CONTENUTO
Tirana 1939. Come e perché l’Italia occupò l’Albania
Nell’aprile 1939, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, l’Italia invade e occupa l’Albania, un piccolo stato indipendente al di là dell’Adriatico. Spesso dimenticata e relegata in secondo piano, questa operazione, orchestrata dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, con l’avallo di Benito Mussolini, nasconde ragioni molto profonde e avrà conseguenze determinanti. Seguendo la politica aggressiva ed espansionistica della Germania, l’Italia ha ormai scelto da che parte stare: la guerra è solo questione di tempo.
Le origini del protettorato italiano in Albania
All’apertura del Congresso di Berlino nel 1878, l’Albania è ancora un dominio ottomano, tuttavia essa rappresenta già un obiettivo rilevante della politica estera italiana, data la grande importanza che i Balcani stanno assumendo in quegli anni e la vicinanza alle coste italiane del Paese delle Aquile. Francesco Crispi, presidente del Consiglio di allora, considera l’Albania un vero e proprio baluardo contro l’espansionismo austriaco e russo nella regione, e ritiene prioritario assumerne il controllo o quantomeno evitare che essa finisca nelle mani di una potenza rivale.
Così quando nel 1912, in concomitanza con lo smottamento causato dalla prima guerra balcanica, l’Albania dichiara la sua indipendenza dall’Impero ottomano, l’Italia non può che appoggiarla, seguita in questo dall’Austria. Entrambe le potenze, formalmente alleate nella Triplice, sono per ragioni diverse interessate a bloccare gli appetiti di serbi e greci, già pronti a spartirsi l’Albania, e si impegnano affinché nella regione venga mantenuto lo status quo (1).
La Grande Guerra e la dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico permettono infine all’Italia di affacciarsi nei Balcani con l’ambizione di sostituirsi all’Austria come potenza egemone della regione. In tal senso l’Albania rappresenta un ottimo punto di partenza, una vera e propria testa di ponte della penetrazione italiana sull’altra sponda dell’Adriatico. Già durante il conflitto, in ottemperanza a quanto previsto dal Patto di Londra, le truppe italiane hanno occupato preventivamente le zone meridionali dell’Albania, instaurando una sorta di protettorato e scontrandosi a lungo con gli austriaci anche su questo fronte, spesso dimenticato.
Tuttavia, nel dopoguerra, le resistenze dei francesi – preoccupati dell’eccessivo espansionismo italiano nell’Adriatico – e le mire degli altri Stati balcanici mettono a dura prova le ambizioni di Roma. La difficile situazione interna e la scarsa solidarietà internazionale, rendono infine impossibile per l’Italia mantenere il controllo sui territori occupati e i soldati italiani, falcidiati dalla malaria e dalle imboscate delle truppe irregolari albanesi, sono costretti a ritirarsi verso il campo trincerato del porto di Valona, ultimo baluardo italiano in Albania (2).
Nel 1920, il breve ritorno al potere di Giovanni Giolitti sancisce la momentanea fine dell’avventura albanese: in agosto l’Italia riconosce l’indipendenza dell’Albania mentre le truppe italiane lasciano definitivamente Valona e nel dicembre dello stesso anno il Paese delle Aquile è ammesso alla Società delle Nazioni. Tale esito porta gli ambienti nazionalisti ad accusare Giolitti e il governo di aver rinunciato alle compensazioni promesse all’Italia nel Patto di Londra, tra le quali figura per l’appunto anche una porzione non meglio definita dell’Albania (3).
La rinuncia di Giolitti, se nel breve termine rappresenta una disfatta, porta in seguito ad alcuni risultati notevoli: già nel 1921, mentre anche le ultime truppe serbe lasciano il nord del paese, la Conferenza degli Ambasciatori riconosce all’Italia una posizione privilegiata nei riguardi dell’Albania, affidandogli così una sorta di tutela diplomatica sul piccolo paese balcanico, tornato nuovamente indipendente.
