CONTENUTO
Quando i segnali di riavvicinamento tra le sorelle latine sembrano maturi; il caso dei sequestri dei pescherecci francesi Carthage e Manauba riapre il contenzioso. I governi Giolitti e Poincaré chiudono la questione, malgrado l’occupazione dell’Italia della Libia riapra le polemiche con l’Action Française ed i cattolici conservatori. La polemica con i Governi centrali consente la fine della neutralità nella Grande Guerra e l’alleanza con l’Intesa.
Ma il patto di Londra è senza la Francia. L’Istria e Fiume, il Fascismo al potere, la simpatia della Francia per l’URSS, la comune Resistenza ai Nazifascisti malgrado la dichiarazione di guerra del 1940 e la prospettiva europeista; costituiscono tutti i motivi di chiusura e riapertura delle relazioni politiche e culturali.
L’affare Carthage e Manauba, un motivo inatteso di frizione (1912), e l’avvicinamento fra Giolitti e Poincaré
Al momento in cui il riavvicinamento fra Parigi e Roma sembra cosa fatta, un fulmine precipita sul campo appena seminato. E’ l’affare dei pescherecci francesi Carthage e Manauba, colti da navi navi da guerra italiane nel Golfo della Sirte, in acque ora libiche ma all’epoca turche, proprio durante la Guerra di Libia (gennaio 1912). L’accusa è il trasporto abusivo di armi all’esercito turco su mandato dell’Action Française ufficialmente dalla parte ottomana.
Una nota scatena la sinfonia antitaliana che serpeggia nell’opposizione clericale e nazionalista che ambiguamente parteggia per l’Impero della Porta contro il colonialismo ormai fuori moda e retrogrado, per non dire straccione come lo dirà Robert Michels, il sociologo socialista italo-tedesco che stigmatizza nel 1914 l’impresa libica e che Romain Rolland, campione dell’amicizia con la Francia, tenterà di stemperare coinvolgendo Giuseppe Prezzolini in nome della sorellanza latina.
Violenta fu la reazione nazionalista di Corradini sul Mattino di Napoli. Come si vede, il dibattito interno fra esponenti politici e culturali pompieri ed incendiari è aspro. Il socialista Salvemini, alla tesi che il colonialismo italiano può contenere l’immigrazione italiana oltre oceano e che la Libia può essere la fonte per un nuovo balzo in avanti per la produzione agricola ed industriale perché possiede spazi e risorse ancora non sfruttate; risponde che sarebbe più opportuno migliorare la realtà interna alquanto precaria a sud, dove l’esempio dell’acquedotto pugliese e la legge urbanistica di Napoli hanno fatto scuola.
Sgonfiatasi il caso del trasporto abusivo di armi per l’intervento pacificatore dell’ambasciata francese che consente la scarcerazione dei fermati componenti degli equipaggi delle due navi da carico, senza che si avvii a Cagliari un processo penale a loro carico per spionaggio; rimane una certa polemica sulla stampa avida all’epoca – ma non non minore oggi per eventi sulla immigrazione clandestina fra i due Paesi alla frontiera di Ventimiglia – spesso sollevata fra il 1913 ed il 1914 dalla solita opinione pubblica destrofila, i cui autorevoli membri non smettono di punzecchiare la scelta espansionista francese nel Mediterraneo contro l’Italia.
Per esempio, il noto classicista Albert Daurat non cessa di criticarla, quasi costituisca una manifestazione vicaria della Germania Imperiale pronta ad influenzare il sud dell’Europa. Accusa che il ministro tedesco Bernhard von Bülow, in occasione di una verifica diplomatica dell’operatività della Triplice Alleanza (febbraio del 1914), non respinge chiaramente. Anche perché la influenza italiana in quel mare sarebbe il giusto contrappeso all’alleanza anglo-franco-russa (l’intesa cordiale del 1904) in funzione positiva per la pace in Europa, dopo il pericoloso conflitto fra la lega balcanica e l’Impero ottomano fra il 1912 ed il 1913.
Nel suo saggio storico e politico Bernhard von Bülow scrive: come un marito tollera qualche giro di valzer della moglie durante le feste di Corte, ma che non può sopportare un’eccessiva frequenza di quel ballo troppo ravvicinato. Così anche una nazione alleata si può aprire al blocco avversario, ma con prudenza. E dunque se l’Italia può sperare un giorno a Trento e Trieste, non deve danzare troppo con i rivali del marito. Di qui, l’invito alla prudenza dopo il caso della Libia, cercando di non forzare la Triplice con accordi sotto banco con i Paesi Occidentali e con la Russia, il cui Panslavismo non può marciare accanto al Pangermanesimo.
