CONTENUTO
“La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale” di Nicolangelo D’Acunto (Carocci editore) analizza lo scontro politico tra il Papato e il Sacro Romano Impero, durato dall’XI secolo fino al 1122, anno della firma del Concordato di Worms.
Il motivo da cui era scaturito lo scontro derivava dalla prerogativa, reclamata sia dal Papa sia dall’Imperatore, di investitura episcopale (la scelta e nomina dei vescovi). Il vero oggetto del contendere risiedeva tuttavia nell’affermazione della supremazia tra il potere temporale, rappresentato dall’Imperatore, e il potere spirituale, rappresentato dal Papa. La controversia fu determinata dalla preminente influenza a mano a mano assunta dall’imperatore nella promozione dei chierici alle dignità ecclesiastiche, alle quali invece secondo le norme canoniche dovevano essere designati soltanto mediante libera elezione dal clero e dalla comunità dei fedeli.
Una trasformazione profonda
Il presente volume mette in discussione i grandi quadri interpretativi entro i quali la storiografia del Novecento aveva cercato di ingabbiare il periodo compreso tra il sinodo di Sutri del 1046 e il Concordato di Worms del 1122. Vuole verificare se è preferibile parlare non di una ma di molte riforme, non di un processo unilineare corrispondente ad una precisa strategia del papato, bensì di una pluralità di orientamenti per nulla concorrenti alla definizione o addirittura ala realizzazione di un programma.
Ciò nonostante, il passaggio dal primo al secondo millennio segnò di fatto una trasformazione profonda, una svolta, per certi versi una vera e propria rivoluzione per nulla pianificata eppure tangibile nei suoi effetti anche nella lunga durata.
Il dato più eclatante in sede storiografica del Concordato di Worms è l’impossibilità per la quasi totalità dei vescovi di ricevere i poteri civili che per secoli avevano determinato il loro protagonismo istituzionale e il loro inserimento nei gangli essenziali dell’organizzazione regia. Il vescovo andava così assumendo una fisionomia sempre più dimensionata sui suoi compiti pastorali, a scapito delle funzioni militari e politiche che lo avevano per secoli impegnato all’interno della Chiesa a guida regia.
Distinzione tra sfera temporale e sacrale
Tale crescente separazione delle funzioni e del genere di vita di chierici e laici rientrava in un più generale processo di distinzione della sfera temporale da quella secolare, che costituiva l’esito più notevole della lotta per le investiture. Anche l’affermazione del celibato dei sacerdoti e la clericalizzazione della ricchezza della Chiesa, ormai sottratta al controllo laicale, rientravano in questa tendenza fondamentale della civiltà occidentale, che trovava il suo tratto peculiare nella desacralizzazione del potere politico.
La forza inedita con cui fu affermata la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena, consentiva alla Sede Apostolica di realizzare in sé stessa e di assorbire l’universalità dell’Impero, divenendo l’arbitro della legittimità di ogni potenza terrena. Questo mondo nuovo era il risultato più evidente e clamoroso della rivoluzione del secolo XI.
Dall’osservazione della riforma del papato apprendiamo che una riforma può essere il risultato completamente inatteso di interventi progettati e pianificati con obiettivi del tutto opposti. Il concetto di eterogenesi dei fini è utile infatti per descrivere una riforma nata per rafforzare il papato nell’Impero, che si risolse in una riforma del papato contro l’Impero.
Una rivoluzione medievale
Nella tradizione storiografica europea l’identità dell’Occidente viene considerata come il risultato delle rivoluzioni dell’età moderna. In realtà uno dei tratti costitutivi della nostra civiltà, la separazione tra dimensione politica e dimensione sacrale, che la distingue dalle altre due presenti nel bacino del Mediterraneo, quella bizantina e quella islamica, fu consumata proprio nel secolo XI e rappresenta il risultato più eclatante della cosiddetta lotta per le investiture o riforma ecclesiastica o, come si diceva all’inizio del Novecento, “riforma gregoriana”.
Questa convulsa e complessa trama di avvenimenti politico-militari e religiosi, accompagnata a una fitta produzione di testi propagandistici, determinò in effetti un cambiamento sistemico nell’Occidente medievale che possiamo tranquillamente definire come l’esito possibile di quella che per noi è una rivoluzione.
La percezione del cambiamento
Diventa fondamentale capire se coloro che vivevano nel secolo XI avessero o no la percezione di questo cambiamento rivoluzionario. Per il medioevo esiste prima di tutto un problema di “dicibilità”, di “narrabilità” del processo rivoluzionario, in quanto ogni progettualità oggettivamente innovatrice andava nascosta sotto il velo della re-formatio, della riforma intesa come ritorno a una forma, a un modello precedente considerato oggettivamente migliore, essendo ogni cambiamento avvertito come intrinsecamente negativo.
Arriviamo dunque al paradosso che la rivoluzione non fosse tanto invocata dai protagonisti del processo rivoluzionario per legittimare il proprio operato (come invece sarebbe avvenuto nelle rivoluzioni moderne), quanto piuttosto dai loro avversari, che usavano il carattere eversivo di quello stesso processo per delegittimare chi lo aveva realizzato.
Allora quella che per noi è la rivoluzione va cercata non tanto nelle fonti prodotte o in qualche modo riconducibili a chi quella rivoluzione aveva pensato, voluto o realizzato, quanto piuttosto in quelle prodotte dai suoi nemici, che cercavano di trarre vantaggio dal disvelamento dell’altrui progetto rivoluzionario e dalla denuncia del suo carattere eversivo rispetto all’ordine del mondo voluto da Dio. In altri termini le fonti medievali intenzionalmente nascondono la rivoluzione molto più di quanto la raccontino.
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La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale (998-1122) di Nicolangelo D’Acunto