Negli anni a seguire, in virtù di questo riconoscimento, la presenza economica e culturale italiana sull’altra sponda dell’Adriatico si fa sempre più marcata e intensa, senza però arrivare mai ad escludere gli interessi dei Paesi vicini o delle altre Potenze.
L’Albania nella politica estera del fascismo
L’avvento del fascismo non segna un vero e proprio cambio di passo nei rapporti tra Roma e Tirana, poiché almeno fino agli anni Trenta, la politica estera del regime è molto simile a quella dei precedenti governi liberali. Nonostante Mussolini ritenga fondamentale portare avanti una strategia che conferisca all’Italia prestigio e potenza, infatti, la diplomazia italiana continua a perseguire una politica di equilibrio, volta a garantire all’Italia una certa autorevolezza, il “peso determinante” necessario per contare qualcosa davanti alle altre Potenze (4).
Anche sulla questione albanese, l’atteggiamento di Mussolini è orientato verso un prudente attendismo, dovuto innanzitutto alla fase di assestamento del regime, ma anche alla difficile e intricata situazione interna alla stessa Albania, con due fazioni in lotta per il potere: da una parte c’è Ahmet Zogu – ex primo ministro e capo locale – dall’altra c’è invece il vescovo ortodosso Fan Noli, che nel 1924, dopo aver vinto le elezioni, dà il via a una rivoluzione democratica vista con favore dall’Italia.
Zogu tuttavia riesce a riconquistare il potere con la forza, giovandosi del sostegno militare e finanziario della Jugoslavia, interessata a mettere le mani sull’Albania. Tornato al governo, Zogu si libera ben presto dei suoi alleati jugoslavi, di cui teme le note ambizioni, e si rivolge a Roma in cerca di aiuti e alleanze (5).
Nonostante l’iniziale diffidenza, dunque, tra il 1925 e il 1928, Italia e Albania si legano sempre di più, attraverso una serie di trattati di natura economica, finanziaria, militare e politica. Zogu tuttavia è un osso duro e non si piega facilmente alle richieste italiane, rendendo necessari grandi esborsi di denaro per convincerlo ad aderire ai piani del Duce e della diplomazia italiana.
L’intensa opera di pressione esercitata sull’Albania, porta nel novembre del 1926 alla stipula del Patto di Amicizia e Sicurezza, seguito nel 1927 dal Patto di Alleanza difensiva, con cui l’Italia assume definitivamente il ruolo di protettrice e garante non solo dell’indipendenza, ma anche della stabilità interna dell’Albania, riservandosi il diritto di intervenire militarmente in caso di necessità. Viene così sancito uno stato di fatto che anche Francia e Gran Bretagna non esitano a riconoscere, consapevoli di quante risorse stia investendo l’Italia e che per Mussolini non è possibile accettare la presenza a poca distanza dalle coste italiane di un paese indipendente o peggio sottoposto all’influenza della Jugoslavia.
In campo italiano invece, già a partire dal 1925 vanno emergendo alcune differenze di vedute circa le modalità con cui proseguire la penetrazione in Albania: da una parte alcuni ambienti diplomatici e – perlomeno inizialmente – lo stesso Duce, intendono consolidare l’influenza italiana senza provocare la Jugoslavia, dall’altra gli esponenti del nazionalismo più estremo, spingono affinché l’Italia annetta militarmente l’Albania. Con il progressivo deterioramento dei rapporti fra Roma e Belgrado, Mussolini inizia a nutrire un odio sempre più profondo verso la Jugoslavia e la seconda opzione inizia a farsi strada nella mente del Duce e dei suoi gregari (6).
Per legare ancor di più le sorti di Zogu e dell’Albania all’Italia, il Duce decide quindi di trasformare il paese balcanico – de iure una repubblica, ma di fatto una dittatura – in un regno, magari “sacrificando” al re una principessa di Casa Savoia (7). Nell’agosto del 1928 Zogu viene quindi incoronato “Re degli albanesi” con il nome di Zog I e, grazie al cospicuo sostegno finanziario italiano, il nuovo regno può iniziare a muovere i primi passi verso la modernizzazione.
