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Come demoni sputati dal Tartaro: le invasioni mongole del XIII secolo in Europa orientale
Ormai signore indiscusso di tutti i Mongoli e impegnato in una guerra con il regno dei Xia occidentali, Chinggis Qa’an (Gengis Khan) inviò nel 1218 degli emissari allo scià corasmiano Ala Al-Din Muhammad II allo scopo di stringere un accordo commerciale col nuovo vicino. Tuttavia, questi, sottostimando il potere militare dei Mongoli, fece giustiziare gli inviati mettendo in moto con questo scellerato gesto una catena di eventi che finì col coinvolgere nella sua scia di sangue e devastazione anche l’Europa centro orientale.
La spedizione punitiva lanciata del Khan dei Mongoli travolse il potentato corasmiano senza lasciargli scampo. Vistosi perso, Muhammad si diede ad una fuga precipitosa, braccato da un piccolo corpo di spedizione al comando dei generali Jebe e Subutai. La fuga dello scià si concluse tragicamente con la sua morte nel 1220 nei pressi del Mar Caspio; la piccola armata mongola, invece, proseguì la sua corsa seminando morte e distruzione lungo il proprio cammino. Jebe e Subutai avevano, infatti, ricevuto da Chinggis Qa’an ampia libertà di manovra e negli anni successivi compirono scorrerie nel Caucaso e nel Califfato Abbaside.
Braccando i Cumani, giunsero infine ad attraversare il fiume Dnestr spingendo i principi russi a mobilitarsi e a rispondere finalmente alle richieste di aiuto dei loro antichi nemici. Nel maggio del 1223 gli eserciti della coalizione russo-cumana si scontarono con il corpo di spedizione mongolo nei pressi del fiume Kalka. Fu un disastro per le forze alleate, come si legge nella Cronaca di Novgorod:
molti perirono e c’erano lamenti pianti e cordoglio in ogni città o villaggio. Questa sciagura ebbe luogo il 31 maggio, nel giorno di San Geremia. E i Tartari ritornarono dall’altro lato del Dnieper, noi non sappiamo né da dove siano venuti, né dove sono tornati a nascondersi; Dio sa da quale luogo li ha inviati contro di noi per i nostri peccati[1]
Durante tutta la narrazione delle vicende legate ai Mongoli la Cronaca mantiene toni foschi e apocalittici. Dalle righe traspare il terrore e lo sgomento provocato negli abitanti dei principati della Rus’ di Kiev da questi implacabili e mortiferi cavalieri spuntati dal nulla, come sputati dal Tartaro, da cui il nome Tartari con cui poi divennero noti nel resto d’Europa. Ironia della sorte l’etnonimo Tartari apparteneva ad una delle popolazioni quasi completamente sterminate da Chinggis durante la sua ascesa, e responsabili, tra l’altro, della morte di suo padre Yesugei.
Lo storico A. A. Lelis sottolinea che, prima della registrazione di questi fatti, solo in occasione del saccheggio di Costantinopoli a opera dei crociati nel 1204 si infrange la caratteristica schematicità delle annotazioni della Cronaca di Novgorod virando su toni drammatici dal sapore biblico dal quale traspare la sensazione di aver assistito al concretizzarsi di un castigo divino. In seguito, questa rottura degli schemi si verificherà solo in due altre occasioni nel 1238 e nel 1240, quando i Mongoli faranno ritorno.
L’eco di questa invasione e degli sconvolgimenti portati dai Mongoli in Asia Centrale giunse flebile e distorta nell’Occidente cristiano, legandosi e confondendosi con la favoleggiata figura del prete Gianni, e avvenne che, citando Le Goff:
il mito del prete Gianni, il misterioso sovrano cristiano posto nel XIII secolo in Asia, nato dalle vaghe notizie raccolte sui piccoli nuclei dei cristiani nestoriani sopravvissuti in Asia, si riflesse sui Mongoli.[2]
La seconda invasione
Intanto, dopo la morte di Chinggis Qa’an, il suo successore, il terzogenito Ögödei deliberò una massiccia campagna contro gli Alani, i Cumani e i Russi. Il comando fu affidato a suo nipote Batu, figlio del primogenito di Chinggis, Joči, affiancato da Subutai. Alla spedizione prese parte un gran numero di principi del lignaggio d’oro, ovvero i discendenti dei quattro figli di Chinggis e della sua sposa principale Börte (Joči, Chagatai, Ögedei e Tolui). Dopo aver regolato la questione con Alani, Bulgari e Cumani, i Mongoli volsero la loro attenzione ai principi russi.