Il Panlatinismo del resto riappare nella cultura italiana, come nel caso dello storico Giuseppe Sergi che nel 1914 osserva l’esistenza di una razza mediterranea peculiare, ben diversa dal ceppo ariano biondo e dagli occhi azzurri, attribuiti da Tacito alla razza germanica. Il Sergi, in una conferenza a Roma – in armonia ai dettami del maestro Cesare Lombroso sottolinea l’autonomia della specie mediterranea, dall’Egitto a Roma e ne segnala la loro grandezza storica. Sergi la nega ai barbari del nord, non solo perché questi hanno un cranio concavo ed i popoli del sud sono dotati di un cranio convesso, ma anche una innata fantasia poetica e letteraria assente per secoli nelle lande del Nord.
Le maligne teorie razziste ci sembrano dunque un ulteriore elemento causale della tremenda deflagrazione del 1914 e che oggi dovrebbero essere meglio riesaminate nella individuazione di ciò che accadrà fra poco. Sicuramente il colpo di pistola a Sarajevo rimette in moto il processo di riavvicinamento con le tre Potenze dell’Intesa, violando così la clausola di neutralità or ora segnalata.
L’occupazione della Libia e le critiche dell’Action Française. Il Pan-latinismo contro il Pangermanismo ed il Panslavismo. Il Patto di Londra (aprile 1915) e l’assenza della Francia
La scelta di Giolitti – e della classe liberale progressista, da Amendola ad Orlando – di mantenere la neutralità dopo l’ultimatum alla Serbia per effetto dell’attentato di Sarajevo – fu al principio giustificata da un senso di preoccupazione subito calmierata dall’adozione della clausola difensiva della Triplice Alleanza, secondo cui l’obbligo di intervenire favore di due paesi alleati – Germania ed Austria/Ungheria – scatta solo se aggrediti.
L’ultimatum predetto e l’aggressione alla Russia, alla Francia ed alla Gran Bretagna precede ogni intervento cooperativo, mentre Giolitti crede che la mancanza di un fronte meridionale per Vienna possa essere la chiave per ottenere senza colpo ferire Trento e Trieste, le terre di lingua e costumi italiani che ancora restano fuori dall’unità del paese. Cattolici, Socialisti e Liberali progressisti intavolano tentativi con il Governo austriaco per barattare la neutralità con quelle aree piene di Irredentismo, non è tanto diversa da quella componente nazionalista slava della Bosnia Erzegovina austriaca che fa fuoco a Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono asburgico di Francesco Giuseppe, e che sempre plaude all’influenza russa.
Un gioco a tre corre nelle più segrete sedi diplomatiche di Italia, Vienna e Berlino: Giolitti e San Giuliano, ministro degli esteri, von Bülow, emissario del Kaiser Guglielmo nel ruolo di mediatore e Berchtold per l’Austria, testardamente antislavo. Attività incompatibili con l’omologo russo Aleksandr Petrovič Izvol’skijed, autore dell’ultimatum zarista che minaccia una reazione militare nell’eventuale aggressione austriaca alla Serbia. Si incontrano, si scontrano, raggiungono compromessi che poi si sfaldano rapidamente. Nove mesi di discussioni senza punti fermi e con il nuovo Ministro degli esteri Sonnino nel governo Salandra, succeduto a Giolitti, peraltro suo fido esecutore, già in sostituzione per la morte improvvisa del pacifista Sangiuliano il 16.10.1914. Certo è che il lavoro diplomatico del precedente governo avrebbe guadagnato vite e acquisito i territori italiani agognati.
Ma l’indifferenza del Berchtold, piuttosto interessato a fermare il Panslavismo, fortissimo sul fronte orientale, la mancanza di pazienza dei nuovi negoziatori italiani – specie del Sonnino che è notoriamente legato alle banche d’affari inglesi – e finalmente l’aumentare delle pressioni di piazza dei nazionalisti capeggiati da D’Annunzio, nonché dai socialisti dissidenti interventisti guidati dal giovane Mussolini che crede nella guerra come in un movimento che risvegli il Paese dal torpore conservatore; sono tutte concause che spingono il Presidente Salandra ed il Ministro degli Esteri Sonnino a firmare un Patto di alleanza con le tre Potenze dell’Intesa, violando così la clausola di neutralità or ora premessa, peraltro costituendo una prova di inaffidabilità che ci verrà rinfacciata da Hitler l’8 settembre del 1943.
