CONTENUTO
La vita di Kurt Gerstein. Eroe o complice?
Kurt Gerstein nacque a Münster l’11 agosto 1905, sesto in una famiglia di sette figli. Il padre Ludwig è giudice, la madre Clara Schmemann discende da famiglie di imprenditori e commercianti. Una famiglia borghese di ascendenze prussiane dominata dalla figura paterna. La cultura e l’etica del magistrato è quella tipica dei funzionari prussiani, ordine e disciplina. Scriverà al figlio sotto le armi:
«Tu sei un soldato, un funzionario, e devi obbedire agli ordini dei tuoi superiori. La responsabilità è di chi dà gli ordini, non di chi li esegue. Non può esserci disobbedienza».
L’educazione impartita da Ludwig è autoritaria e punitiva. Kurt non è remissivo, è vivace, il più difficile dei ragazzi, i suoi rapporti con la famiglia e il padre sono spesso fonte di tensioni. A scuola è indisciplinato e irriverente, il profitto è scarso, ma ottiene ugualmente la licenza liceale e nel 1925 si iscrive a ingegneria all’università di Marburgo. Passato alle scuole politecniche di Aix-la-Chapelle e Berlino-Charlottenburg, nel 1931 si laurea ingegnere minerario.
L’educazione paterna e l’estrazione familiare hanno lasciato un segno nel nazionalismo acceso che Kurt nutre sin dagli anni universitari, vicino a quello dei tedesco-nazionali, il partito cui apparteneva il padre, ostile alla Repubblica democratica nata a Weimar e nostalgico della potenza imperiale tedesca. Entra così nella Teutonia, una delle associazioni studentesche più nazionaliste. Ma sulla sua formazione è già intervenuta la religione.
Il rapporto con Dio non nacque in famiglia, dove l’adesione alla religione era un fatto formale di disciplina sociale. Le abitudini goliardiche delle associazioni studentesche non lo soddisfano, la ricerca di un significato alla sua esistenza lo spinge al confronto con il problema di Dio, un’autorità assoluta garante di disciplina morale. Il suo Dio sarà sempre un Dio terribile, incombente e punitivo, molto simile a quello dell’Antico Testamento.
Dal 1925 fa parte di associazioni di studenti cristiani del frammentato protestantesimo tedesco. Diventa dirigente dei circoli giovanili e dei Circoli biblici. L’insoddisfazione verso il materialismo è espressione dell’inquietudine della gioventù tedesca degli anni Venti e in Kurt trova una risposta in una rinascita morale, premessa di quella nazionale, garantita dalla fede religiosa tradizionale. Il mondo protestante, intriso di nazionalismo e diffidenza verso la repubblica, accolse all’inizio con favore, come gran parte della società tedesca, l’affermazione nazista nel 1933, vista come una rinascita patriottica dell’ordine tradizionale. Non sorprende che Kurt nel maggio del 1933 si iscriva al NSDAP.
Il partito nazista toglierà presto la maschera e Kurt lo guarderà in faccia. La sua adesione era condizionata: Dio e patria, ma non intende sacrificare il primo alla seconda. La politica antireligiosa nazista investirà presto anche il mondo protestante, gran parte del quale chinerà disciplinata il capo nella Chiesa evangelica del Reich, quella dei “cristiani di razza ariana”. Una frazione minoritaria ma non irrilevante resiste e dà vita alla Chiesa confessante. Kurt già nell’estate del 1933 è consapevole della politica antireligiosa nazista, legge e condivide Karl Barth. La sua adesione alla Chiesa confessante guidata dal pastore Martin Niemöller è immediata.
Il regime punta all’inquadramento dei giovani nella Gioventù hitleriana. In dicembre Baldur von Schirach, capo della Hitler-Jugend, annuncia lo scioglimento dei circoli della gioventù evangelica e la loro integrazione nella Gioventù hitleriana, concorde il vescovo della Chiesa del Reich nominato da Hitler, il vescovo Ludwig Müller. Gerstein, dirigente di spicco dei circoli, scrive con altri a Schirach per manifestare la propria «costernazione»; da solo firma un altro telegramma più duro a Müller dove parla di «pugnalata, vergogna e tristezza». L’opposizione di Gerstein è netta, ma ancora circostanziata, perché accompagnata dalla ribadita fedeltà agli ordini del Führer, che viene prudentemente escluso dalle critiche. L’opposizione è limitata ancora alla politica religiosa del regime.