Nel 1237 i principi della Rus’ di Kiev si trovarono di nuovo a dover affrontare la minaccia mongola. Tra i primi ad essere investiti dalla fura distruttrice degli invasori furono gi abitanti del Principato di Rjazan’. La città cadde dopo cinque giorni di assedio, il 21 dicembre e gli assedianti si abbandonarono a stragi e saccheggi. La Cronaca di Novgorod tragicamente annota:
E allo stesso modo uccisero principi e principesse, alcuni di spada altri bruciandoli, violarono le monache, le mogli dei preti, donne e vergini davanti alle madri e alle sorelle. Ma Dio salvò il vescovo poiché questi era partito nello stesso momento in cui i Tartari assaltarono la città. E chi, o fratelli, non dovrebbe affliggersi per tutto ciò, tra quelli che sono rimasti in vita, quando costoro soffrirono una così amara e dura morte? E noi, infatti, avendo visto tutto ciò, eravamo atterriti e ci affliggevamo giorno e notte dei nostri peccati.[3]
Una volta presa Rjazan’ i Mongoli si volsero verso il principato di Vladimir, seminando ovunque morte e distruzione. Assediarono Vladimir dopo averla messa a ferro e fuoco e massacrato gran parte della popolazione, fecero irruzione nella chiesa della Santa Madre di Dio, dove alcuni avevano disperatamente trovato rifugio, trucidandoli sul posto. Per il resto del 1238 i Mongoli provvidero a rafforzare la propria posizione; il 1239 trascorse senza grandi operazioni così come i primi mesi del 1240 per poi riprendere fino alla distruzione di Kiev nel dicembre dello stesso anno.
L’invasione del Regno d’Ungheria
Durante le operazioni di rafforzamento delle posizioni nel 1238 i mongoli attaccarono nuovamente i Cumani che chiesero asilo al re d’Ungheria Bela IV in cambio della sottomissione e della conversione al cristianesimo. Bela accettò la proposta in prospettiva di un’invasione dei Mongoli. Nel frattempo, l’eco delle devastazioni portate in Russia da questo popolo sconosciuto era, di nuovo, giunta anche nell’occidente europeo, e questa gente selvaggia e senza Dio finisce in varie cronache dell’epoca, tutte concordi nel ricercare nelle Sacre Scritture la genesi di questa minaccia. Ad esempio, nella Chronica Majora di Matteo da Parigi possiamo leggere:
la detestabile stirpe di Satana, lo sterminato esercito dei Tartari, eruppe dalla loro patria circondata da monti, e infrante le solide rocce [che li confinavano] come demoni liberati dal Tartaro, così che è giusto chiamarli Tartari, quasi fossero demoniaci, e come locuste coprirono la superficie della terra portando strage e devastazioni fino ai confini orientali, devastandola con fuoco e stragi.[4]
Intanto in Ungheria la penetrazione dei Cumani stava provocando grandi tensioni interne, l’integrazione della popolazione nomade di origine turca con gli ungheresi era difficoltosa, e i tentativi di Bela IV di favorire i suoi nuovi sudditi, non fecero altro che acuire i contrasti preesistenti e indebolire la sua già fragile posizione. Molti, come riporta Ruggero da Torrecuso nel suo Carmen Miserabile, non credevano nella minaccia dei Mongoli.
Alcuni pensavano fossero solo favole, altri ritenevano che fossero storie messe in giro dagli ecclesiastici per evitare di rispondere alla chiamata del papa. Altri ancora credevano che i Cumani si fossero alleati con i Ruteni e che insieme avrebbero devastato l’Ungheria. Soltanto il re Bela sembrava avere contezza della minaccia rappresentata dai Mongoli, ma probabilmente come i suoi feudatari ne sottostimava il potere militare, valutandola alla stregua delle solite incursioni dei popoli delle steppe.
Alla vigilia dell’invasione i Mongoli divisero le proprie forze in tre tronconi con il duplice obbiettivo di accerchiare il territorio ungherese e di proteggere preventivamente i fianchi dell’esercito. La colonna destra al comando del fratello di Batu, Orda, mosse verso occidente e divisa in altre tre colonne attraversò e devastò Prussia e Polonia. Una volta riunitasi si scontrò il 9 Aprile 1241 presso Legnica con un esercito guidato dal duca di Slesia Enrico II sconfiggendolo.