Inoltre l’assenza della Francia alle trattative segrete intavolate a Londra non mancherà di riaccendere diffidenze e polemiche nel 1919 a Versailles, quando sul tavolo della Pace i francesi si oppongono recisamente alla concessione di colonie ex tedesche all’Italia, senza contare la loro freddezza nella notissima vicenda di Fiume. Un evidente fautore di questo complotto interventista di parte francese fu Camille Barrère, ambasciatore a Roma fin dal 1900 e già rappresentante degli interessi del Presidente Poincaré e della classe dirigente radicale guidata dal Clemenceau, che prima si oppone alle tendenze antisemite durante l’affare Dreyfus; e poi si attesta sulla pretesa di buona parte della borghesia laica industriale a riaprire la partita perduta con la Germania imperiale a Sedan anche a costo di una nuova guerra.
Una forma di degenerazione del nazionalismo antipangermanista che ha come campioni i nuovi astri nascenti dell’Action Française, Charles Benoist e Julien Luchaire. Costoro nei citati mesi di neutralità influiscono sulla tendenza democratica interventista, tanto che Amendola, Prezzolini e Salvemini cedono alla lusinga della guerra a fianco dell’Intesa sul presupposto che la guerra non è solo uno strumento di potenza, ma anche un’arma democratica per il compimento delle nazionalità e per favorire i partiti nazionalisti dell’est europeo con cui commerciare nelle future organizzazioni internazionali economiche dopo la Pace.
Singolare è la tesi dell’ambasciatore italiano a Londra esposta a Lord Grey, capo del governo inglese, che nel gennaio del 1915 prospetta una quarta guerra di indipendenza, come lo sono state quelle del 1859 e del 1866. D’altro canto, i fratelli Garibaldi – nipoti del Generale – organizzano una brigata italiana di volontari sul fronte occidentale approvata dal governo francese; mentre Giolitti è messo in minoranza in piazza, ma resta forte in Parlamento.
Nessuno gli dà ascolto nella primavera del 1915 sul fatto che l’ondeggiamento del Governo Salandra sta consentendo all’Austria di piazzare artiglierie sui monti ai confini austriaci, senza contare la preoccupazione del socialista Modigliani che una guerra in quelle zone sarebbe stata pagata a caro prezzo umano, come poi avverrà nel 1916 e nel 1917. Singolare analogia di pensiero col giovane Antonio Gramsci, che sulle colonne dell’Avanti riecheggerà il socialista francese Jaurès, che il 31.7.1914, il giorno prima della mobilitazione generale revanscista, invoca la pace e cercherà l’alleanza coi socialisti tedeschi in nome della unità spirituale dei popoli europei, unica via per garantire la loro sicurezza.
La mano che lo ucciderà sarà quella di un’aderente alla Action Française, il cui rappresentante in Italia, il cattolico Melot girerà i circoli popolari del centro-nord italiano per raccogliere consensi all’alleanza con l’Intesa. Nondimeno, il nuovo esponente socialista Jules Destrée, corrispondente del giornale progressista Petit Parisienne non cessa di convincere con successo i socialisti riformisti di Turati per una netta adesione alla guerra, tanto più che il secondo fronte austriaco avrebbe un effetto a catena sul fronte occidentale, perché avrebbe fatto dislocare almeno 600.000 soldati austriaci più a sud sottraendoli al fronte russo e dunque costringendo i tedeschi a mollare il fronte renano.
Così avviene: dal 24.5. 1915 alla primavera del 1918, si sviluppa una lunga fase della Grande Guerra degli storici chiamano di posizione, ovvero di trincea, rispetto a quella di movimento, che si combatterà nella grandi battaglie della Marna in occidente e sul fronte russo fino alla vittoria tedesca dei laghi Masuri nella Prussia orientale nel settembre del 1914.
La questione fiumana e il Fascismo al potere (1922). Il fuoruscitismo italiano e la crisi etiopica (1925-1936)
Il ruolo principale di propaganda filofrancese – fino a provocare nell’agosto del 1916 anche la dichiarazione di guerra alla Germania – rimane quella del citato Luchaire. Questi, insieme allo scrittore e sociologo Guglielmo Ferrero, fondano La Ligue latine de la jeunesse, che dal Marzo 1916 rappresenterà la cultura italo-francese in nome della sorellanza latina, con sedi in numerose città dei due Paesi. Bilanciare e cancellare ogni differenza ed ogni passato dissapore e rinnegare quello stare al di sopra delle parti. Ciò motiva la sinistra socialista a non aderire né sabotare nel secondo semestre del 1914, malgrado ancora si creda nel popolo alla pazienza diplomatica sperata dai tentativi di accordo fra Giolitti e von Bülow.
