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Storicizzare la mafia: gli stereotipi sui malavitosi e il ruolo dei media
La storiografia recente ha accolto la prospettiva adottata da Giovanni Falcone nei confronti dell’universo mafioso, secondo la quale al fine di conoscere e contrastare la criminalità organizzata è necessario che lo studioso, o il magistrato, si rapporti con serietà alla mentalità mafiosa. Questa convinzione si lega ad un antico pregiudizio sui criminali, spesso considerati un gruppo di persone a parte rispetto alla società, che non ha nulla a che fare con gli uomini comuni.
Questa visione alimenta due errori fondamentali: da un lato, l’idea che le tradizioni e i rituali mafiosi siano qualcosa di immutabile ed esterno alla società; dall’altro, non consente di prendere sul serio le consuetudini dei criminali, percepite solitamente come ipocrite e prive di fondamento.
Inoltre, nell’approccio allo studio della criminalità organizzata è necessario tener conto dell’influenza esercitata sulla società da credenze e simboli mainstream, alimentati e rafforzati dai media e dagli stessi mafiosi. Proprio dalle interconnessioni tra media si generano rappresentazioni funzionali alla costruzione di un immaginario collettivo, definito da Marcello Ravveduto come «la proiezione pubblica della società, riflessa attraverso lo specchio dei media».
In queste dinamiche complesse si inseriscono anche le mafie, che attingono di frequente a rituali e simboli condivisi dalla società per rinsaldare il legame con quest’ultima e affermare il proprio potere. Gli stessi mafiosi si servono con efficacia dei media, subendone le influenze, fino a generare autorappresentazioni del potere criminale che finiscono per sovrapporsi a stereotipi di dominio pubblico. Un esempio recente è il ritrovamento di un poster raffigurante don Vito Corleone (Marlon Brando) nel primo atto della saga di Francis Ford Coppola, Il Padrino (1972), nel covo del latitante Matteo Messina Denaro nel gennaio 2023.
Questo processo di sovrapposizione tra realtà e finzione inizia già agli albori del fenomeno mafioso e la letteratura rappresenta il primo efficace medium con cui si diffondono credenze e conoscenze sulla criminalità organizzata. I poeti e gli scrittori ottocenteschi europei iniziano ad incuriosirsi alle tradizioni popolari e ad indagare i rapporti tra criminalità e politica, come dimostrano, tra gli altri, il volume La Camorra di Marc Monnier (1862) e gli scritti di Alexander Dumas su camorra e brigantaggio, raccolti da Claude Schopp nel libro La Camorra e altre storie di briganti.
Nel 1860, Dumas raggiunge l’amico Giuseppe Garibaldi a Palermo e segue la spedizione dei Mille fino a Napoli, dove ha modo di osservare personalmente la realtà dell’Italia meridionale e di conoscere le leggende che circolano all’interno del regime borbonico.
Prima ci sono i camorristi: i delinquenti comuni
Il termine camorrista compare nella prima metà del XIX secolo in riferimento a uomini prepotenti e provocatori, per indicare successivamente i delinquenti comuni detenuti nelle carceri borboniche. Proprio a queste figure, le guardie penitenziarie affidano il compito di gestire l’ordine nelle celle, offrendo loro in cambio il monopolio del gioco clandestino in carcere.
Dopo i moti insurrezionali del 1848 le carceri si riempiono di detenuti politici: in questa circostanza i liberali rivoluzionari si trovano a vivere al fianco di delinquenti violenti e non istruiti, tuttavia potenzialmente in grado di mobilitare le masse popolari. In tal modo, per i rivoluzionari antiborbonici si apre la prospettiva di politicizzare queste personalità e di farne degli alleati per la propria causa.
Nel 1851 vengono rese pubbliche le lettere scritte dal deputato inglese William Gladstone durante un viaggio a Napoli, in cui l’uomo descrive le prevaricazioni dei camorristi, messe in atto con il benestare delle guardie carcerarie. Questa circostanza ha una grande risonanza in Europa e contribuisce a delegittimare significativamente il regime borbonico, portando alla ribalta la figura del camorrista. Tra il 1855 e il 1860 aumenta il timore del regime borbonico nei confronti di eventuali insurrezioni: perciò, le forze di polizia iniziano a spedire i delinquenti locali al confino presso le isole Tremiti.