La colonna sinistra che procedeva verso sud, ugualmente divisa in tre tronconi penetrò in Transilvania e si riunì a Csanád senza che avessero incontrato alcuna resistenza. Il corpo di spedizione principale guidato da Subutai e da Batu, invece, penetrò nel paese attraverso la porta Russiae (il passo di Verecke) sconfiggendo le truppe che lo presidiavano il 12 di maggio 1241. Da qui mosse verso Pest dove era attestato Bela IV con i suoi uomini devastando tutto lungo il suo percorso come riporta Ruggero da Torrecuso.
La situazione precipitò ancor di più quando il capo dei Cumani Köten venne ucciso perché ritenuto dai nobili ungheresi in combutta con i Mongoli e responsabile della sventura che si stava abbattendo sulle loro terre. I Cumani a questo punto decidono di ritirarsi in Bulgaria e nel loro percorso devastano e saccheggiano ogni cosa, attaccando anche le truppe che il re stava richiamando al fronte cosicché la sua posizione diventa ancora più precaria.
L’armata di Batu fu intercettata dalle forze del re che avevano lasciato le proprie posizioni, a metà strada tra Pest e Verecke nei pressi del fiume Sajo. Qui i due eserciti si scontrarono l’11 aprile 1241(battaglia di Mohi) con gli Ungheresi che furono pesantemente sconfitti. Lo stesso Bela IV riuscì a scappare con grande difficoltà. Il re ungherese riparato nella parte occidentale del suo regno, oltre il Danubio, approntò delle difese per tentare di difendere quello che rimaneva, mentre i territori ad est e a sud del fiume furono devastati.
Bela chiese un aiuto concreto al papa chiedendogli di promuovere una crociata presso i veneziani che sarebbero stati molto utili alla causa ungherese grazie ai loro balestrieri. Ricevette solo la promessa che chi avesse preso le armi contro gli invasori avrebbe ottenuto la stessa indulgenza di coloro che combattevano in Terra Santa.
Intanto nell’inverno tra il 1241e il 1242 i mongoli attraversarono il Danubio con l’obiettivo di catturare il re fuggitivo piuttosto che occupare il territorio. Bela dopo varie peripezie riuscì a rifugiarsi su un’isola di fronte alla fortezza di Traù sulle coste della Dalmazia.
Qui il corpo di spedizione mongolo messosi al suo inseguimento non potette raggiungerlo e ritornò indietro unendosi alle altre forze che stavano evacuando dall’Ungheria, perché intanto Ogödei era morto e i principi stavano facendo ritorno per partecipare al Kurultai, l’assemblea, in cui sarebbe stato eletto il suo successore.
Cronaca di un massacro: il Carmen Miserabile
Il passaggio dei Mongoli impressionò i cronisti dell’epoca come Tommaso da Spalato che raccontò di come gli invasori devastarono e saccheggiarono l’intera Ungheria. Ma una delle testimonianze più vivide e drammatiche della guerra in tutte le sue fasi è senza dubbio quella di Ruggero di Torrecuso che subì anche il dramma della prigionia presso i Mongoli. Egli, nel suo Carmen Miserabile, si dilunga nel descrivere i momenti più drammatici della guerra e fornisce anche un resoconto sulle tattiche utilizzate dagli invasori. Quello che più colpisce però è la drammaticità e la crudezza con cui descrive le stragi portate dai Mongoli che richiamano nei toni quelli della Cronaca Novgorod:
diedero fuoco agli arredi ecclesiastici, agli abiti canonici e alle persone, alle donne e alle fanciulle che non avevano voluto passare a fil di spada. E così nella domenica della passione i Wacienses patirono il martirio, meritando di avere parte con il signore Gesù Cristo.[5]
O ancora i massacri che seguirono la battaglia di Mohi:
queste stragi li tennero impegnati per due giorni interi, tutta la terra era arrossata dal sangue. E i corpi giacevano per terra così come stanno le pecore e i porci al pascolo o le pietre in una cava.[6]
Da questo punto in poi in un crescendo si dilunga nella descrizione dei corpi abbandonati in acqua o in terra dilaniati dagli animali selvatici e del fetore che infestava l’aria, dei vani tentativi di difesa dei villaggi e delle ville, dei continui massacri, della crudeltà dei Mongoli nell’utilizzare i ruteni e gli ismaeliti come scudi umani, dei saccheggi e massacri. Ma Ruggero non manca sagacemente di notare che:
gli stessi eccidi e l’incredibile ferocia dei mongoli non erano casuali, ma dettati da una precisa strategia: terrorizzare le popolazioni, annichilendone ogni tentativo di resistenza, per cui fecero terra bruciata di tutto quanto non servisse loro nell’immediato.[7]
Da demoni a uomini
Le invasioni mongole del XIII secolo furono vissute dai popoli europei come un evento apocalittico. I vari e “litigiosi” regni in cui era frammentata la cristianità europea non furono in grado innanzitutto di capire e poi di fronteggiare l’onda che li colpì. Nel 1223 trovandosi di fronte ad un invasore sconosciuto e dall’inaudita ferocia, i cronisti dei principati russi associarono i mongoli ai popoli maledetti di Gog e Magog della tradizione giudaico-cristiana o i demoni dell’Apocalisse venuti a punire gli uomini per i loro peccati, storpiandone il nome in Tartari.
