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo».
Quello che veramente importa è soltanto saper distinguere il bene dal male, perché solo chi riesce a tanto sarà davvero libero, perché la libertà non viene dal fatto che uno nasca in un determinato ceto, che sia esso povero o nobiliare. Per lo scrittore la battaglia per la conquista della libertà si può combattere solo con l’arma della filosofia, tanto è vero che egli affermava che solo il saggio è libero.
Pensiero filosofico di Seneca
Seneca non è un filosofo né un pensatore sistematico: la sua intenzione principale è tramettere un concetto di vita e determinati valori morali, infatti la sua produzione è molto diversa da quella di altri pensatori dell’antichità come Platone o Aristotele. Egli non desidera offrire un sistema filosofico, ma indicare ai suoi seguaci e lettori le virtù morali dello stoicismo. Nonostante gran parte delle sue opere letterarie viene inserita sotto il titolo generico di “dialoghi”, questi si distinguono nettamente da quelli platonici per assumere, invece, la forma di veri e propri monologhi, nei quali Seneca si rivolge a chiunque sia interessato al suo pensiero.
L’asistematicità del pensiero senechiano e la proclamata indipendenza dalle fonti, sono una costante fissa in tutte le opere del filosofo. Dall’intera produzione delle sue opere emerge una reinterpretazione personale delle conoscenze trasmesse al filosofo dai maestri che convive con il chiaro prevalere dello stoicismo. Proprio dallo stoicismo sono desunti i due principi di base della filosofia senechiana: natura e ragione. L’uomo, secondo Seneca, deve innanzitutto conformarsi alla natura e, parimenti, obbedire alla ragione, vista come ratio, lògos greco, divino principio che regge il mondo.
Una nota di particolare distacco rispetto alla dottrina stoica sta alla base della figura del sapiens, il saggio. Lo spirito latino pragmatico di Seneca lo porta a eliminare i tratti disumani attribuiti al sapiente. La saggezza si configura così come dominio razionale delle passioni e non come apatia e immunità dai sentimenti.
L’ascesi spirituale del saggio si compone di cinque tappe fondamentali: il trionfo sulle passioni, come paura, dolore e superstizione; l’esame di coscienza, una pratica comune nella dottrina pitagorica; la consapevolezza di essere parte del lògos e dunque rendersi conto di essere creature ragionevoli, parte del progetto provvidenziale della ragione; l’accettazione e riconoscimento di sè, infatti il sapiente riconosce ciò che è parte della ratio e cosa no, rendendosi conto di farne parte; ed infine il raggiungimento della libertas interiore: attraverso la ragione l’uomo può vivere felice.
La sapienza si configura così come un mezzo e non come un fine. Si configura come il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la libertà interiore e non una conoscenza fine a sé stessa.
Nella prospettiva filosofica di Seneca, trova spazio anche la concezione filosofica delle scienze ispirata da Aristotele. Lo studio dei fenomeni della natura, infatti, consente all’uomo di conoscere la ratio cui tutti fanno capo e, attraverso questi, assimilarsi in essa.
Seneca inoltre definisce quattro aspetti pratici fondamentali della saggezza: la temperanza che aiuta a dominare le passioni; la fortezza, utile a contrastare le paure; la prudenza, grazie alla quale si possono prevedere in anticipo le azioni da compiere; la giustizia, con la quale si può assegnare a ciascuno ciò che gli spetta. Quando l’essere umano riesce a raggiungere la virtù, si libera dai timori e dalle angosce tipiche della sua condizione mortale e fisica e può finalmente affermare di essere davvero felice, perché la sua piena realizzazione consiste nella virtù e nel proprio miglioramento e non è soggetta ai capricci della fortuna, né dipende dalla ricchezza o dalla salute, le quali sfuggono al nostro controllo o dominio e dunque non sono in nostro potere.
Seneca è sicuramente un filosofo e letterato che ha saputo collaborare in modo autentico con il potere, lasciando un segno positivo durante gli anni di attività accanto al giovane imperatore, collaborando attivamente per il bene pubblico, ma che sa anche allontanarsi da esso quando non rappresenta più un modello positivo, rinunciando a privilegi e favori senza pentirsene, come ha dichiarato nel De vita beata: «capace di godere delle ricchezze quando ci sono, ma capace di farne a meno se cessano».
Il suo ritiro dalla vita pubblica ha invece conseguenze nefaste per Nerone che, lasciato solo a governare, nell’ultimo quinquennio del suo potere, genera tanta disapprovazione da parte dei cittadini da venir condannato, dopo la morte, alla “damnatio memoriae”, la peggiore condanna che un romano potesse subire, mentre la memoria di Seneca rimarrà nei secoli per la sua profonda saggezza e per il suo impegno pubblico.
In una situazione di insanabile instabilità politica e sociale nella Caput Mundi dell’epoca, Seneca esprime tutte le ambiguità, i limiti e le aspirazioni di un ceto intellettuale, rimasto l’unico a contrastare il potere politico dispotico, dopo la sottomissione della classe senatoriale. Con Seneca fallisce la possibilità del ceto intellettuale di svolgere una funzione organica al potere politico. Dopo di lui i “consiglieri del prìncipe” saranno liberti e cortigiani e gli intellettuali potranno solo raccontare quanto avviene.
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- Lettere morali a Lucilio, a cura di
- Lucio Anneo Seneca, La brevità della vita, A. Traina, BUR 1993.
- Dimitri Landeschi , Seneca. Un filosofo al potere, Saecula 2019.