Zog tuttavia è sempre più insofferente nella sua condizione di vassallo e nel corso degli anni Trenta gli attriti tra Roma e Tirana si fanno sempre più frequenti. L’ascesa al Ministero degli Esteri Galeazzo Ciano, pupillo e genero del Duce, fermamente interessato a fare dell’Albania un suo personale “feudo fascista” farà infine precipitare la situazione.
Italia e Albania: la svolta degli anni Trenta
Nel 1931 Zog rifiuta di rinnovare il Trattato di Amicizia con l’Italia, convinto di potersi liberare facilmente del giogo italiano. Mussolini, per non arrivare allo scontro, tenta nuove soluzioni, ma Zog non desiste. Il re non soffre più l’ingerenza italiana negli affari albanesi e gli italiani a loro volta sembrano fare di tutto per urtare intenzionalmente il sovrano.
Per non perdere il sostegno dei suoi sudditi, Zog reagisce con orgogliose quanto inutili mosse indipendentiste: nel 1933 nazionalizza tutte le scuole private e religiose albanesi, colpendo in particolare quelle cattoliche, legate a doppio filo all’Italia; nel 1934 firma trattati commerciali con Grecia e Jugoslavia, paventando addirittura l’ipotesi di entrare a far parte dell’Intesa balcanica, ma la ferma reazione italiana porta a un nulla di fatto, mentre Zog continua a cercare nuovi sostenitori in Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Unione sovietica.
Alla fine, secondo lo storico Bernd Fisher, i tentativi di Zog di liberarsi degli italiani costano la libertà dell’Albania (8). A Roma infatti, capiscono ben presto che l’unico modo per tutelare i propri interessi nei Balcani è quello di garantire un saldo controllo sull’Albania anche attraverso, se necessario, l’occupazione militare del paese. Nel biennio 1934-1936 si assiste a quello che sembra essere un riavvicinamento tra Roma e Tirana, con la firma di una convenzione militare, ma è soltanto una fase passeggera.
Dal 1935 la politica estera fascista è ormai caratterizzata da una forte aggressività destabilizzatrice a cui l’Albania non può sfuggire. Il nuovo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano è fin da subito fortemente interessato agli affari albanesi e inizia a complottare dietro le quinte per stringere sempre di più la morsa italiana sul piccolo vicino balcanico. A Roma, Ciano e gli altri promotori dell’espansionismo fascista vedono la possibilità di installare in Albania un vero e proprio dominio coloniale, destinato a incidere in maniera considerevole sugli equilibri del Mediterraneo e dei Balcani.
Proprio mentre gli italiani si fanno più aggressivi e insistenti, Zog accentua il suo disappunto. Il re non solo rifiuta di sposare una contessa italiana, preferendo una rampolla di una decaduta famiglia ungherese con simpatie filo-tedesche, ma, al momento delle nozze, non fa nulla per impedire che le sue due sorelle e strette consigliere umilino Ciano e gli altri invitati italiani giunti a Tirana per l’occasione. Si tratta di un momento di rottura: Zog non tenta neppure di rimediare come pure ha già fatto in passato. Il re è ormai consapevole che l’Italia vuole prendere l’Albania, con o senza di lui.
I piani militari italiani per l’Albania
Ottenute alcune garanzie da Belgrado in caso di un’azione italiana in Albania, Ciano inizia a premere con insistenza su Mussolini, il quale però non è ancora convinto. Nell’aprile 1938, poco prima della visita ufficiale di Hitler a Roma, il ministro degli Esteri presenta un rapporto dettagliato in cui descrive l’Albania come un paese potenzialmente ricco, grazie alle sue riserve di minerali e petrolio, un paese da trasformare in una florida colonia abitata da italiani e in grado di produrre tonnellate di materie prime. Nulla di più lontano dal vero, essendo allora l’Albania uno dei paesi più poveri e arretrati d’Europa, ma questo a Ciano non importa.