Ma presto, al linguaggio ambiguamente ossequioso, seguono fatti espliciti. Nel gennaio 1935, Gerstein è protagonista di una clamorosa protesta pubblica al teatro di Hagen durante una rappresentazione di ispirazione anticristiana organizzata dalla Gioventù hitleriana, interrompendo dalla prima fila la rappresentazione davanti a membri del partito in uniforme che reagiscono picchiandolo e ferendolo.
Alle lezioni di Bibbia che continua a tenere, non esita a invitare i giovani cristiani a lasciare la Hitler-Jugend e a denunciare il «nuovo paganesimo» anticristiano. Ma le contestazioni hanno ormai superato l’ambito religioso, aveva già biasimato, nei giorni dell’assassinio di Engelbert Dollfuss in Austria, i piani pangermanici del nazismo perseguiti con delitti. L’etica di Kurt, fondata su una fede intransigente, cominciava a mettere in discussione l’adesione politica al nazismo.
L’opposizione di Kurt Gerstein al nazismo
L’appuntamento con la Gestapo è inevitabile. Alla fine di settembre del 1936, durante una perquisizione nella sua abitazione, vengono rinvenuti opuscoli proibiti della Chiesa confessante. Arrestato, viene liberato dopo sei settimane ed espulso dal partito nazionalsocialista. Tuttavia, in novembre inizia i ricorsi per essere riammesso, con un’abiura di acceso lealismo al partito e a Adolf Hitler. Una contraddizione che può spiegarsi con le pressioni familiari, del padre e di due suoi fratelli, accesi nazionalsocialisti, ma anche con la persistente ambiguità di un giovane tedesco del tempo, combattuto tra la propria identità religiosa e quella patriottica, la lealtà “prussiana” allo Stato.
Il peso delle autoritarie tradizioni familiari e il suo sentimento nazionalista, non contrastato dal protestantesimo del tempo, si facevano ancora sentire. Né si può escludere la preoccupazione professionale: dopo l’arresto ha perso l’impiego alle miniere statali ottenuto un anno prima, nel momento in cui sta per mettere su famiglia, è fidanzato da un anno con la figlia di un pastore, Elfriede Bensch, che sposerà nell’agosto del 1937, la famiglia si arricchirà di tre figli.
Si trasferisce a Tubinga dove inizia studi di medicina e teologia. Non abbandona l’impegno religioso, tiene lezioni e scrive opuscoli che, benché di esclusivo contenuto religioso, gli attirano nuovamente le attenzioni della Gestapo che lo arresta con altri nel luglio del 1938 con la bizzarra accusa di complotto per la restaurazione della monarchia. Seguono sei settimane tra la prigione di Stoccarda e il campo di concentramento di Welzheim, dai quali esce provato nel fisico e nello spirito. La sua situazione personale è divenuta precaria, ha speso molte risorse personali nell’attività religiosa, è senza impiego. Confesserà di aver pensato al suicidio.
A questa data, la posizione della Chiesa confessante è ormai precaria. Gli arresti degli aderenti sono numerosi, Niemöller è in carcere. La posizione di Kurt nel 1938, con il regime all’apogeo in campo internazionale e interno, è spiegata in una lettera del novembre a uno zio negli Stati Uniti. Nel suo spirito «totalitario» (questo il termine letterale usato) il nazionalsocialismo vuole dominare completamente l’uomo ed estirpare ogni legame con Dio. Nel campo religioso il regime «ci mena per il naso dal 1933» e il «signor Hitler» guida personalmente questa offensiva antireligiosa. Pone il dilemma:
«Il popolo tedesco, la gioventù tedesca, devono essere istruiti alla fede in Dio o devono credere soltanto alla bandiera rossa, al sangue, ai confini, alle razze? Bisogna insegnargli che chi esercita la giustizia ne deve essere pienamente autorizzato dal giudice supremo e ne risponde davanti a lui? Oppure il diritto è “ciò che serve al popolo”, è un semplice affare di opportunità, e la stessa giustizia è una prostituta dello Stato?».