Invece, Ferrero e Luchaire propagandano l’ideale protoliberale anglofrancese che vuole l’Italia in guerra a fianco dell’Intesa a tutela della libertà dei popoli e delle civiltà. Idea non lontana dall’ideologia di Wilson che sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico proclama la necessità di intervenire per annullare le forze conservatrici che turbano la pace del mondo, ma anche per stabilire il regno laico della giustizia sociale per tutti i popoli oppressi. Sono i famosi 14 punti che vengono esposti al Congresso negli U.S.A. il 2.4.1917, preludio alla entrata in guerra di quel Paese e che saranno fra il 1918 ed il 1919 il centro delle contese fra i quattro grandi vincitori a Versailles.
L’Italia è presto attaccata dalla destra francese che non le perdona la lentezza della dichiarazione di guerra alla Germania, la tendenza espansionista nel Mediterraneo e la sconfitta di Caporetto del 1917 frutto di impreparazione militare. Già dopo i primi incontri a Versailles, non solo riprende la conflittualità fra le due sorelle, ma anche si verificano i primi squilli del prossimo biennio rosso: si pensi alla c.d. sommossa di Torino fra il 22 ed il 28 agosto del 1917, dove la mancanza di rifornimenti di pane, quasi in contemporanea alla visita di una delegazione bolscevica accolta dal popolo al grido di Viva Lenin, produssero una violenta repressione militare con più di 50 morti e 200 feriti, un prodromo per molti della sconfitta di Caporetto del successivo ottobre.
Nondimeno la rivendicazione imperialista coloniale in Africa del nord e nella Somalia, senza contare la domanda annessionista di buona parte dell’Istria fino a Zara, rinfocola la diffidenza mai sopita con la Francia fin dal Patto di Londra del 1915. Pretese che la stampa francese filowilsoniana respinge – per esempio l’articolo del Correspondent a firma di Combes de Lestrade, le programme italienne, del 10.6.1917 – che profetizza negativamente l’esito della guerra in virtù della delusione che proverà l’Italia dal giorno della Pace. Dissidio implicito che verrà fuori proprio alla Conferenza di Versailles nel 1919, quando uno dei cardini del Patto di Londra – la cessione della Dalmazia e di Fiume all’Italia – venne annullato e pertanto Orlando e Sonnino – a loro volta criticati dalla minoranza socialista di Bissolati legata alla Francia di Clemenceau – abbandonano il tavolo della Pace e ritornano improvvisamente a Roma per chiedere al Parlamento il voto di fiducia.
E’ una scelta che ci riporta ad una nuova interruzione coi paesi democratici; per altro con tripudio dei Nazionalisti e di Mussolini, che da allora parleranno di vittoria mutilata, uno dei capisaldi del prossimo partito fascista, anche perché la linea anticolonialista angloamericana appare debolissima proprio perché i francesi e gli inglesi con Winston Churchill in testa, banchetteranno senza limiti sulle ceneri delle colonie tedesche in Africa ed in Medio Oriente. Gravissime sono poi le interruzioni della ritrovata amicizia con la Francia sia la vicenda di Fiume; nonché le paure sul risveglio proletario causato dall’occupazione delle fabbriche, nonché la decadenza della classe dirigente liberale e la crisi economica dovuta all’inflazione posteriore alla pace in tutti i paesi europei.
La reazione dei proprietari agrari al Comunismo sovietico, lo squadrismo fascista e la Marcia su Roma dell’ottobre del 1922, allargano la sfiducia fra le due Nazioni. Invece l‘Action Française, di Paul Maurras nel triennio 1919-1922 plaude all’azione fascista e ne propaganda lo spirito violento antibolscevico, tanto che il francese reazionario Bainville legge la conquista del potere fascista in Italia come modello per il suo Paese, ora attraversato da un analogo moto comunista pericoloso per le libertà borghesi, per le quali l’offensiva fascista costituisce una barriera inevitabile.
Paul Hazard – altro esponente della destra francese – sulla rivista nazionalista Revue des Deux Mondes già nel 1922, da storico dell’Europa moderna, svaluta le paure mediterraneiste e giustificherà il pensiero e liberale filofascista di Prezzolini che vede in Mussolini il nuovo Dante Alighieri. Una nuova grande Potenza ormai è alle porte ed all’interno dell’area moderata dell’opinione pubblica francese emergono reazioni contrarie alla politica estera fascista anche per effetto del primo atto politico in materia, il bombardamento di Corfù (settembre 1923).
