CONTENUTO
Il libro di Salvatore Lupo “La mafia. Centosessant’anni di storia” (Donzelli editore) ricostruisce 160 anni di storia della mafia, sia di quella siciliana sia di quella americana che ne è derivata, cogliendone le interferenze reciproche, ed esamina i conflitti tra le cosche, le fazioni e i gruppi affaristici in questa dimensione transcontinentale. Il professore Lupo è uno dei protagonisti di una proficua discussione e colui che, forse più di altri, si è distinto nella florida stagione di studi degli anni Novanta sul fenomeno.
La tesi del libro
Il libro è una sorta di summa di un lavoro pluridecennale, una grande sintesi che non tarda però a proporre una nuova interpretazione: alla base di questo nuovo lavoro si ritiene infatti che “la mafia non solo viene colpita ma anche emerge dal sottosuolo, diviene visibile, quando si propone e viene recepita come problema politico” ed è proprio in quel momento che “gli intellettuali fanno funzionare il loro cervello, i governanti mobilitano i loro poliziotti e […] gli storici hanno le fonti su cui lavorare”. Quando comincia l’interesse storiografico nei confronti del fenomeno mafioso? Proprio nel momento in cui s’innesta quel meccanismo di sfida\risposta allo Stato che produce l’emersione del fenomeno. È allora che “gli intellettuali” fecero funzionare il loro cervello e i governanti mobilitarono i poliziotti.
Egli sfata anche uno dei tanti miti ‘ontologici’ che aleggiano su di lei: ossia, che non si sia mai parlato di mafia e proprio su un patto di omertà essa abbia potuto radicarsi. A ben vedere, la questione è molto più complessa: anzi si potrebbe dire che in centosessant’anni di storia sulla mafia c’è stata una proliferazione di discorsi enormi, tutti ascrivibili alla dialettica che intercorre tra la mafia e l’antimafia. Insomma, tra ciò che emerge e il significato, le ideologie e gli strumenti che si danno per far fronte a questa emersione.
L’intreccio tra interno ed esterno
Il termine «mafia» in Italia è stato riservato più precisamente alla Sicilia sin dal 1863-66, e negli Stati Uniti a partire dal tardo Ottocento. La mafia è stata da sempre rappresentata dagli studiosi come il frutto di una società arcaica, di una cultura antistatale. Scrive l’autore: «La mafia si è quasi contemporaneamente affermata, oltre che in un’area sottosviluppata dell’Europa mediterranea, nel luogo ideale della modernizzazione planetaria. Si basa su un’ibridazione transatlantica, su un incrocio culturale minaccioso eppure affascinante» (p. X).
Una tradizione interpretativa e un gran numero di fonti storiche ci dicono che la forza della mafia sta nell’intreccio tra interno ed esterno, nella fitta rete in cui le sorti degli affiliati si intersecano con quelle dei non-affiliati, in una logica di mutua protezione e di reciproco interesse.
Sotto questo profilo, essa non può essere studiata e neppure capita se non in rapporto con l’antimafia istituzionale e della società civile. Questo legame consente di considerare i successi della mafia e le sue stesse sconfitte come punti di osservazione utili per cogliere la storia. Ciò vale per l’America, a proposito dell’emigrazione italiana, del proibizionismo, del New Deal, e vale allo stesso modo per l’Italia di fine Ottocento, del fascismo, o del secondo dopoguerra, fino ad arrivare agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e alla complessa vicenda che portò agli assassini dei giudici Falcone e Borsellino.
Il maxiprocesso di Palermo ha rappresentato una delle sconfitte più gravi subite dall’organizzazione criminale mafiosa. Il contraccolpo fu di portata storica: istituzioni e società civile si mobilitarono come mai era accaduto, assestando a Cosa nostra colpi micidiali. I successi riportati in Sicilia e in America sul fronte del contrasto hanno, dunque, fortemente indebolito il fenomeno, tanto che la fase di emergenza può considerarsi conclusa. Di lì è partita una nuova fase, che l’autore definisce “sommersione” per rinuncia a forme di violenza.
L’elemento transcontinentale
Riprendendo temi già affrontati in altri lavori egli integra ora i due aspetti del fenomeno, il siciliano e l’americano, mettendo in luce la loro correlazione organica. L’elemento transcontinentale, con il suo gioco di scambi e rispecchiamenti da un lato all’altro dell’Atlantico, costituisce il filo conduttore del libro. Il suo impianto, invece, ruota attorno al meccanismo di sfida/risposta, secondo cui la mafia viene avversata quando diventa visibile: è questo il momento in cui la si percepisce e riconosce come problema politico. Solo allora essa acquista uno statuto di esistenza ufficiale, condizione indispensabile per isolarla concettualmente e colpirla.
La documentazione, tanto vasta quanto composita (fonti di polizia, atti giudiziarie parlamentari, relazioni di Commissioni d’inchiesta e allegati, resoconti giornalistici, autorappresentazioni di mafiosi…), e la bibliografia aggiornata sorreggono una ricostruzione complessa, che coglie continuità e cesure del fenomeno in stretto rapporto con le cornici politico-istituzionali, sociali, culturali, italiane e statunitensi.
Se un vasto campionario di biografie assicura all’analisi una solida base empirica, il confronto con schemi e modelli delle scienze sociali estende l’orizzonte interpretativo. Nel complesso, Lupo compie uno sforzo di sintesi senza precedenti, fornendo un quadro della materia ricco di indicazioni metodologiche e spunti di ricerca, destinato a rimanere un punto di riferimento per studiosi, operatori di giustizia e più vasto pubblico. Chiude il libro un’interessante riflessione su memoria e antimafia, ossia su come una parte dell’opinione pubblica fatichi a lasciarsi alle spalle quel tragico passato.
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La mafia. Centosessant’anni di storia di Salvatore Lupo