Ammette che la sua resistenza ha avuto cura di non prendere di mira il nazionalsocialismo politico, riconosce successi del governo nazista, le opere pubbliche, la lotta alla disoccupazione, apprezzati all’estero, dove però non si avvertono le «tragedie che si verificano dalla parte della libertà di pensiero, della libertà religiosa e della giustizia». La lettera mostra come la logica di Kurt, con maggiore o minore consapevolezza, sia ormai incompatibile con quella di un regime “totalitario”. Kurt confida allo zio di essere nel mirino del regime, un terzo arresto significherebbe «la mia morte» e sonda la disponibilità dello zio ad ospitarlo in America nel caso estremo di una fuga dalla Germania, in attesa di trovare un impiego di ingegnere minerario all’estero.
Intanto, è il padre Ludwig che si è attivato presso funzionari del tribunale del partito per ottenere la riabilitazione del figlio. Ludwig è certo spinto dal dovere paterno di aiutare il figlio a reinserirsi nella società e nel lavoro, ma cerca anche di correggere l’anomalia di un oppositore del nazismo in famiglia. Gli sforzi di Ludwig hanno parziale successo, nel giugno del 1939 il partito derubrica l’espulsione in “dimissioni”. Kurt con l’appoggio del magnate Hugo Stinnes trova in luglio un impiego in una miniera di potassa a Tubinga dove resterà due anni. Il 1° settembre la Germania invade la Polonia.
La guerra ravviva il sentimento patriottico. Anche Kurt manifesta intenzioni collaborative. Il suo atteggiamento non è diverso da quello di molti tedeschi che accantonano i sentimenti personali quando ritengono la patria in pericolo. Inoltre, Kurt non ha mai nascosto i suoi sentimenti nazionalisti, benché conciliati con la fede religiosa. Infine, l’atteggiamento della Chiesa confessante lo facilita, essa segue la tradizione della Chiesa evangelica tedesca di allinearsi allo Stato in caso di guerra, per di più il regime ha ora allentato la sua politica antireligiosa, una tregua funzionale alla guerra. La decisione di Kurt di arruolarsi non sorprende. Sorprende la scelta del corpo dove si arruola, scelta che cambierà il corso della sua vita.
La scelta di Kurt Gerstein
Un dramma familiare aveva colpito la famiglia Gerstein. La cognata Bertha Ebeling, ricoverata per disturbi nervosi, era morta all’ospedale psichiatrico di Hadamar, probabilmente uccisa nell’ambito del piano di soppressione di disabili fisici e psichici, lanciato dal regime nel 1939. Condotto in gran segretezza, con i decessi diagnosticati con malattie comuni (polmonite, problemi cardiaci, epidemie), esso era in realtà di dominio pubblico in Germania, aveva suscitato proteste di religiosi evangelici e sarà sospeso dopo il sermone di denuncia del vescovo cattolico di Münster von Galen dell’agosto 1941.
Bertha Ebeling venne interrata il 20 febbraio 1941, alla famiglia era stata comunicata la morte per epidemia e consegnate le ceneri dopo una cremazione d’autorità. Fu Kurt a informare i familiari che anche Bertha era incappata nello stesso destino assassino. Nello stesso tempo, Kurt informava i familiari e gli amici pastori evangelici della sua decisione di arruolarsi nelle SS per vedere e combattere le cose dal didentro, una sorta di calata all’inferno per denunciare il suo orrore, al quale si aggiunge ora lo scopo di smascherare gli assassini di Bertha. Questa motivazione verrà confermata nel suo rapporto del 1945 e negli interrogatori con le autorità francesi. Alcuni documenti attestano che egli aveva chiesto l’arruolamento già nel dicembre o addirittura nel settembre del 1940. Comunque sia, il 10 marzo 1941 Kurt Gerstein viene arruolato come ufficiale nelle SS.
La motivazione resta alquanto insolita: o straordinariamente coraggiosa sino all’azzardo suicida o ingenuamente utopistica come scatto più emotivo che consapevole. Inoltre, nell’interrogatorio del giugno 1945 con l’inquirente francese, Gerstein dichiarò che egli era riuscito a entrare nelle SS nonostante i precedenti arresti perché aveva «semplicemente» accettato la proposta fattagli dalla Gestapo durante il suo secondo arresto. Il giudice non insistette per chiarimenti, la risposta è rimasta oscura.
Può darsi che la Gestapo gli abbia dato un suggerimento per riabilitarsi e mettersi al sicuro con il regime, una sorta di ricatto pendente sulla sua testa per arruolare un elemento qualificato. Forse, Kurt sfruttò quella proposta, ma finalizzata al suo scopo personale.