Prendere l’Albania può infatti rappresentare una decisa contromossa all’Anschluss e controbilanciare la penetrazione tedesca nei Balcani e in Europa orientale. Mussolini, che ha dovuto ingoiare l’amaro boccone dell’annessione dell’Austria, sembra d’accordo e in maggio dà a Ciano il suo assenso per un’azione limitata.
Un euforico Ciano inizia quindi a predisporre il suo piano, fedelmente riportato nel suo diario: uccidere Zog, far precipitare l’Albania nel caos, inviare le truppe per riportare l’ordine e infine sancire l’annessione. Un’operazione rapida e indolore, per mettere l’Inghilterra, la Francia, la Jugoslavia, ma anche la Germania stessa, dinanzi al fatto compiuto (9).
Ciano prende quindi una serie di iniziative importanti: per evitare una decisa reazione internazionale e ulteriori sanzioni, fa in modo che l’Albania abbandoni la Società delle Nazioni così come ha già fatto l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia; si impegna poi affinché gli ufficiali italiani inviati ad addestrare l’esercito albanese in base alle convenzioni stipulate, non addestrino effettivamente l’esercito di Zog, ma lo rendano un docile strumento nelle mani italiane; aumenta quindi la presenza economica e fisica nel paese, costruendo a Tirana e nel resto del paese una solida rete di ufficiali, politici e personalità influenti, favorevoli all’Italia e all’annessione, soprattutto grazie all’azione del ministro italiano a Tirana, Francesco Jacomoni, una sorta di ambasciatore con larghi poteri (10).
Nell’estate del 1938 le voci circa un’imminente azione italiana si fanno più insistenti e il re è sempre più nervoso. Da Tirana Jacomoni insiste affinché l’azione italiana avvenga il prima possibile poiché più tempo passa più si rischia di non riuscire a eseguire quanto pianificato da Ciano: Zog è ormai circondato da fedelissimi e quasi intoccabile, pronto a reagire alla minima provocazione. Mussolini tuttavia non ha intenzione di rompere gli indugi. Il Duce vuole prima portare a compimento le trattative per l’alleanza con la Germania e rinvia l’operazione finché un fatto imprevisto stravolge tutto e fa precipitare la situazione in Europa.
Nella notte del 15 marzo 1939 le truppe tedesche entrano a Praga e in quello che resta della Cecoslovacchia, infrangendo il Patto di Monaco. Come già avvenuto con l’annessione dell’Austria dell’anno precedente, Hitler informa Mussolini solo a cose fatte. Il Duce, che ha investito tutto il suo prestigio internazionale nella soluzione trovata alla Conferenza di Monaco, non ci sta a incassare l’ennesimo smacco dal suo alleato e autorizza Ciano ad agire in Albania. Il genero del Duce telegrafa immediatamente a Jacomoni:
«La situazione creatasi improvvisamente in Europa centrale ci induce a ritenere possibile e conveniente procedere al più presto alla nota operazione. Prepara quindi con la massima urgenza un primo movimento di sollevazione […] che ci serva di pretesto per invio flotta, aviazione e reparti di sbarco» (11).
Ultimatum all’italiana
Il 23 marzo 1939, lo stesso Mussolini, ormai deciso a far sua l’Albania, redige la bozza di un “trattato” da inviare a Zog: un documento brevissimo, lapidario, in tre articoli, che configura la completa annessione dell’Albania all’Italia, mantenendo al contempo Zog sul trono. Al testo del Duce, Ciano preferisce una versione più elaborata e meno diretta, per salvare quantomeno le forme del diritto internazionale. Si tratta di un trattato formato da otto articoli che de iure garantiscono l’indipendenza dell’albania ma che di fatto ne sanciscono la completa sottomissione all’Italia, alla quale spetterebbe il completo controllo sulle infrastrutture del paese, come porti, strade e aerodromi.
