CONTENUTO
L’occupazione della Jugoslavia avvenuta durante la Seconda guerra mondiale viene spesso definita una “guerra a parte” poiché pur essendo inserita nella strategia di Hitler per il controllo dei Balcani e la realizzazione dei suoi progetti espansionistici presenta delle criticità specifiche date dalla presenza di più gruppi etnici nel territorio. Con la guerra civile sviluppatasi a seguito dell’invasione da parte delle truppe tedesche, italiane e ungheresi l’intera regione precipita in una spirale di violenza di cui ancora oggi la storiografia cerca di tracciare le dinamiche.
Il contesto dell’invasione: la Seconda guerra mondiale e la “guerra parallela” di Benito Mussolini
Il 1° settembre del 1939 con l’occupazione della Polonia da parte delle truppe tedesche inizia quello che viene ricordato come il più grande conflitto armato della storia che, dopo la Campagna di Russia (1812) e la Prima guerra mondiale (1914-1918), coinvolge le popolazioni civili nelle operazioni militari in una misura fino ad allora sconosciuta rendendole bersaglio di bombardamenti, rappresaglie, persecuzioni, deportazioni e stermini.
Durante il primo dopoguerra le drammatiche condizioni in cui versa la Germania pongono le basi per l’ascesa del partito Nazionalsocialista fondato da Adolf Hitler che, dopo aver tentato un fallimentare colpo di stato nel 1923, si propone come l’unico capace di risolvere il dissesto economico, ottenendo così un consenso sempre maggiore tanto che, nel 1933, diventa Cancelliere e poi, nel 1934, Presidente della Repubblica sancendo così la nascita del totalitarismo nazista.
Nel 1925 Hitler pubblica il saggio autobiografico “Mein Kampf” scritto durante il periodo di reclusione, in cui espone il suo pensiero politico e delinea il programma del partito. In questo testo possono essere rintracciate le principali cause dello scoppio del conflitto, prima fra tutte la volontà̀ di ampliare i confini tedeschi per soddisfare il bisogno di quello che lui definisce «Lebensraum» ovvero lo “spazio vitale”; per realizzare il «destino storico» la Germania avrebbe dovuto espandersi verso est e quindi invadere la Cecoslovacchia, la Polonia e, successivamente, la Russia.
Per l’attuazione del progetto espansionistico tedesco è centrale la posizione dell’Inghilterra in quanto Neville Chamberlain, alla guida del governo dal 1937, ripone molta fiducia nella politica dell’appeasement basata sul presupposto che i progetti di Hitler possano essere “domati” accontentandolo nelle sue richieste più̀ “ragionevoli”. Il presupposto anche se errato riscuote molto successo nell’opinione pubblica inglese non solo per le tendenze tipicamente pacifiste ma anche per lo scetticismo riguardo l’equità̀ dei trattati di Versailles, punitivi nei confronti della Germania, che Hitler vuole vanificare.
Questa linea politica e il disinteresse delle potenze democratiche durante la guerra civile in Spagna porta ai primi clamorosi successi del Fuhrer ovvero l’Anschluss (annessione) nel 1938 dell’Austria al Reich tedesco in quanto paese natale di Hitler e, dopo i trattati di pace di Monaco di Baviera, l’annessione del territorio cecoslovacco dei sudeti in quanto di origine tedesca.
Ma nemmeno la pace di Monaco ferma l’avanzata tedesca, nel 1939 Hitler invade la Boemia, il territorio più̀ popoloso e sviluppato della Cecoslovacchia e stipula due patti di alleanza: il primo denominato “Patto d’acciaio”, firmato il 22 maggio, chiarisce in modo definitivo il rapporto tra l’Italia e la Germania dopo il patto “Asse Roma-Berlino” già̀ avvenuto nel 1936 e il secondo, il “Patto Molotov-Ribbentrop”, stipulato il 13 agosto con la Russia, prevede la non-aggressione tra le due potenze e la spartizione della Polonia che effettivamente avviene con molta efferatezza (ricordiamo ad esempio il “Massacro di Katin”) dopo la sua occupazione in sole tre settimane.