Le ambiguità precedenti verso il nazismo possono trovare una spiegazione nel sentimento nazionalista di Kurt, che favorisce l’equivoco nazista, i riavvicinamenti successivi trovano una spiegazione nelle pressioni familiari e nelle necessità pratiche della vita, lo stesso arruolamento volontario in guerra è proprio di tanta gioventù patriottica che si arruola con la patria in guerra e non con il nazismo.
Proprio per questo la scelta del corpo ideologico del regime appare difficile da spiegare alla luce del passato di Kurt come anche della consapevolezza acquisita sulla natura “totalitaria” del regime. Tuttavia, la spiegazione di assumere la missione di combattere “i demoni” dall’interno, che ci appare così inverosimile, può forse trovare una spiegazione proprio nella storia di Kurt e nel suo tempo storico.
I temperamenti ispirati da forti tensioni come quella religiosa e a un tempo insoddisfatti della meschinità del loro tempo sono portati alla ricerca di un significato della loro vita che può trovarsi in una missione anche disperata, in un eroismo che non esclude il sacrificio della vita per un fine più elevato della vita stessa. Ciò ancor più sentito in situazioni estreme come la guerra o momenti storici di intensa drammaticità. Kurt risolve l’inquietudine esistenziale comune a tanta parte della gioventù tedesca con la missione della testimonianza contro il male in nome di Dio, il viaggio all’inferno per svelarne gli orrori.
Se l’arruolamento nelle SS resta il momento meno chiaro del percorso di Gerstein, la storiografia ha invece confermato con testimonianze e documenti il seguito.
La discesa agli inferi di Gerstein
Per la sua formazione chimica e gli studi di medicina viene assegnato al servizio sanitario delle Waffen-SS, il suo compito è curare la disinfezione e i filtri dell’acqua per la truppa e i campi di prigionia. Viene promosso tenente e capo dei servizi di disinfezione. L’incontro con i demoni che intende smascherare è vicino ed è peggiore di ogni immaginazione.
Nell’agosto 1942, l’SS-Obersturmführer Gerstein viene incaricato di una missione segreta, l’acquisizione di 100 kg. di acido prussico (acido cianidrico). Decide di rifornirsi alla fabbrica di Collin vicino Praga. La destinazione finale del carico è conosciuta solo dall’autista del camion. È così che si ritrova in Polonia, nella sua prima e decisiva discesa agli inferi, in due campi dove le camere dello sterminio sono già installate, Belzec e Treblinka, dove lo accompagna il capitano Christian Wirth, l’ex responsabile del piano di eutanasia dei disabili fisici e psichici.
A Belzec assiste all’uccisione nella camera a gas di numerosi gruppi di ebrei con l’ossido di carbonio prodotto da un motore diesel. Il metodo è lento, l’organizzatore dei campi, Odilo Globočnik, comandante delle SS a Lublino, gli spiega il nuovo compito: «Migliorare il servizio delle nostre camere a gas, occorre un gas più tossico e di più rapido effetto». L’acido prussico, appunto. Usato allo stato liquido come disinfettante, allo stato gassoso è volatile e altamente tossico. Nell’immediato, Gerstein riesce a interrare la partita che ha appena portato, con la scusa del deterioramento dei contenitori.
Il servizio incaricato di ordinare l’acido prussico per la disinfezione è il servizio sanitario della Wehrmacht, ma le Waffen-SS di fatto possono procurarsi per conto proprio l’acido senza sottostare alle priorità della Wehrmacht. Provvede l’Ufficio igiene delle SS, diretto da Joachim Mrugoswski. Nel suo ambito, l’ufficiale incaricato di sovrintendere all’acquisizione e distribuzione tecnica dell’acido prussico è il capo del servizio disinfezione, l’SS-Obersturmführer Kurt Gerstein. Ecco perché in quei giorni Gerstein si ritrova in Polonia, dove accerta con i suoi occhi che ora non è più solo disinfezione, ma sterminio.