Un’unione doganale, monetaria e amministrativa tra i due paesi andrebbe infine a definire i contorni di quella che è a tutti gli effetti un’annessione (12). Il 24 marzo Ciano annota sul diario che ora dipende tutto da Zog: o accetta le richieste italiane o verrà spazzato via. Lo stesso giorno, il ministro scrive chiaramente a Jacomoni:
«Non si tratta di negoziare un Patto. Si tratta di farlo accettare al re Zog come condizione sine qua non per il mantenimento dell’indipendenza e dell’integrità territoriale albanese. In questi il Duce ha già disposto per la mobilitazione ed il concentramento in Puglia di contingenti terrestri, aerei e navali […]. Io mi riservo in ogni modo, di venire subito a Tirana con alcuni reparti di forze aeree, per prendere praticamente possesso del Paese e per avviare nei primi giorni l’ordine nuovo» (13).
Zog si trova quindi con le spalle al muro e nei giorni seguenti tenta in ogni modo di prendere tempo. In un incontro con Jacomoni il 28 marzo, il re si dichiara disposto ad accettare parte delle richieste italiane, ma chiede altro tempo per preparare il paese a una simile evenienza. Il diplomatico italiano tenta allora di convincerlo ad accettare o a richiedere egli stesso l’invio di un contingente italiano, inscenando se necessario delle false manifestazione in favore dell’Italia e dell’annessione.
Jacomoni gioca a carte scoperte perché convinto che Zog non sia affatto propenso a una resistenza armata, essendo la sua amata moglie incinta e prossima al parto, a patto che gli vengano presentate condizioni più favorevoli. L’ultimo tentativo giunge pertanto il 31 marzo, quando è ormai chiaro che Zog non accetterà le richieste italiane.
Jacomoni prepara quindi un altro trattato, con qualche concessione al re e alla sua famiglia, che una volta approvato dal Duce, è presentato a Zog come un vero e proprio ultimatum. In un messaggio personale di Mussolini al sovrano albanese, il Duce si dice disposto a salvaguardare l’indipendenza albanese e la dinastia di Zog a patto che avvenga una netta modifica dei rapporti fra Roma e Tirana, in favore chiaramente della prima: in caso di rifiuto, sottolinea Mussolini, le conseguenze ricadrebbero sul re e sul suo popolo (14).
Il re albanese, rinfrancato da massicce manifestazioni anti-italiane scoppiate a Tirana e in altre città, temporeggia ancora, nel tentativo di evitare l’imminente rottura con i suoi ex-alleati. Sta infatti aspettando che le sue bande di fedelissimi siano pronte a resistere o che nel frattempo qualche potenza intervenga in suo favore. Nonostante l’attesa febbrile, il 5 aprile, Ciano annota che il Duce è ormai deciso a marciare contro l’Albania ad ogni costo, «anche se tutto il mondo si schierasse contro di lui» (15). Il tempo della diplomazia è finito. Il termine dell’ultimatum viene fissato alle 12 in punto di giovedì 6 aprile, Giovedì Santo, dopodiché le truppe italiane entreranno in azione. La resa dei conti è vicina.
Scatta l’ora X: l’attacco italiano all’Albania, fra ritardi e carenze
Già durante la guerra in Etiopia e in Spagna, le forze armate italiane hanno mostrato tutti i loro limiti e le loro carenze in termini di trasporti, logistica e comunicazioni. Nell’aprile del 1939, l’invasione dell’Albania, preparata in fretta e con scarsa attenzione, non si risolve in un disastro solo perché la resistenza degli albanesi è scarsa o addirittura assente.
Lo Stato maggiore è stato avvisato dell’imminente operazione solo il 29 marzo e ai reparti viene dato un preavviso brevissimo, di poche ore. Inoltre, nonostante i soldati siano dotati di armamenti e mezzi moderni, quasi nessuno è addestrato adeguatamente al loro utilizzo: molti uomini assegnati alle unità motocicliste non sono in grado di andare in moto; moltissimi marconisti, addetti cioè ai telegrafi, non conoscono l’alfabeto Morse.