Secondo alcune interpretazioni Mussolini avrebbe potuto rifiutarsi di sottostare alle clausole del Patto d’acciaio a causa della mancata comunicazione dell’accordo con la Russia (definito infatti patto segreto) e della mancata consultazione prima dell’invasione della Polonia ma il compito affidato all’Italia da Hitler, ovvero quello di contenere la reazione di Francia e Inghilterra nel Mediterraneo, risulta particolarmente affine ai progetti espansionistici fascisti.
La scelta della penisola balcanica come base di partenza per conquiste più ampie è comune sia ai tedeschi sia agli italiani in quanto ricca di risorse naturali ma frammentata dal punto di vista etnico e di conseguenza debole sul piano politico ed economico. Inoltre, dopo la sopracitata annessione dell’Austria, le commesse commerciali e industriali austriache nei Balcani passano completamente in mano alla Germania, motivo in più per desiderare il controllo di questi territori.
Mussolini intraprende quella che viene definita una “guerra parallela” per il controllo italiano nel Mediterraneo e nei Balcani contrastando i progetti inglesi e francesi relativi a quest’area. Il 10 giugno del 1940, dopo mesi di non belligeranza, il Capo del governo italiano dal balcone di Palazzo Venezia dichiara l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e, attenendosi ai suoi progetti, dà inizio ad un’offensiva sulle Alpi che mette subito in luce le problematiche delle truppe italiane.
L’idea della possibile guerra parallela viene subito disillusa dalle schiaccianti sconfitte riportate dall’Italia prima in Africa e nel Mediterraneo contro la flotta inglese e poi in Grecia dove la spartizione del territorio ellenico in aree di occupazione è possibile solamente dopo l’intervento dell’esercito tedesco, rivelando gli interessi di Hitler per i Balcani.
Il ruolo della Jugoslavia per il controllo dei Balcani
Secondo il disegno militare tedesco non sarebbe stato possibile attaccare in sicurezza il territorio ellenico senza avere un appoggio stabile nella regione balcanica soprattutto a causa della distanza dalla madrepatria e, per questo, Hitler decide di entrare in trattativa con la Jugoslavia, legata al Regno di Grecia, alla Turchia e al Regno di Romania dagli accordi del Patto Balcanico stipulato nel 1934.
In Jugoslavia i conflitti interni, dati dalla convivenza di più gruppi etnici nel territorio, il 9 ottobre del 1934 sfociano nell’omicidio del re iugoslavo Alessandro I, commesso da Vlado Černozemski, membro dell’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone collaborante con gli Ustascia (nome che originariamente indicava coloro che lottavano contro i turchi ma fu adottato da Ante Pavelić per designare gli appartenenti al movimento nazionalista croato di estrema destra).
Gli Ustascia vengono aiutati dal governo fascista italiano ma, su pressione della Francia, il Regno di Jugoslavia non solleverà la questione delle responsabilità̀ internazionali italiane nel regicidio davanti alla Società̀ delle Nazioni. Il rapporto tra il Regno d’Italia e quello della Jugoslavia sembra migliorare dopo che Milan Stojadinović sale al potere come primo ministro e il 1° ottobre del 1936 viene firmato il primo accordo di tipo commerciale, seguito da altri per risolvere varie questioni tra cui quelle riguardanti le frontiere.
Questa parvenza di relazione amichevole si deteriora rapidamente dopo che, nel 1939, Galeazzo Ciano inizia una negoziazione direttamente con il Primo ministro per l’annessione dell’Albania, contrattazione che porta al licenziamento e all’arresto di Stojadinović voluto dal Principe Paolo.
Il Principe Paolo (reggente dopo la morte di Alessandro I in quanto il nipote ed erede al trono, Pietro, ha soltanto 11 anni) cerca di attenuare le tensioni tra i vari gruppi etnici presenti nel territorio al fine di garantire l’integrità del paese, per questo motivo nel 1939 viene firmato un accordo tra il gruppo nazionale serbo e quello croato. Dopo aver risolto, almeno ufficialmente, il divario tra i due gruppi nazionali, il governo jugoslavo dal novembre del 1940 avvia due negoziati paralleli, sia con la Germania, che con l’Italia, nel tentativo di trarre il massimo vantaggio dalla rivalità̀ italo-tedesca nei Balcani e ottenere garanzie di sicurezza da entrambe le parti[1] e il controllo del porto di Salonicco, fondamentale sbocco alternativo al mar Adriatico.