L’alternativa è drammatica: rifiutarsi, disubbidire a un ordine, farsi fucilare, senza alcuna utilità, poiché altri avrebbero assolto il compito? Dimettersi, disertare, cioè fuggire e tacere davanti al male? L’SS-Obersturmführer Gerstein sceglie di rimanere in servizio per sabotare e denunciare dall’interno lo sterminio. Inizia la tragedia dell’uomo Gerstein: complice del male per combattere il male, testimone d’accusa di un male unico nella storia dell’umanità. Già al momento della partenza per Lublino aveva intuito, dalla quantità della fornitura, che essa non fosse destinata a soli usi di disinfezione:
«Compresi, grosso modo, la natura della mia missione. Ma l’accettai. Quello stesso giorno io credo che un caso, che stranamente somiglia alla Provvidenza, mi abbia dato la possibilità di vedere quello che cercavo di conoscere. Io potevo sabotare l’impiego dell’acido prussico per l’assassinio di esseri umani».
Il richiamo a un intervento divino sembra rivelare come Kurt nutrisse la convinzione che quella fosse la missione affidata alla sua vita terrena. Gerstein accetta l’incarico, conosce l’acido prussico, le sue esigenze di conservazione e i rischi di decomposizione, farà valere queste caratteristiche per non autorizzare l’uso di varie partite e giustificare l’ordine di interramento di alcune forniture o per stornarle verso esclusivi usi di disinfezione.
Gerstein provvede al compito con ordinazioni di Zyklon B, nome commerciale dell’acido prussico prodotto dalla ditta Degesch. Si fa intestare le fatture personalmente, ufficialmente per segretezza, in realtà per gestire in autonomia le partite, non le paga per non lasciare traccia nella contabilità di ufficio di quelle che storna, addirittura per non recapitarle ai campi o interrarle. Ma non tutte queste azioni riescono.
Ordinativi di Zyklon B da lui fatti giungono a destinazione nei campi dove sono istallate camere a gas, dove esso è usato sia per la disinfezione sia per lo sterminio. Tra questi c’è anche Auschwitz. Sono partite modeste, il grosso è ordinato direttamente dall’ufficio di Mrugowsky, Gerstein ha compiti tecnici. Tuttavia, nonostante il suo impegno per destinare con varie motivazioni l’uso a fini di disinfezione, non è escluso che parte delle sue stesse ordinazioni sia stato usato a fini di sterminio. Kurt lo sa, sa di poter essere stato complice del male. Questo il suo quotidiano dramma personale.
Ma la sua missione, oltre al sabotaggio, è già diventata un’altra: “dare l’allarme al mondo”.
Kurt Gerstein: la missione di una vita
Gerstein inizia subito dopo il ritorno da Belzec la sua segreta azione di denuncia dello sterminio. In modi diversi contatta funzionari di legazioni di paesi neutrali. Il barone von Otter, segretario della legazione svedese, benché scettico su un SS che gli fa simili rivelazioni, invia a Stoccolma un rapporto che il governo svedese, per non compromettere i rapporti con la Germania, tiene riservato fino al 1945, quando riferirà in un memorandum al governo inglese le informazioni ottenute da von Otter (il rapporto è andato perduto). L’addetto stampa della legazione svizzera Hochstrasser è informato da Gerstein nel giugno del ’44. Gerstein informa anche un amico e collega, l’ingegnere olandese Ubbink, che passa le informazioni a Cornelius van der Hooft, membro della resistenza olandese, che nel marzo del ’43 ne fa rapporto a un agente di collegamento con Londra.
Alcuni amici e pastori della Chiesa confessante sono tra i primi ad essere informati, data l’antica conoscenza, consuetudine e fiducia reciproche. Tra di essi è informato Otto Dibelius, vescovo della Chiesa confessante, di fatto capo dell’opposizione evangelica al nazismo. Gerstein riserva particolare impegno ai contatti con la Chiesa cattolica. Si reca personalmente alla nunziatura apostolica a Berlino per chiedere un incontro con il nunzio Orsenigo, ma quando egli dichiara di essere un militare, l’incontro è rifiutato e viene allontanato.
È ipotizzabile il sospetto della nunziatura che possa essere una provocazione delle SS, benché alquanto bizzarra in quel modo così scoperto, ma è la neutralità ufficiale del Vaticano che pesa sul rifiuto di contatti con parti in guerra. Nondimeno, Gerstein cerca un’altra via e contatta il coadiutore del vescovo cattolico di Berlino Preysing affinché questi possa informare il papa.