In quel mese la flotta italiana per rappresaglia cannoneggia l’isola greca come risposta al governo di Atene che aveva attaccato una missione militare al confine greco/albanese. Benché le celebrazioni del primo anniversario della Marcia su Roma abbiano ricevuto non poche lodi della stampa francese per gli effetti di tamponamento della minaccia bolscevica e per le misure urgenti antinflazionistiche; di fatto buona parte della stampa democratica francese contesta al Governo fascista una politica protezionista, limitatrice della reciproca libertà degli scambi, nonché la diminuzione della circolazione monetaria. Si critica cioè il ripetersi pericoloso delle scelte operate dalla Germania di Weimar che ha avallato la politica socialdemocratica tedesca, piuttosto cieca nel salvaguardare i piccoli risparmiatori, portatori di un consenso diffuso in ambedue le Nazioni.
A questo pericoloso effetto segnalato dal giovane Einaudi, si accompagna l’eccesso di violenza sull’inerme popolazione estranea all’occupazione dell’isola, cosa che alimenta quel senso di sfiducia or ora segnalato. Di qui numerose caricature del Duce sui giornali popolari francesi e prodromica nell’opinione pubblica mondiale alle critiche nordamericane sull’invasione della Grecia nei primi anni dall’entrata nel secondo conflitto mondiale (28.10.1940-23.4.1941).
Del resto l’immagine di Mussolini, come un novello Orlando Furioso, primeggia su Le Populaire, il giornale socialista diretto da Léon Blum. Più realista ed ancora legata alla figura della restaurazione borghese contro lo spauracchio comunista, è però la linea di Maurice Vaussard in merito all’assassinio di Giacomo Matteotti, deputato socialista antifascista, reo per il Duce di avere infangato con false accuse la legalità delle elezioni politiche del 1924, che confermano con un voto popolare sospetto la maggioranza di centrodestra, ottenuta invece a colpi di manganello e di bevute di olio di ricino forzate durante la campagna elettorale.
Sebbene molti cattolici e socialisti moderati approvino comunque l’esito elettorale, peraltro sollevano dubbi però sull’aggressione e la morte violenta di Giacomo Matteotti poco dopo la sua requisitoria alla Camera appena convocata, per mano di una squadraccia fascista col sospetto assai elevato di una tolleranza del Governo e del Mussolini stesso. Intanto, il Vaticano fa sapere per mezzo dell’Osservatore Romano, che l’accusa al Duce è un salto nel buio e che non la crede perché non prova la sua partecipazione al complotto, al rapimento, alla morte ed la successivo ritrovamento del cadavere, la cui autopsia conferma senza ombra di dubbio l’omicidio volontario. La voce dei cattolici moderati francesi è concorde alla tesi di Mussolini esposta nella seduta della Camera del 3.1.1925, quando Questi si assume la responsabilità politica, morale e storica.
Il clima politico si fa caldo nel contesto dell’assassinio del deputato, senza però che Mussolini si chiami fuori esplicitamente dal lato penale. Di tale consenziente autoesclusione puramente giuridica, propria del conservatorismo d’oltralpe, è Maurice Vaussard sulle colonne del Le Figaro del 28.6.1924. Pur sgravando il Duce dalla responsabilità penale, Vaussard è consapevole dei profili affaristici del delitto, tanto che oggi molti storici ritengono come causale del delitto le sue indagini connesse ad atti corruttivi del governo per tangenti pagate dalla società multinazionale Sinclair oil in cambio di concessioni petrolifere nel Polesine, perché sarebbe coinvolto il fratello del Duce Arnaldo.
Tuttavia Vaussard non imputa al capo del nuovo governo alcuna responsabilità volontaria, salvo una colposa lentezza ad epurare personaggi – come uno dei predetti esecutori, Amerigo Dumini, noto violentissimo picchiatore squadrista – ormai incompatibili con la domanda del buon borghese moderato cattolico di abbandono della pratica relazionale politica scorretta, magari temporaneamente illegale, ma necessaria per conservare lo schema formale dello Stato di Diritto sottoposto alla minaccia sovversiva bolscevica. Insomma, a Mussolini qualche scapestrato è scappato di mano… l’episodio di Matteotti è deprecabile, me è un incidente della storia…una legittima difesa contro i nemici dell’ordine….
Difesa che sembra ribadire l’opinione della vecchia classe liberale contro le intemperanze comuniste, pericolose per l’economia e la civiltà europea… cosa che rende Mussolini l’unico uomo di Stato europeo cui occorre dare fiducia (considerazioni riportate dal suddetto articolo del Le Figaro). In realtà il delitto Matteotti – il cui cadavere viene rinvenuto dopo due mesi dal rapimento nell’agosto del 1924 – viene subito seguito da un’ondata di proteste di tutti i parlamentari dell’opposizione francese ed italiana che all’unanimità si astengono dai relativi lavori fino alle conclusioni processuali della vicenda, sperando in un moto popolare di democrazia mai fino ad allora così in bilico.