I mafiosi: i camorristi in Sicilia
Di mafiosi si parla per la prima volta in una commedia popolare del 1862-1863, dal titolo I mafiusi della Vicaria, ambientata tra i camorristi delle carceri palermitane negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Le origini storiche della mafia si fanno risalire alla Sicilia occidentale, particolarmente influenzata dal passato feudale. Nel 1812, in Sicilia viene abolito il sistema feudale: da questo momento, il diritto ad utilizzare la forza per il controllo del territorio passa gradualmente dall’aristocrazia nelle mani dello Stato.
La riforma amministrativa borbonica del 1817, recependo alcuni influssi della concezione napoleonica di Stato moderno, introduce una magistratura e una polizia. In entrambi i casi, i funzionari vengono selezionati tra l’élite aristocratica locale. In particolare, nel caso della polizia, ricorrere ad una gendarmeria centralizzata in un territorio tanto vasto risulta poco efficace; perciò, si tende a fare uso di compagnie d’armi locali.
Tra gli esponenti dell’élite paesana si reclutano anche i cosiddetti gabellotti, ovvero gli affittuari di un fondo agricolo, e gli amministratori dei latifondi che cercano di ereditare frazioni di terreni smembrati dalle ex proprietà feudali. È proprio in questa circostanza che si ridefiniscono le ricchezze della vecchia aristocrazia e quindi gli equilibri di potere nell’isola, ricorrendo non di rado all’uso della violenza per affermare la propria autorità sugli altri. Queste figure vengono additate come mafiusi, un termine che ha un significato analogo a quello di camorristi e che indica personalità “eccellenti”, “superiori”.
Dal 1815 al 1860 si susseguono conflitti e insurrezioni antiborboniche nella Sicilia nord-occidentale, come quelle del ’21 e del ‘48. Le caratteristiche del mafioso riprendono l’indeterminatezza tipica di quelle del camorrista, al punto da arrivare a rappresentare, per il potere statale, individui genericamente «contrari all’attuale ordine di cose».
L’Italia postunitaria: la questione meridionale, il brigantaggio e la mafia
A partire dal 1860, nell’ultima fase della spedizione dei Mille, nell’Italia meridionale i borbonici iniziano a mobilitare bande armate irregolari. Questa pratica si andrà ad aggiungere alla delusione crescente delle masse contadine che avevano vissuto con entusiasmo le promesse garibaldine. All’indomani dell’unificazione, una parte dell’Italia meridionale, disillusa dalle promesse di terre e in assenza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, si oppone con violenza al nuovo Stato, che avvierà una capillare azione repressiva per contrastare un fenomeno noto come brigantaggio.
Nella primissima fase del nuovo regime unitario, a seguito dell’ampia adesione popolare a Giuseppe Garibaldi, il problema degli individui pericolosi sembra ridimensionarsi, grazie al contributo fornito da figure note come camorristi e mafiosi alla resistenza antiborbonica. Successivamente, questi ultimi iniziano ad essere percepiti come un potenziale pericolo di ordine pubblico per il nuovo Stato unitario: è in questa circostanza che il ministro di polizia della Luogotenenza napoletana, Silvio Spaventa, inizia a ricercare i camorristi con l’obiettivo di arginare la delinquenza nella delicata fase di transizione dal regime borbonico a quello unitario.
Parallelamente alle azioni dei briganti, che si svolgono perlopiù tra le montagne e nelle zone rurali del Mezzogiorno, acquisiscono visibilità anche i camorristi e i mafiosi, con cui il potere politico, in questa fase, intende ancora i delinquenti comuni. Il fenomeno ottiene rilevanza legandosi alla questione meridionale e i mafiosi diventano ancora una volta al contempo nemici e strumenti nelle mani del potere politico: si sviluppa così l’idea di Camorra e, in seguito, di Mafia.
Nel 1863, il governo postunitario emana la legge Pica, con l’intento di contrastare il brigantaggio nell’Italia meridionale e inserisce i camorristi tra gli individui pericolosi, in quanto «appartenenti alla così detta associazione della Camorra». Per queste figure, difficili da identificare, si prevedono pene amministrative e il domicilio coatto per la durata massima di un anno.