Tutti questi contatti non hanno esito, nessuna delle parti contattate da Gerstein interverrà. Esse erano già informate tramite altre fonti di quello che accadeva agli ebrei. Le informazioni di Gerstein erano al più una conferma, forse ai loro occhi neppure la più rilevante, benché essa provenisse dall’interno della macchina genocidaria nazista o forse proprio per questo, non conoscevano bene la fonte per verificare la sua attendibilità.
La posizione di Gerstein è ormai assai precaria, il suo è alto tradimento, il pericolo di essere scoperto costante, dati i numerosi personaggi ai quali ha rivelato lo sterminio. I numerosi testimoni che confermeranno nelle deposizioni del dopoguerra i contatti con Gerstein descriveranno un uomo trasfigurato nel fisico e nell’animo, precocemente ingrigito, tormentato dai sensi di colpa, dalla snervante azione clandestina in solitudine, dai timori per la famiglia, tenuta comunque all’oscuro, con la cerchia di amici diminuita di coloro che non hanno compreso la sua scelta di arruolarsi nelle SS e lo considerano un rinnegato.
Ma nello stesso tempo ormai immerso in quella che considera la sua missione sulla terra, «fermamente persuaso – come dirà un amico che lo vide nel settembre 1942 – di dover compiere una missione in una situazione storica straordinaria… non conosceva altro motivo di preoccupazione al di fuori della causa che aveva fatto sua». È malato di diabete, ricoverato a Berlino, a Helsinki, gli amici che lo visitano a casa lo trovano spesso a letto, stanco e depresso, il pensiero del suicidio è ricorrente, lo frenano i principi religiosi e la volontà di terminare la sua missione. Invecchiato dal dramma interiore, dopo anni trascorsi in costante allarme e di snervante simulazione, giunge esausto alla fine della guerra.
La morte di Gerstein
Il 26 marzo 1945 Gerstein lascia Berlino e raggiunge la famiglia a Tubinga. Il fronte è ormai vicino, il 22 aprile si consegna al comandante francese di Reutlingen, che lo accoglie bene e lo pone in semilibertà, con il solo obbligo di presentarsi alla gendarmeria francese una volta al giorno. Gerstein redige un rapporto in francese dove descrive ciò che ha visto a Belzec e riporta notizie raccolte nel suo lavoro. Lo consegna a due ufficiali, un americano e un inglese, con alcune fatture della ditta Degesch. Il momento di completare la missione di informare il mondo è giunto. Kurt è ottimista, è convinto di riuscire.
Agli inizi di giugno, una svolta poco chiara. Trasferito prima a Costanza, convinto di essere presto liberato come testimone dei crimini nazisti, viene invece trasferito a Parigi in una prigione della Sûreté, poi agli inizi di luglio al carcere militare di Cherche-Midi. Non è più un testimone, ma un criminale di guerra, ai francesi interessano le sue attività in Francia in quanto ufficiale delle SS “in contatto con molti SD” (agenti del servizio di sicurezza delle SS), è indagato per complicità in assassinio.
I francesi non compresero la singolarità del caso Gerstein. In fondo, avevano davanti un ufficiale del corpo militare tedesco più fanaticamente nazista, i suoi racconti apparivano nel loro orrore inverosimili, in un momento in cui gli inquirenti non avevano particolareggiate informazioni sullo sterminio degli ebrei. Il 4 luglio esce su France-Soir un articolo di Geo Kelber sulle confessioni di Gerstein agli inquirenti francesi. Esso conferma l’incomprensione, era intitolato: Un documento esplosivo. Un boia dei campi confessa: “Ho sterminato fino a 11.000 persone al giorno”.
Per il giornale, e forse non solo, era solo un boia simulatore intento alla propria difesa. Il giornalista avrebbe potuto sospettare di essersi imbattuto in un caso singolare dalle stesse affermazioni di Gerstein riportate nell’articolo: «Mi assumo la responsabilità delle mie confessioni davanti a Dio e agli uomini… Che il cielo mi aiuti…». Nessun SS ha mai accompagnato le deposizioni sui propri crimini, quando non negava, con l’implorazione accorata e disperata di Dio e del suo aiuto. Ma in quei tempi era difficile avere una tale sottile capacità di distinzione.