Si vuole adoperare sulla stampa italiana le figura storica dell’Aventino, il colle di Roma dove nell’età repubblica si suole radunare la plebe in dissenso dai patrizi. Di ambiguo tenore è la testimonianza dello storico e giornalista cattolico progressista Maurice Pernot, che nei suoi resoconti sin dalla Marcia su Roma – raccolti nel saggio L’experience italienne, Paris, 1924 – non ha paura a dichiarare che i romani non mostrano grande entusiasmo e fanno buon viso agli ospiti. Mai colpo di Stato è compiuto con così poche vittime …
Fin dal discorso di insediamento da Capo del Governo del 16.11.1922, Mussolini non si é vergognato di insultare un’aula sgomenta e sorpresa, ma in parte benevola, chiamandola sorda e grigia trasformabile in un un bivacco di manipoli, cosa che il Duce non vuole. Segnale di condiscendenza e rassegnazione che il liberale democratico Giovanni Amendola, dopo l’affare Matteotti, cercherà di rovesciare appellandosi alla coscienza popolare per ristabilire lo stato di Diritto violentato dalla Marcia su Roma e dall’omicidio politico del Matteotti.
Contemporaneamente, il vecchio socialista Turati, nell’aderire allo spirito democratico del collega, in nome della legalità democratica chiede al partito comunista d’Italia di fede bolscevica, di non adeguarsi e di non rimanere un fantasma che continui a sedere negli scranni vuoti della Camera, perseguendo un astensionismo formale privo di rilievo pubblico, incapace di chiuderne le porte. Così non avviene, perché quel partito adotta una politica di immediata resistenza, proponendo inascoltato una reale opposizione nel luogo più sacro della Nazione, come farà il Parlamento Spagnolo nel 1975 minacciato di essere sciolto con la forza dagli ultimi Franchisti.
Sia come sia, il Duce e la sua classe dirigente ne approfittano: dopo la proclamazione di responsabilità morale del Duce (3.1.1925) dell’evento Matteotti, segue rapidamente la cancellazione ufficiale delle leggi liberali: queste vengono progressivamente sostituite dalle cc. dd. leggi fascistissime, un Corpus Juris Civilis che codifica la completa eliminazione dei diritti civili, di tutte le istituzioni politiche e sindacali, delle autonomie locali e della separazione dei poteri dello Stato, vale a dire uno Statuto del Totalitarismo, ancora per usare la definizione onnicomprensiva dello stesso Amendola sul Il mondo del 28.1.1923, nel contesto su un articolo su Cavour.
Leggi reazionarie che provocheranno la fuga di non pochi esponenti politici in Francia e che faranno di Parigi la capitale politica alternativa dell’Italia. A Roma invece assistiamo ad una serie impressionanti processi politici e di internamenti e confini in remote aree della Nazione, ma anche di scarsa resistenza popolare alle persecuzioni politiche piuttosto legate alla diffusione di stampa clandestina eversiva – per esempio il foglio clandestino Non mollare diffuso a Firenze da G. Salvemini, E. Rossi e P. Calamandrei – e a progetti editoriali a Parigi del famoso periodico di Piero Gobetti.
La Rivoluzione liberale, idea non realizzata appieno perché Questi morirà nel febbraio del 1926 dopo svariate privazioni e pestaggi che ne ledono la debole costituzione fisica. Esito non dissimile per l’Amendola, malmenato a Montecatini nel marzo dello stesso anno. Anche qui è opportuno aggiustare l’angolo di osservazione: è vero che fra il 1923 ed il 1930 non pochi antifascisti si trasferiranno in Francia ed a Parigi per continuare alla luce del sole la resistenza contro il tiranno nel silenzio colpevole e rassegnato delle masse popolari; ma è anche vero che il governo francese degli anni ’20, moderato e centrista, poco fa per sostenere gli esuli nella loro classi ricerca di casa e lavoro.
Esemplare è l’esodo clandestino di Filippo Turati, accompagnato dal giovane Sandro Pertini, che narra un viaggio pieno di insidie e peripezie, verso la libera terra di Francia: …. Ah, Turati…ora tu stesso vedi da questo primo approdo quanto preziosa potrà essere la tua presenza all’estero (così annota il Pertini nel volume di memorie Trent’Anni di storia italiana, La fuga di Filippo Turati, a cura di F. Antonicelli, Torino,1975). Infatti, il Pertini non otterrà l’iscrizione ad avvocato all’albo professionale francese pur essendo già abilitato in Italia e quindi dovrà fare per molti anni il muratore a Marsiglia.