Il 26 aprile 1865, il termine maffia compare in un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio al ministro dell’Interno, con riferimento ad uno spettro eterogeneo di delinquenti e presunti avversari dell’ordine politico. Il prefetto esplicita la volontà di arginare l’ala insurrezionale del garibaldinismo, considerata in combutta con i filo-borbonici.
Tuttavia, la mafia entra nel discorso pubblico dopo la rivolta di Palermo del 1866, una sollevazione popolare che passerà alla storia come “rivolta del sette e mezzo”, per la durata dell’insurrezione. Le modalità di svolgimento degli eventi ricalcano quelle dei moti antiborbonici dei decenni precedenti e molti caporioni sono gli stessi che nel 1860 avevano preso parte alla spedizione dei Mille. Il governo del neonato Regno d’Italia bolla i rivoluzionari come delinquenti, al fine di ricercare nell’insurrezione una motivazione criminale.
Al contempo, la rivolta convince i vertici dello Stato italiano dell’esigenza di affidare proprio ad individui rispettabili e temuti dalla società locale il compito di gestire l’ordine pubblico nelle campagne, luoghi ad alto potenziale rivoluzionario. L’inserimento dei mafiosi tra gli individui pericolosi, analogamente a quanto fatto con la legge Pica per i camorristi, avviene con la legge 294 del 6 luglio 1871, emanata sulla scia del sentimento di sospetto generalizzato generato dall’esperienza della Comune di Parigi, la prima forma di autogoverno di stampo anarchico e socialista.
In questa fase, i mafiosi sono considerati dal potere come membri di un’associazione nota come Mafia, ricalcando ancora una volta le stesse modalità di azione messe in atto con i camorristi. Tuttavia, l’inserimento dei camorristi e dei mafiosi in provvedimenti genericamente finalizzati a contrastare la delinquenza e l’assenza di disposizioni specifiche contro tali presunte organizzazioni fa supporre che le forze politiche siano ben consapevoli della loro inesistenza.
Pertanto, in Sicilia si va alla ricerca di ipotetiche sette segrete con l’obiettivo di individuare e colpire bande organizzate, basate su regole di comportamento condivise e su una specifica gerarchia. Si tratta di realtà molto comuni al tempo, ispirate ai modelli delle antiche confraternite e delle corporazioni artigiane. Curiosamente, le indagini di polizia finiscono per individuare dei rituali comuni a vari gruppi, come quello della punciuta, ovvero dell’affiliazione, tramandato fino a Cosa Nostra. Ancora una volta, si tratta di pratiche piuttosto diffuse e perlopiù conosciute dalla società ottocentesca italiana.
In questo periodo, l’obiettivo del potere politico è comprovare l’esistenza di un’associazione criminale con varie ramificazioni, per giustificare dei provvedimenti straordinari e riaffermare il controllo nell’isola. Occorre tener conto della forte preoccupazione del governo nei confronti di un’eventuale diffusione delle sezioni dell’Internazionale socialista. Perciò, durante la fase di passaggio dalla Destra alla Sinistra storica, tra il 1874 e il 1878, il governo si cimenta nella ricerca ossessiva di somiglianze tra le diverse bande armate, per delineare le caratteristiche della mafia.
Proprio questo è uno degli elementi portati a supporto dell’imposizione di leggi speciali in Sicilia, una scelta fortemente criticata dalla Sinistra storica e ritenuta da quest’ultima uno strumento di governo della Destra. In questo modo, nei primi momenti dell’Italia unita si delineano quelle commistioni tra criminalità e politica che con il passare del tempo contribuiranno ad influenzare l’evoluzione del fenomeno mafioso, alimentando al contempo un vero e proprio immaginario.
Con l’avvento della Sinistra storica, nel 1876, la mafia inizia ad essere considerata la versione urbana del brigantaggio. A questo periodo risale l’Inchiesta in Sicilia degli studiosi ed esponenti della Destra Leopoldo Franchetti (1847-1917) e Sidney Sonnino (1847-1922). Si tratta di un’indagine sul campo finalizzata ad accertare le problematiche legate alla questione meridionale. L’inchiesta contiene una delle prime analisi della mafia come sistema organizzato, e non come ordinaria delinquenza, una prospettiva che condizionerà la visione delle mafie nel periodo avvenire.