I negoziati con il governo italiano hanno come obbiettivo l’ampliamento degli accordi avvenuti negli anni precedenti con l’aggiunta della reciproca neutralità in caso di guerra con altre potenze, il riconoscimento alla Jugoslavia del porto di Salonicco e «uno scambio di popolazioni tra l’Italia, la Jugoslavia e l’Albania che avrebbe portato al trasferimento della minoranza albanese del Kosovo e di quelle slovene e croate nella Venezia Giulia»[2].
Benito Mussolini con questo nuovo accordo spera di prevenire azioni di terze potenze nella regione balcanica ma avrebbe dovuto rinunciare alla distruzione dello Stato degli jugoslavi bloccando anche le azioni dei separatisti croati. La Germania, invece, per decretare il patto di non aggressione e riconoscere gli interessi della Jugoslavia inerenti al porto di Salonicco, chiede in cambio l’adesione al Patto tripartito che avrebbe reso il governo di Belgrado satellite di quello tedesco e facilitato l’intervento in Grecia.
Le pressioni aumentano quando anche l’Ungheria, la Romania, la Slovacchia e la Bulgaria aderiscono al tripartito. Nel frattempo, dopo essere stato informato sull’andamento dei negoziati italo-jugoslavi Hitler si rende conto della deriva antitedesca di questa possibile nuova alleanza e chiede a Mussolini di attendere la firma dei trattati con la Germania prima di concludere gli accordi.
Questa è un’ulteriore battuta d’arresto per la messa in atto della guerra parallela fascista.
Il 25 marzo 1941 avviene ufficialmente l’ingresso della Jugoslavia nel tripartito portando un forte malcontento nel mondo politico serbo che, dopo soli due giorni, sfocia in un colpo di Stato per rovesciare il reggente Paolo e il suo governo colpevoli di aver firmato l’adesione.
L’Operazione Castigo: l’invasione della Jugoslavia
Il principe Paolo viene costretto all’esilio e ad assumere il potere è Petar Karađorđević, ormai diciassettenne. Il nuovo governo si dichiara pronto a rispettare gli accordi internazionali con Roma e Berlino mentre attende gli aiuti promessi dalla Gran Bretagna per slegarsi dai progetti del tripartito ma per Hitler il colpo di Stato cambia la situazione politica nei Balcani.
Con la Direttiva n.25 il Führer ordina che la Jugoslavia deve essere trattata come un nemico e quindi distrutta il più̀ rapidamente possibile vista la completa inaffidabilità della classe dirigente; il 6 aprile del 1941 inizia l’Operazione Castigo con l’invasione da parte delle truppe tedesche che in pochissimo tempo occupano Belgrado.
Il governo italiano viene messo al corrente dell’occupazione solamente pochi giorni prima dell’inizio delle ostilità, lo stesso Mussolini si chiede se l’Italia sia ormai una “nazione vassalla” della Germania che non può in alcun modo sottrarsi alla volontà̀ di quest’ultima, possiamo rintracciare questo concetto in un suo discorso tenuto il 13 ottobre del 1941 in cui afferma: «Bisogna accettare questo stato di cose perché ogni tentativo di reazione ci farebbe declassare dalla condizione di provincia confederata a quello ben peggiore di colonia. Anche se domani chiedessero Trieste nello spazio vitale germanico, bisognerebbe piegare la testa»[3].
L’11 aprile anche gli ungheresi occupano la Jugoslavia violando così il “Patto di amicizia eterna” siglato alla vigilia della discesa di Hitler nei Balcani, il primo ministro ungherese Pál Teleki de Szék al disonore del tradimento preferisce il suicidio.