E non pochi episodi vedono protagonisti Francesco Saverio Nitti, che tiene congressi antifascisti nella sua bella casa di Boulevard de La Tour-Maubourg a Parigi aperta anche ad altri fuoriusciti, come il conte Mihály Károlyi, esule dell’Ungheria del rosso Béla Kun; oppure Gaetano Salvemini, che a Parigi nel 1927 in una pensione di Rue Madame, accanto al Palazzo del Lussemburgo, vive a casa proprio del filosofo fascista Luchaire, addirittura scambia opinioni col direttore del Popolo d’Italia, Giuseppe Donati, pure lì in esilio. Luogo insospettabile dove il polemico storico pugliese non cessa di spettegolare sul comune nemico De Bono, mentre egli stesso conferma al direttore che l’intero suo archivio su Cesare Battisti per fortuna non è stato vandalizzato dalle bande ignoranti di giovani fascisti che hanno invaso il suo studio fiorentino per arrestarlo come collaboratore del foglio clandestino Non Mollare.
La resistenza italiana e francese al Nazifascismo (1939-1945). La prospettiva Europea (1946-1947)
Ma qui occorre fare anche un breve cenno agli anni ’30 dove la passione e la lotta antifascista di una schiera indomita di intellettuali si rivolge contro il governo autoritario italiano adottando un’ampia libertà di stampa mai così efficace. Non si può mancare quindi di menzionare uno studioso coerente quanto poco conosciuto, salvo che per essere stato genitore di un valentissimo sindacalista degli anni del Boom italiano, Silvio Trentin, padre appunto di Bruno Trentin, sindacalista, politico e grande combattente nella brigata partigiana Giustizia e libertà.
La vita del padre Silvio è emblematica per la storia delle relazioni diplomatiche culturali fra i Paesi in esame dopo il 1926 e fino alla fine della seconda guerra mondiale. Spicca al riguardo il tiepido accoglimento della famiglia nella provincia Occitana, che si intreccia col rinnovato interesse politico antifascista assunto dal Governo socialista negli anni ’30. Silvio socialista, deputato della corrente di Matteotti, docente universitario, come tanti intellettuali ostili al Regime arriva con la famiglia lungo il fiume Garonna, poco distante da Tolosa. Bracciante e poi operaio presso una tipografia di provincia, di comune accordo con la società di operai e contadini della Garonna.
Silvio mantiene la fede socialista appresa e sviluppata da Arturo Labriola, che gli ha insegnato la didattica del marxismo e che attua in modo perfetto rivolgendosi nella lingua popolare locale alle masse di braccianti ed operai lungo le terre della Garonna, territorio non a caso patria del cattolicesimo popolare di Jacques Maritain.
A Tolosa conosce un suo compagno d’ideale, legato a Jaurès, il poeta Camille Soula che gli propone un’iniziativa che farà storia nei rapporti fra le due nazioni, l’apertura di una libreria a Rue de Languedoc. Sono gli anni dal Patto francese-sovietico di mutua assistenza con la Russia di Stalin (2.5.1935) e del Fronte Popolare (1936-1938), quando alla Politica estera di ravvicinamento all’URSS in funzione antinazista si accompagna un Governo dove la politica antifascista si caratterizza per sostenere le attività formative e culturali dei tanti esuli meno abbienti che non cessano di opporsi alle ideologie totalitarie occidentali.
Fanno parte di quel Governo il Partito Comunista sia di scuola Leninista che Troschista, nonché radicali, repubblicani e socialisti, il cui leader Léon Blum presiede un Governo unitario delle Sinistre. E’ il 1934, anno della predetta alleanza popolare, ma che poi si dissolverà per contrasti interni nel 1939 malgrado lo scoppio della guerra con la Germania nazista, evento che vede una nuova partecipazione unitaria per il rischio di invasione contemporanea da sud e da ovest.
In realtà alle soglie dell’entrata in guerra è emersa una domanda di Umanesimo integrale da parte di Maritain ed il cattolicesimo sociale di Mounier presenti nella rivista Esprit, che propone alle masse contadine di provincia una terza via personalista, non capitalista, né comunista, scelta popolare che costituisce un fervido precedente per il futuro processo di unificazione europea, dove il Cristianesimo sociale rappresenterà il terreno di comunione fra masse cattoliche e socialiste. Ma poi esce Fascismo e grandi capitali del troschista Guérin, attestato su linee massimaliste, nonché il saggio del liberale Ortega y Gasset, che profetizza la crisi del liberalismo nella raccolta di scritti La Ribellione delle masse, che lo scrittore Canetti riprenderà qualche anno dopo nel distopico Massa e potere.