Tale situazione è ben nota ai vertici italiani e lo stesso Ciano è preoccupato dall’assenza di unità motorizzate in grado di raggiungere e occupare Tirana in poche ore. Sempre secondo i resoconti di Ciano, il maresciallo Pietro Badoglio, pur favorevole all’impresa, è molto critico rispetto alle modalità d’intervento, ma viene ignorato, così come viene ignorato il re, Vittorio Emanuele, restio a rischiare un’avventura «per quattro sassi» (16).
Il comando delle operazioni è affidato al generale Alfredo Guzzoni, convocato con urgenza a Roma il 31 marzo, affiancato dal generale Giovanni Messe, in qualità di suo vice. Il Corpo di Spedizione, denominato Oltre Mare Tirana (O.M.T.), conta circa 22.000 uomini di cui almeno 3.000 camicie nere ed è diviso in quattro scaglioni. Il primo, il più consistente, composto da bersaglieri e fanti di marina, all’alba del 7 aprile, Venerdì Santo, sbarca a Durazzo sotto il comando di Messe.
Dopo un breve e sanguinoso scontro con alcuni reparti albanesi, presa la città, Messe si dirige verso Tirana, distante circa 40 km, raggiunta nel frattempo da un battaglione di granatieri aviotrasportato. Le altre tre colonne, agli ordini dei colonnelli Scattini, Bernardi e Carasi, sbarcano rispettivamente a San Giovanni di Medua (70 km a nord di Durazzo), Valona (120 km a sud) e Santi Quaranta (230 km più a sud).
Grazie alla superiorità numerica e alla preparazione politica dei mesi precedenti, gli scontri sono stati tutti episodici e di lieve entità, escludendo la breve battaglia combattuta a Durazzo, dove la gendarmeria albanese ha resistito tenacemente agli assalti italiani: una resistenza anche solo più accennata avrebbe trasformato la prevista passeggiata trionfale in un’umiliazione per gli italiani.
Nonostante le difficoltà logistiche e materiali, nel giro di quarantotto ore i reparti italiani hanno raggiunto e conquistato tutti i loro obiettivi: il 9 aprile Argirocastro viene occupata dal colonnello Carasi, mettendo così fine alla breve campagna (17). Oltre che per problemi squisitamente tecnici e militari, l’operazione ha rischiato di arenarsi, ancor prima di iniziare, a causa degli ordini confusi e contraddittori inviati da Ciano e Mussolini agli ufficiali al comando del corpo di spedizione.
Nella notte tra il 6 e il 7 aprile, mentre le navi italiane con a bordo i soldati stanno attraversando il braccio di mare che separa le coste della Puglia dall’Albania, re Zog invia a Mussolini un accorato telegramma in cui chiede di poter trattare la sua resa con il generale Pariani. Si tratta di una mossa calcolata, poiché quest’ultimo è in Germania e il Duce gli risponde che deve inviare un suo plenipotenziario a discutere direttamente con il generale Guzzoni, che nel frattempo è sbarcato e ha dato inizio all’invasione. Una volta ascoltate le proposte di Zog, ovvero fermare l’avanzata e permettere al re di salvare il suo onore, in mancanza di ordini precisi e in attesa di una risposta di Mussolini, il generale ordina di sospendere l’avanzata.
Quando Mussolini viene informato che le truppe italiane sono ancora in attesa, va su tutte le furie. Non bisogna perdere altro tempo. Il Duce telegrafa immediatamente a Guzzoni di marciare verso Tirana e gli altri obiettivi. I soldati entrano allora in azione, ma manca il carburante e molti reparti non riescono a comunicare. Le navi all’ancora a Durazzo, non riescono a far sbarcare i mezzi nei tempi previsti. Per fortuna degli italiani, il grosso dei soldati albanesi, rimane nelle loro caserme, senza reagire all’invasione.