La Jugoslavia viene smembrata e i suoi territori spartiti tra i partecipanti all’aggressione, all’Italia vengono attribuite la Slovenia meridionale, dove il 3 maggio fu istituita la provincia di Lubiana, e quasi tutta la costa dalmata. Tutti i territori che erano stati sottratti mediante il trattato del Trianon sul finire della Prima guerra mondiale vengono annessi nuovamente al Regno d’Ungheria. Inoltre, vengono creati due stati indipendenti: la Nezavisna Država Hrvaska dei croati ustascia e il Montenegro sotto il protettorato dell’Italia.
Il Montenegro inizialmente doveva essere annesso all’Albania per formare così la Grande Albania, successivamente all’irrigidirsi dei rapporti con il governo italiano viene dichiarato uno stato “indipendente e sovrano” ma il potere viene affidato ad un reggente nominato da Vittorio Emanuele III che vantava una certa parentela con questo territorio in quanto marito di Elena, figlia dell’ultimo sovrano del Montenegro.
Questa situazione di finta autonomia porta inevitabilmente ad un’insurrezione della popolazione montenegrina che, guidati da alcuni ufficiali nazionalisti del disciolto esercito jugoslavo e da esponenti del Partito Comunista Jugoslavo originari del Montenegro riescono in una settimana ad impossessarsi del controllo delle campagne.
Il Comando Supremo del Regio Esercito Italiano reagisce inviando nel territorio sei divisioni comandate dal generale Alessandro Pirzio Biroli. Biroli prima di sostituire Serafino Mazzolini come Alto commissario in Montenegro era stato Governatore della regione di Gondar durante l’occupazione etiopica distinguendosi per la violenza ed efferatezza delle sue azioni (viene ricordato per aver fatto legare un masso al collo dei capi tribù̀ prima di farli precipitare nel lago Tana).
L’atteggiamento del generale si dimostra poco dissimile da quello vantato negli anni precedenti: le attività̀ svolte nella regione vengono relazionate ai comandi superiori tramite rapporti scritti da cui possiamo venire a conoscenza delle rappresaglie (ad esempio quella nel villaggio di Pljevlja in cui furono fucilati sul posto 74 civili), delle fucilazioni da cui non venivano risparmiate né donne né bambini, dei bombardamenti di piccole cittadine e villaggi e degli incendi delle abitazioni. Lo stesso generale nel gennaio del 1942 ordina che per ogni soldato ucciso venissero fucilati 50 ostaggi, imitando quella che era la pratica tedesca e affermando che «la favola del buon italiano»[4]doveva cessare di esistere.
L’atteggiamento di Biroli segue le orme del fascismo nato sul confine orientale e impregnato di una forte componente razzista, infatti, in un opuscolo distribuito alle truppe afferma: «Odiate questo popolo. Esso è quel medesimo popolo contro il quale abbiamo combattuto per secoli sulle sponde dell’Adriatico. Ammazzate, fucilate, incendiate e distruggete questo popolo»[5] e ancora «mostrate a quei barbari che l’Italia, maestra e madre della civiltà̀, sa anche punire secondo le leggi incorruttibili della giustizia»[6].
Nonostante i crimini di guerra di cui si macchiò Alessandro Pirzo Biroli e nonostante venne inserito nella lista dei soggetti più̀ ricercati sia dalla UNWCC (Commissione delle Nazioni Unite sui crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale) sia dal CROWCASS (Registro Centrale per i Criminali di Guerra) non venne sottoposto ad alcun processo e morì il 20 maggio del 1962 come cittadino libero.
L’efferatezza dei soldati italiani non avviene solamente sotto le direttive dei generali, anche i singoli militari in questo contesto caotico si macchiano di quelli che, ad oggi, possiamo affermare siano stati gravi crimini di guerra:
In località̀ Pjesivci, alcuni militari della Taro stuprarono due ragazze – Milka Nikcevic e Djuka Stirkovic – per poi ammazzarle sparando loro al seno. Un’altra donna, Petraia Radojcic, fu bruciata viva nella sua casa. A Dolovi Stubicki furono massacrati dieci anziani, uomini e donne. Per aver dato ausilio ai ribelli le popolazioni dei villaggi della Pjesivica furono punite con la requisizione di oltre 1.000 pecore e capre e di 50 bovini[7].