La lotta alla mafia in epoca fascista: la “grande emigrazione” e la mafia italo-americana
Tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, l’Italia diventa Paese di origine di ingenti flussi migratori. Le partenze più consistenti si verificano durante la cosiddetta “grande emigrazione”, tra il 1876 e il 1915. A partire sono prevalentemente proprietari terrieri, ma anche braccianti che scelgono tra le mete di destinazione privilegiate gli Stati Uniti d’America. Il punto di approdo è l’isola di Ellis Island, nella baia di New York, città in cui le comunità di italiani si stabiliscono, talvolta fondando interi quartieri come ad esempio Little Italy. In questa circostanza emigrano anche ladri, falsari e delinquenti comuni che, intrecciando relazioni con altri criminali sul territorio americano, daranno vita alla mafia italo-americana.
La tendenza a legare il contrasto alla mafia al controllo del Mezzogiorno è propria anche di Benito Mussolini e rappresenta una scelta in linea con il modello fascista di Stato accentratore. Anche in questo caso, la lotta alla mafia comporterà lo scioglimento di organizzazioni di vario tipo, per colpire in particolare quelle di stampo socialista. In epoca fascista, la lotta contro la mafia viene affidata al prefetto Cesare Mori, che riuscirà a far condannare all’ergastolo Vito Cascio Ferro, esponente della mafia italo-americana e colpevole dell’omicidio del poliziotto statunitense di origini italiane Joe Petrosino.
L’Italia repubblicana: dalla prima strage di mafia a Cosa Nostra
Il 1° maggio 1947 si verifica quella che è considerata la prima strage mafiosa dell’Italia repubblicana. A Portella della Ginestra, vicino Palermo, il bandito Salvatore Giuliano apre il fuoco su una folla di contadini riuniti per festeggiare la festa dei lavoratori. Le motivazioni alla base della strage non possono esaurirsi nell’ostilità della banda di Giuliano verso i comunisti. Sebbene non siano chiariti i mandanti, è evidente la responsabilità di forze politiche locali interessate ad intimidire i contadini e ad arginare le loro rivendicazioni sulle terre.
Le azioni delle bande criminali si evolvono in armonia con il contesto storico e sociale del Paese, inserendosi in dinamiche profittevoli in ambito rurale e urbano. Un esempio in tal senso si riscontra durante il boom economico, quando soggetti e gruppi criminali, servendosi di contatti politici di rilievo, si cimentano nella ricerca di guadagni attraverso la speculazione edilizia e la gestione di appalti pubblici.
A partire dagli anni Settanta, dalle lotte tra cosche mafiose in Sicilia emergeranno le figure di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, fautrici di un vero e proprio attacco allo Stato e responsabili di attentati a figure-simbolo dell’antimafia contemporanea come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le stragi di mafia e il maxiprocesso a Cosa Nostra, inaugurato il 10 febbraio 1986 a Palermo, porteranno alla ribalta le dinamiche interne all’organizzazione criminale siciliana e contribuiranno a svelare la struttura organizzativa dell’organizzazione che, ancora oggi, rappresenta nell’immaginario pubblico la mafia per antonomasia.
Storicizzare la nascita della criminalità organizzata è un’operazione fondamentale per comprendere le mafie contemporanee senza cedere a semplificazioni fuorvianti. La ricerca storica sulla mafia dimostra che le organizzazioni criminali non nascono come tali, ma si sviluppano a partire da particolari contesti storici e continuano a modellarsi in base a specifiche circostanze storico-politiche. In quest’ottica, non si possono ricostruire le origini della mafia senza considerare una realtà analoga ma più antica come la camorra e, al contempo, non è possibile studiare il fenomeno prescindendo dalle narrazioni che lo caratterizzano. In tal modo, ripercorrere le origini delle mafie ci consente di restituire la complessità del fenomeno e di spezzare l’associazione, talvolta evocata, tra la cultura mafiosa e le realtà sociali meridionali.
Podcast consigliato
- Muti, Storie di mafia (https://open.spotify.com/show/7guL2s8Ld6KecNvPhr2P4M)
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Francesco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, Einaudi, Torino, 2015.
- Salvatore Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 1993.
- Dumas, La camorra e storie di altri briganti, a cura di Claude Schopp, Donzelli, Roma, 2013.