In questo contesto Silvio Trentin prosegue nella sua attività di guida del citato circolo librario sociale, liberale e cristiano ad un tempo, in ottica antifascista, dove dialogano le idee democratiche allo scopo di accendere il fuoco antitotalitario. E’ la voce vivente del metodo non violento contro la oppressione instaurata dai Regimi totalitari. Docenti, professionisti, operai, agricoltori, in modo interclassista, analizzano la logica totalitaria, leggono e commentano la realtà europea, divenendo un punto di confronto sui grandi temi esteri dell’epoca, dalla guerra di Spagna – ivi comprese raccolte di fondi ed aggregazioni di volontari per la guerra civile – alla campagna contro la guerra d’Etiopia, fino alle manifestazioni a favore del Governo Popolare per la tutela del lavoro e della occupazione, oltreché delle istituzioni democratiche e delle azioni a difesa delle comunità ebraiche, aggredite dalle contemporanee legislazioni antiebraiche nazifasciste.
Nondimeno, la libreria – il cui ruolo fu di fatto tanto importante quanto casa Nitti a Parigi – diviene sempre di più un polo di attrazione democratica che in quegli anni difficili di conflitto sociale trova un’Action Française in difensiva per effetto della condanna Vaticana del 1926, ma che nel 1933 riprende lo spirito antiparlamentare sfruttando la corruzione politica scoperta dal forte scandalo finanziario del banchiere Stavinsky. Ma le accese discussioni in circoli e conferenze – e la libreria della Linguadoca è la sede più naturale della domanda di democrazia partecipativa – porta all’aggressione del Presidente dimissionario Blum avvenuta durante le esequie dello storico conservatore Bainville (1935).
Per cinque anni il giornale dell’Action appare fieramente però avverso alla guerra e resta in polemica contro ogni esule sia da Roma, sia da Berlino o da Mosca. Finché nell’estate del 1940, la resa della Francia di Petain, offre all’Action la possibilità di collaborare direttamente con l’invasore tedesco. Dal canto suo la libreria di Silvio rimarrà fin al 1942 la base di un movimento di resistenza francese guidato proprio dall’italiano Trentin. Da lì il pensiero europeista di Mounier travalica i limiti politici nazionali per acquisire un carattere europeo.
Il primo foglio clandestino italo-francese Libérer et Fédérer, uscito il 14 luglio 1942 – ora depositato al Museo della Resistenza e della deportazione dell’Alta Garonna – edifica un nuovo futuro per l’Europa. Proprio fra il 1942 ed il 1945 i Padri dell’Unità Europea, il citato Mounier, l’italiano Altiero Spinelli ed il belga Robert Schuman, lettori e commentatori della rivista del Trentin, espongono la loro idea di Unità Europea fondata sulla comune cittadinanza fra i Popoli. Le loro proposte saranno fondamentali dopo la Pace di Parigi del 1947 e saranno fondamentali per avviare il processo di Unità Europea aggregando altresì la Germania federale di Konrad Adenauer.
Bibliografia:
- Sul riavvicinamento fra Italia e Francia di inizio ‘900, per la Francia le biografie di RAYMOND POINCARE’ e GEORGE CLEMENCEAU nella collana I protagonisti della Grande Guerra, ed. Sole 24/ore, nr. 10 e n.16/2014. Per l’Italia, vd. Le memorie di Vittorio Emanuele Orlando, Rizzoli, Milano, 1960 e F.S. NITTI, La Pace, 1926.
- Sulla Politica della Triplice Alleanza e prima di Sarajevo nell’ottica delle Potenze Centrali, vd. EDMOND VERMEIL, La Germania contemporanea, ed. Laterza,1956.
- Sulla Francia fra la due guerre, vd. M. SILVESTRI, La decadenza dell’Europa occidentale, vol. III, Einaudi, 1979, pagg. 337e ss.
- Sulle relazioni di amicizia e di pari resistenza al Nazi-fascimo, vd. la figura emblematica di Silvio Trenin, cfr. NOBERTO BOBBIO, Ricordo di Silvio Trentin, Venezia ed. Ed. So-Steni, 1955.
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- M. Silvestri, La decadenza dell’Europa occidentale, vol. III, Einaudi, 1979.
- Frank Rosengarten, Benedetta Carnaghi, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Ronzani, 2021.