La politica di occupazione italiana viene spesso comparata con quella tedesca ma la storiografia ad oggi non ha ancora raggiunto una conclusione condivisa: alcuni studiosi infatti sottolineano le similitudini negli atteggiamenti aggressivi affermando che non esiste nessuna differenza tra le due se non quella dettata dalla sostanziale debolezza delle truppe italiane, altri invece sostengono che sulle decisioni dei comandanti hanno influito le pesanti perdite dovute alle imboscate o alle sevizie inflitte dai partigiani ai militari italiani e, più in generale, alla situazione di guerriglia particolarmente difficile da gestire.
Anche nella sopracitata provincia di Lubiana, nonostante la propaganda d’occupazione tesa a sottolineare la pacificità delle operazioni, la situazione effettiva ricorda molto l’italianizzazione forzata avvenuta nella Venezia Giulia. I poteri di governo della provincia vengono esercitati da una figura di nuova istituzione ovvero «l’Alto commissario nominato con decreto Reale su proposta del Duce del Fascismo»[8] , compito assunto da Emilio Grazioli, federale fascista di Trieste e consigliere nazionale del Pnf.
Grazioli mette in pratica un programma di fascistizzazione della nuova provincia creando una serie di istituzioni tipiche del fascismo come l’ordinamento corporativo, la federazione dei fasci di combattimento e la Gil (gioventù̀ italiana del littorio). L’11 settembre compila i “Provvedimenti per la sicurezza dell’ordine pubblico” che prescrivono la pena di morte o la fucilazione immediata per gli atti di sabotaggio, la detenzione di armi, il passaggio clandestino della frontiera e persino per la propaganda sovversiva.
Nel ’42 l’XI Corpo d’Armata, in particolare la Divisione Granatieri di Sardegna comandata dal generale Taddeo Orlando Per permettere un’efficacia maggiore nell’opera di rastrellamento e di perquisizione della popolazione posizionò attorno alla provincia di Lubiana un alto reticolato rendendo quest’ultima un esteso campo di concentramento all’aperto.
Per poter applicare questi provvedimenti viene costituito un Tribunale Speciale che già̀ l’8 ottobre condanna tre sloveni alla pena di morte[9]. Nel mese di novembre Mussolini con un nuovo bando istituisce il Tribunale militare di guerra della II Armata che rimane attivo fino all’8 settembre del ’43.
Opposizione e repressione in Jugoslavia
Anche se molti notabili si dimostrano disponibili alla collaborazione con gli occupanti le misure di Grazioli non vengono accettate passivamente da gran parte della restante popolazione lubianese che includeva operai, artigiani, intellettuali, studenti, contadini. Per strutturare la loro opposizione questi il 27 aprile formano l’Osvobodilna Fronta, il fronte di liberazione che attua delle vere e proprie rivolte partigiane e successivamente si collegherà anche al movimento di liberazione che, sotto la guida di Tito, si formerà in altre parti della Jugoslavia.
Il governo istituito nel neocostituito Stato dei Croati che, ricordiamo, comprende anche la Bosnia abitata da molti serbi, dimostra i piani fascisti per la distruzione della Jugoslavia che fanno leva sulle mire separatiste croate. Ante Pavelić a capo del governo croato infatti viene istruito politicamente dal fascismo italiano e il partito dei croati cattolici ustascia, di cui era leader, viene appoggiato e finanziato da Mussolini con l’obbiettivo di creare uno stato indipendente ma debitore nei confronti dell’Italia e sottoposto al suo controllo militare.
Il movimento, originatosi dal Partito Croato dei Diritti (HSP), assume un carattere insurrezionale, anticomunista e particolarmente aggressivo che, dopo il 1920, anno in cui Ante Pavelić ne diventa leader, si traduce spesso in veri e propri atti di terrorismo. Dopo il colpo di Stato (6 gennaio 1929) i principali rappresentanti del partito tra cui lo stesso Pavelić espatriano in Italia prendendo il nome di ustascia e ottengono finanziamenti, asilo e strutture (soprattutto campi di addestramento) da Mussolini.