Mentre le poche e confusionarie notizie giunte in occidente si intrecciarono con la leggenda del fantomatico prete Gianni o di suo figlio Davide. La stessa lettura apocalittica venne data, sia dai cronisti russi che da quelli occidentali anche alla seconda terribile invasione che dopo aver portato alla caduta o alla sottomissione dei principati russi e alla devastazione di gran parte dell’Europa centrale, arrivò a lambire l’Italia.
A quel periodo risalgono descrizioni più precise di questo terribile invasore ma che comunque indugiano nell’elemento mitologico-religioso, come quella di Federico II riportata da Matteo da Parigi nella Chronica Majora o il Carmen miserabile di Ruggero da Torrecuso. Nondimeno da tutti questi documenti traspare non solo la totale impreparazione della cristianità europea, ma anche come tutti i regni, impegnati a proteggere i propri interessi particolari a discapito degli altri, avessero oltremodo sottostimato la minaccia rappresentata dai Mongoli.
Furono le disposizioni adottate nel 1245 da papa Innocenzo IV, nel tentativo di salvare il salvabile e stabilire un contatto con i Mongoli, grazie al coraggio e allo spirito di osservazione dei missionari che si imbarcarono in questa pericolosa avventura, ad avere l’effetto di squarciare il velo di tenebra e mistero e rivelare il popolo che vi si celava dietro.
In seguito la normalizzazione della situazione, la cosiddetta Pax Mongolica, con i Mongoli che erano divenuti parte integrante dell’agone politico sia in Russia che nell’Europa mediterranea, aprì nuove opportunità di incontro e scambi, sia economici che culturali, e nuovi missionari e mercanti seguirono le orme di quei coraggiosi “pionieri” lasciando ai posteri altre relazioni che andarono a delineare sempre più l’immagine dell’altro, creando a volte nuovi miti che si sovrapposero a quelli sfatati dai primi missionari.
NOTE:
[1] Michel, Forbes, (a cura di) The chronicle of Novgorod 106-1471, pag. 66.
[2] Le Goff, La civiltà dell’Europa medievale, pag. 165.
[3] Michel, Forbes, (a cura di) The chronicle of Novgorod 106-1471, pag.82.
[4]H. R. Luard (a cura di), Matthaei Parisiensis monachi Sancti Albani CHRONICA MAJORA, pag. 76.
[5] Flórián Mátyás, Historiae Hungaricae Fontes Domestici. Volumen IV, pag. 61.
[6] Ibid., pag. 67.
[7] Treccani DBI, Ruggero da Torrecuso.
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- Bertuccioli G., Masini F., Italia e Cina, Roma: L’asino d’oro edizioni, 2014.
- Mascherpa, G. Strinna (a cura di), Predicatori, mercanti, pellegrini. L’Occidente medievale e lo sguardo letterario sull’Altro tra l’Europa e il Levante, Univeritas Studiorum, 2018.
- Messa P., “Un francescano alla corte dei Mongoli: fra Giovanni da Pian del Carpine”, in I Francescani e la Cina 800 anni di storia, Assisi: Edizioni Porziuncola, 2000.