Il carcere è di per sé duro per un fisico provato come quello di Kurt, cibo scarso e cattivo, condizioni igieniche pessime, in cella è da solo, ma sono stanze senza luce né finestre, ricorda la prigionia a Welzheim nel 1938. Ma lo choc per Kurt è un altro: non è creduto, la missione della sua vita, condotta con tanto rischio e sofferenza, morale prima che fisica, è fallita. Il 25 luglio 1945 Kurt Gerstein viene trovato morto nella sua cella, il medico legale referta la morte come suicidio per impiccagione.
Le circostanze della morte non sono del tutto chiare e resta l’ipotesi di un assassinio per punire un traditore da parte di altri militari tedeschi, forse anche SS, detenuti nel carcere. Ai primi di giugno il suo nome era uscito come fonte degli stermini in camere a gas nei lager tedeschi. Il 4 luglio era uscito l’articolo su France-Soir. Le sue rivelazioni erano ormai pubbliche, probabilmente note anche ad altri prigionieri. Tuttavia, l’ipotesi del suicidio resta la più probabile, coerente con tutto un percorso, con lo stato fisico e psichico di Gerstein in quel luglio e soprattutto con la percezione di una vita sconfitta.
Distrutto fisicamente e psichicamente da anni di attività rischiosa e clandestina in totale solitudine, a rischio della vita propria e della famiglia, annientato dalla convinzione del fallimento della sua missione di riscatto, con il solo bagaglio dei sensi di colpa che la sua fede non gli risparmia, Kurt ha trovato la forza di vincere i propri valori religiosi e suicidarsi. Il senso di inutilità della sua missione spiega ampiamente la scelta del suicidio. Forse, diciamo forse, ha voluto anticipare l’incontro con il suo Dio, un Dio giustiziere, dal quale cercare l’ascolto che non ha trovato tra gli uomini, per anticipare la sentenza sulla sua vita, misericordia per i suoi peccati o castigo per essere sceso a patti con il demonio sia pure per combatterlo.
Forse, non aveva più interesse per la giustizia degli uomini, aveva fretta di conoscere quella divina, del suo Dio, un Dio severo. Forse, aveva fretta di sapere se avrebbe compreso le sue ragioni e l’avrebbe perdonato, solo Lui, in fondo, poteva dirgli se aveva fatto bene o male.
Kurt Gerstein: una figura controversa
Kurt Gerstein è una figura controversa. La critica negazionista ha contestato la veridicità del rapporto Gerstein del 1945, facendo valere imprecisioni, inverosimiglianze e discrepanze tra le varie versioni (quattro in francese, due manoscritte e due dattiloscritte, di cui una firmata; due in tedesco, dattiloscritte). Tuttavia, con la critica del singolo documento (il rapporto del 1945) essa non dice e non spiega nulla dell’intera vicenda di un ufficiale tedesco che già nel 1942, con la Germania ancora vincente sui vari fronti, diffonde le stesse informazioni sui crimini nazisti poi messe nel rapporto, rischiando la vita sua e della famiglia.
La comunità scientifica non accoglie il salto logico negazionista tra inverosimiglianza/imprecisione di un particolare e falsità di un intero documento, in quanto non consequenziario ma tendenzioso, basato sul postulato, come tale indimostrato, errore=menzogna. Essa riconosce il rapporto Gerstein come una delle fonti dell’Olocausto e ha riscontrato con testimonianze e documenti la notizia “essenziale” del rapporto: la testimonianza oculare dell’uccisione nell’agosto 1942 a Belzec di numerose persone in una camera a gas.
Inoltre, ha integrato l’indagine filologica del documento con altre fonti documentarie, con le testimonianze, con la ricostruzione del contesto, sia documentario (autore e destinatario, momento e condizioni della stesura), sia storico, cioè il percorso precedente dell’autore. L’ampliamento dell’indagine ha consentito di ricostruire l’azione di denuncia dei crimini nazisti e delle camere a gas svolta da Gerstein tra il 1942 e il 1945, confermata nel dopoguerra dalle testimonianze di coloro che avevano incontrato Gerstein in quegli anni.
La corte di denazificazione di Tubinga nel 1950 riconobbe l’azione clandestina di Gerstein durante la guerra, con la quale egli «ha fatto atto di resistenza e ha corso gravi rischi», ma lo dichiarò ugualmente colpevole per non avere abbandonato il servizio e non aver preso consapevolezza dell’inutilità della sua azione solitaria.