Nel maggio del 1941 gli accordi fra Mussolini e Pavelić delineano i nuovi confini tra l’Italia e la Croazia (con l’annessione dell’isola di Rab dove viene costruito il lager di Arbe) e, subito dopo la nascita dello stato indipendente (Ndh) i nazionalisti croati iniziano una feroce pulizia etnica sotto gli occhi dell’esercito italiano loro alleato, attraverso gli eccidi di massa e l’istituzione di campi di concentramento per serbi, ebrei e rom. Nonostante la violenta direzione della Croazia gli Ustascia esercitano un controllo debole sul territorio a loro affidato per questo il governo fascista e quello nazista decidono di occupare integralmente la Croazia.
L’occupazione tedesca e italiana dei Balcani accende ancora di più le guerre intestine, mentre ai croati viene “affidato” inizialmente un nuovo Stato, quello croato, i serbi non mettono in pausa la questione nazionale. Infatti, sotto l’autorità̀ del colonnello Dragoljub Mihailović si forma il primo movimento di resistenza con il nome di “Armata nazionale jugoslava”. Il movimento è inizialmente formato da ufficiali dell’esercito che, al momento della resa, invece di deporre le armi scelgono di riorganizzarsi e di continuare la lotta contro gli occupatori, restando fedeli al governo monarchico in esilio.
I ribelli serbi combattono per la restaurazione della monarchia (il loro motto è infatti “per il re e per la patria”), e per la creazione di una “Grande Jugoslavia” che deve necessariamente includere anche i territori occupati dall’Italia e dalla Germania (Trieste, Gorizia, Istria, Carniola). Nella realizzazione di questo disegno politico e territoriale i cetnici non dimenticano di includere anche la vendetta contro gli ustascia che avevano tentato di estinguere il popolo serbo e contro tutti i colpevoli della catastrofe nazionale del 1941.
L’ideologia nazionalistica del gruppo cetnico si scontra fin da subito con l’altra forza protagonista della resistenza: il movimento dei partigiani comunisti diretto da Josip Broz Tito denominato “Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia”. Successivamente all’aggressione tedesca verso l’Unione Sovietica avvenuta il 22 giugno del 1941, Stalin, attraverso il Comitato esecutivo del Komintern, invia direttive ai partiti comunisti europei «imprimendo alla lotta contro tedeschi e italiani il carattere di guerra ideologica antifascista»[10] e, in questo contesto, è centrale la figura di Tito e il ruolo del Partito Comunista Jugoslavo guidato da quest’ultimo dal 1937.
La contrapposizione di queste due forze che inizialmente cooperano nella lotta antifascista e antitedesca diventa più evidente quando, nel 1942, i cetnici adottano una politica di collaborazione con le truppe italiane di cui si fa portavoce Mario Roatta, comandante della II Armata nei Balcani dal gennaio dello stesso anno. Roatta crede nell’utilità dei contatti con i cetnici in funzione anticomunista, una parte di questi viene inquadrata nelle MVAC (Milizie volontarie anticomuniste) che sottostanno alle direttive italiane e hanno il compito di combattere i partigiani di Tito.
Il 2 marzo in una riunione dei comandi italiani e tedeschi ad Abbazia, vicino Fiume, viene organizzata l’operazione “Trio”: i tedeschi e i croati liberano dai partigiani la Bosnia orientale, gli italiani nonostante il grande numero di perdite subite dalle truppe riescono a liberare l’Erzegovina.
Accanto alle operazioni militari più o meno organizzate in collaborazione con i comandi tedeschi gli italiani soprattutto in questa fase svolgono vere e proprie azioni di repressione coinvolgendo i civili delle quali la modalità viene illustrata nella nota Circolare 3C emanata in due versioni dal generale Roatta. L’Italia per mantenere l’occupazione diretta usa tutti i mezzi necessari, dalla collaborazione con le fazioni locali alla repressione e alle violenze di massa, dalle deportazioni di popolazioni fino alla creazione di campi di internamento per civili.
La repressione dei movimenti partigiani e le lotte intestine rendono critica la situazione della guerra civile che segnerà la storia di questa regione per i decenni a seguire.