Giudicare “eroe” Gerstein significava ammettere una possibilità di opposizione al regime nazista e condannare un intero popolo che aveva rinunciato a essa; per contro, dichiarare inutile la sua azione forniva una giustificazione all’atteggiamento passivo del popolo tedesco di fronte allo sterminio. L’assoluzione di Gerstein avrebbe smentito il tipico alibi dei complici e dei passivi, “non si poteva fare altrimenti”. La sua azione dimostrava che si può sempre fare altrimenti.
Gerstein venne riabilitato nel 1965 dal ministro-presidente del Baden-Württemberg Kurt Kiesinger (futuro cancelliere). Nel 1963 il dramma teatrale Il Vicario di Rolf Hochhuth riscoprì e rivalutò la vicenda di Gerstein, nella quale trovò ispirazione per il suo atto d’accusa contro il “silenzio” del Vaticano. Nel 2002 il regista Costa Gavras ha ripreso la vicenda di Gerstein nel film Amen, meno incisivo del dramma di Hochhuth, ma concorde nelle conclusioni.
La Commissione dei Giusti di Yad Vashem (l’Ente per la memoria della Shoah di Gerusalemme) ha rifiutato nel 1997 di discutere il caso Gerstein e la possibilità di riconoscergli il titolo di Giusto tra le Nazioni. È comprensibile che in Israele non si potesse porre accanto alle vittime della Shoah un uomo che vestendo l’uniforme delle SS aveva procurato, sia pure poco e in parte, lo strumento che le uccise. Tuttavia, sono stati autori ebrei a riscoprire la vicenda di Gerstein e giungere a conclusioni di comprensione del suo dramma personale, se non di riconoscimento morale.
Saul Friedländer, scrittore e professore ebreo, studioso dell’Olocausto, concluse nel suo libro sulla vicenda di Gerstein, in riferimento alla sentenza della corte di de-nazificazione:
«Si oppose l’“innocenza” di coloro che assistettero passivamente al delitto alla “colpevolezza” di colui che, per resistere, dovette fino a un certo segno scendere a patti con il delitto. Ma questo compromesso è proprio di tutta l’opposizione in seno a un sistema quale il nazismo: per resistere agli ordini criminali del regime nazionalsocialista, bisognava agire “dall’interno” e qualche volta prender parte all’esecuzione di quegli ordini. Che in tali condizioni la distinzione tra il bene e il male sia divenuta almeno in parte più sfumata, che colui che resisteva abbia potuto sembrare vicino al boia, è questa l’ineluttabile conseguenza della condizione umana nel quadro di un sistema totalitario.
Ma lo spettatore passivo del crimine è a sua volta innocente? […] Il vero dramma di Gerstein è stato quello di trovarsi solo nella sua azione. Il silenzio e la completa passività dei tedeschi, l’assenza di qualunque reazione da parte degli alleati e degli stati neutrali, o per dir meglio dell’intero Occidente cristiano di fronte allo sterminio degli ebrei, fanno di Gerstein un personaggio altamente tragico, chiuso in un cerchio invalicabile di solitudine e di incomprensione: come i suoi appelli erano stati senza eco, così il suo sacrificio apparve “inutile” e divenne “colpevole”».
Queste conclusioni ovviamente restano aperte alla discussione, la vicenda di Kurt Gerstein non è priva di chiaroscuri. Inoltre, essa riporta al centro questioni ancora discusse, l’inerzia degli alleati, il “silenzio” del Vaticano, la passività se non complicità del popolo tedesco. Soprattutto, comunque la si giudichi, essa rende precaria ogni interpretazione, perché dimostra la problematicità della storia, dominata dal grigio e non dal facile bianco e nero, esattamente come la natura del suo protagonista, l’uomo.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Saul Friedländer, L’ambiguità del bene. Il caso del nazista pentito Kurt Gerstein, Bruno Mondadori, Milano 2002 (1a ed. francese, Kurt Gerstein ou l’ambiguïté du bien, Casterman, Paris 1967.
- Joffroy, La spia di Dio: la passione di Kurt Gerstein, Massimo, Milano 1972 (1a ed. francese, L’espion de dieu: la passion de Kurt Gerstein, Éditions Bernard Grasset, Paris 1969).
- Leon Poliakov – J. Wulf, Le III Reich et les juifs, Gallimard, Paris 1959.
- Leon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino 2003 (1a ed. francese, Breviaire de la haine. Le IIIe Reich et les juifs, Calmann-Lévy, Paris 1951).
- Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998.