Tutte le azioni violente e disumane arrecate alla popolazione jugoslava sono state nascoste e confutate dai governi istituiti dopo la fine della guerra, solo recentemente questo “armadio della vergogna” italiano è stato riaperto ed è tutt’oggi oggetto di studi e di dibattiti.
La vittoria dell’Esercito popolare di liberazione
La consapevolezza della prossima sconfitta in Nord-africa e la relativa prospettiva dell’apertura di un nuovo fronte nei Balcani spinge Hitler a riorganizzare le forze nel territorio e in Jugoslavia vengono inviate numerose truppe tedesche per compensare l’inadeguatezza di quelle italiane.
Le dimissioni forzate di Mussolini convincono ancora di più Hitler a prepararsi alla resa italiana che avrebbe lasciato scoperti il fronte meridionale e i Balcani. La firma dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati avviene a Cassibile il 3 settembre ’43 e viene reso noto con l’annuncio alla radio da Badoglio cinque giorni dopo.
L’8 settembre le truppe italiane lasciate senza comandi non sanno più contro quale nemico lottare e si rendono conto di quanto la patria sia ormai lontana. Per questi motivi molti militari preferiscono rifugiarsi sulle montagne e unirsi ai partigiani rischiando però di essere uccisi dagli stessi e dalla popolazione locale come vendetta per le azioni subite durante la feroce occupazione.
Nel frattempo, i partigiani sloveni avanzano rivendicazioni irredentistiche antitaliane verso Trieste, Gorizia e Fiume e irrompono nei territori contesi mettendo in atto le prime azioni violente di vendetta e repressione che, anche questa volta, colpiscono anche la popolazione civile innocente.
Il movimento partigiano cresce fino a divenire inarrestabile, nonostante le sconfitte del Sangiaccato Tito persegue l’obiettivo di tornare in Serbia (che per tutta la guerra era stata il centro di potere dei cetnici e il nucleo dell’occupazione nazista) e liberare l’intero territorio dalle forze tedesche che però continuano per tutto l’inverno (’44-’45) a difendere le loro posizioni in Jugoslavia.
La fase finale delle operazioni ha inizio il 20 marzo del 1945 quando l’Esercito popolare ormai denominato “Esercito jugoslavo” libera dopo una dura battaglia la città di Sarajevo e i tedeschi iniziano la ritirata.
Il Terzo Reich si arrende ufficialmente agli Alleati il 7 maggio a Reims e l’8 a Berlino e, nonostante il contributo dato dai partigiani, nessun rappresentante jugoslavo viene invitato a partecipare alle cerimonie, del resto per l’affermarsi della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia i combattimenti non sono ancora conclusi.
L’eredità della guerra in Jugoslavia
Dopo la fine della guerra il governo jugoslavo come previsto dall’art. n.29 dell’armistizio richiede i criminali di guerra per poterli processare e punire per le azioni compiute nel periodo compreso tra il 1941 e il 1943.
I governi che si succedono dalla fine della guerra all’instaurazione della Repubblica (2 giugno del ’46) cercano di eludere questo articolo e, nonostante la volontà di prendere le distanze dal fascismo, non sarà possibile una vera e propria epurazione dei fascisti soprattutto perché le iscrizioni al Partito Nazionale Fascista erano state di fatto obbligatorie per molte professioni e carriere e questo rende praticamente impossibile tracciare un confine certo tra adesioni militanti e “tessere del pane” come venivano chiamate. “L’amnistia Togliatti”, approvata dal governo e promulgata con decreto presidenziale il 22 giugno del ’46, porta alla cancellazione di tutti i reati commessi fino al 18 giugno di quell’anno.
Con questo provvedimento migliaia di ex membri del partito fascista e i loro collaboratori vengono liberati dalle carceri o esonerati dai loro processi. Nonostante la legge preveda l’esclusione dal provvedimento di coloro che hanno compiuto crimini particolarmente efferati viene scritta in modo tale da permettere moltissime eccezioni. Negli anni successivi Togliatti cerca di discolparsi da queste concessioni accusando i magistrati di aver applicato l’amnistia in modo troppo permissivo ed in parte ha ragione: numerosi magistrati nella Suprema corte di cassazione avevano fatto parte pochi anni prima del Tribunale per la difesa della razza.
La Jugoslavia istituisce una Commissione centrale di stato per l’accertamento dei crimini di guerra dell’occupante e dei suoi collaboratori e accusa le truppe italiane dei crimini compiuti attraverso vari mezzi tra i quali la radio e la stampa.
Il governo italiano decide quindi di avvalersi della possibilità di processare i criminali di guerra in Italia, a questo proposito, Alcide De Gasperi annuncia il 9 aprile del 1946 l’istituzione di una Commissione d’inchiesta prevista per il 6 maggio dello stesso anno con lo scopo di poter accertare le responsabilità individuali degli accusati. In realtà la Commissione cerca di dimostrare i crimini degli jugoslavi verso gli italiani e la necessità di alcune azioni commesse dalle truppe italiane giustificandoli in virtù della situazione di guerra civile presente nel territorio.
In questi anni (1943-45) lo scenario tragico si sposta di nuovo sul confine orientale ancora una volta oggetto della discordia: i partigiani guidati da Tito si scagliano contro chiunque potesse essere considerato un ostacolo alla consolidazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e la spirale di violenza si abbatte anche su chi non aveva avuto nulla a che fare con il passato regime fascista.
Anche sui crimini dei partigiani titini è calato un “silenzio di Stato” soprattutto dopo che, nel 1951, viene accolta la validità della “reciprocità” per i crimini commessi in altri paesi prevista dal codice penale militare di guerra italiano. Questa clausola dispone che la risoluzione della questione dei criminali italiani può avvenire solamente se anche la Jugoslavia processi i responsabili degli eccidi delle foibe.
Si chiude così per anni il sipario su tutte le drammatiche vicende accadute nei Balcani e sul confine orientale. Solo recentemente questo sipario è stato nuovamente riaperto creando numerose polemiche in quanto esistono due principali linee di pensiero, una tende a giustificare le foibe come reazione ai crimini perpetrati dai fascisti, l’altra ricorda solo la strage agli italiani ma dimentica del tutto i crimini compiuti dagli stessi italiani prima e dopo l’occupazione dei Balcani.
Non ci sono stragi più o meno significative, non esistono stragi giuste o sbagliate, non può esistere nessuna giustificazione all’uccisione di civili inermi o di oppositori politici.
Note:
[1] Francesco Caccamo e Luciano Monzali, L’occupazione italiana della Iugoslavia (1941-1943), Le Lettere, Firenze, 2008, p.21.
[2] Ivi, pp. 22-23.
[3] Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Milano, 2020, p.208.
[4] Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della «brava gente» 1940-1943, Obradek, Roma, 2008, p.129.
[5]Peter Louise Arnell, Le sporche guerre degli italiani e la fine della dittatura, Youcanprint, 2018, p.83.
[6] Costantino Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre corte, Verona, 2005, pp. 82-83.
[7] Giacomo Scotti e Luciano Viazzi, L’inutile vittoria. La tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro 1941-1942, Mursia, Milano, 1998, p.271.
[8] R.D.L. 3 maggio 1941, n.291, Art.3, https://it.wikisource.org/wiki/R.D.L._3_maggio_1941,_n._291_- _Costituzione_della_provincia_di_Lubiana
[9] Cfr: Kersevan Alessandra, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili per slavi 1941-1943, Nutrimenti, 2008, p.41.
[10] Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nel Balcani 1940- 1945, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 46.
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- Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Milano, 2020.
- Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della «brava gente» 1940-1943, Obradek, Roma, 2008.
- Joze Pirjevec, Serbi, croati, sloveni: storia di tre nazioni, Il Mulino,1995.
- Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, 2016.
- Brunello Mantelli, I crimini delle Forze Armate italiane 1935-1943. Una mostra impensabile?, Saggio edito dal Giornale di storia contemporanea.
- Giacomo Scotti e Luciano Viazzi, L’inutile vittoria. La tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro 1941-1942, Mursia, Milano, 1998.