Nel frattempo Ciano, che la sera prima è andato a dormire presto, la mattina del 7 aprile, ignaro che le operazioni siano ancora in stallo, sale sul suo aereo, intenzionato ad atterrare trionfalmente a Tirana, ma una volta giunto sui cieli dell’Albania è costretto a tornare indietro, poiché la capitale non è stata ancora raggiunta dalle truppe italiane ed è in preda a feroci disordini. Gli uomini di Zog, infatti, stanno mettendo a ferro e fuoco la città, in modo da coprire la fuga del re e della sua famiglia. Dopo un viaggio disagevole tra i monti albanesi, re Zog riesce a riparare in Grecia: non metterà mai più piede in Albania (18).
La nascita dell’Albania italiana
La mattina dell’8 aprile, mentre le prime truppe italiane entrano finalmente a Tirana, Ciano arriva in volo nella capitale, dove viene accolto da Jacomoni e Guzzoni, e apprende della fuga del re e della resa dei reparti albanesi. Inebriato dalla facile vittoria, ottenuta nonostante l’imbarazzante confusione con la quale si è svolta l’intera operazione, Ciano non si preoccupa più di salvare neppure le apparenze: il 12 aprile 1939 un’Assemblea costituente albanese, composta da notabili locali filoitaliani e di simpatie fasciste, offre la corona d’Albania a Vittorio Emanuele III, sancendo così de iure l’unione fra i due Paesi, de facto la fine dell’indipendenza albanese.
Come osserva lo storico Enzo Collotti (19), ad unione avvenuta, la propaganda fascista giustifica la posizione dell’Albania all’interno dell’impero italiano in base a un presunto “diritto storico” che l’Italia ha sul Paese delle Aquile e che risale addirittura ai tempi dei romani e della dominazione veneziana. In aggiunta, l’azione italiana, sempre secondo i suoi sostenitori, è giustificata da ragioni umanitarie e ha come fine ultimo quello di civilizzare uno dei popoli più “barbari” d’Europa, alla stregua di quanto avvenuto poco prima con l’Etiopia.
Se da una parte è vero che il popolo albanese vive nella povertà più assoluta, in un paese diviso in tribù e retto da istituzioni e leggi risalenti al Medioevo, è altrettanto vero che l’occupazione italiana, con la rara eccezione della costruzione di alcune infrastrutture e l’invio di missioni sanitarie, non migliora affatto la situazione. Con gli investimenti e il fiume di denaro riversato oltre Adriatico, infatti, nei mesi a seguire arriveranno profittatori e speculatori della peggior specie. Anzi, lo stesso Ciano ha intenzione di trasformare l’Albania nel suo feudo personale, una colonia di sfruttamento, dove poco importa del destino dei suoi abitanti.
Nelle settimane successive all’occupazione, il Ministro degli Esteri e i suoi collaboratori completano tutte le procedure affinché l’Albania diventi parte integrante dell’impero italiano: Jacomoni viene nominato Luogotenente del Regno – una sorta di viceré – e Ciano piazza tutti i suoi uomini nei nuovi uffici creati appositamente per gestire e governare gli affari albanesi, in particolare il Sottosegretariato agli Affari albanesi. In giugno viene istituito un parlamento fantoccio e altre istituzioni sul modello di quelle fasciste, mentre a luglio le forze armate albanesi confluiscono in quelle italiane.
La creazione del Partito fascista albanese (Pfa) è l’atto conclusivo di un rapido programma di italianizzazione e fascistizzazione dell’Albania, con l’obiettivo di distruggere ogni forma di resistenza e autonomia da Roma. Ciano ha finalmente realizzato il suo sogno: l’Albania è diventata il suo “granducato” (20).
Il 19 agosto 1939, giunto in visita a Tirana, il ministro degli Esteri rimane piacevolmente colpito dai progressi fatti nei mesi precedenti e annota che entro alcuni anni, la sua Albania, sarebbe diventata una tra le più floride regioni d’Italia. Un proposito destinato a restare solo sulla carta.
Le reazioni internazionali: la fine dell’appeasement
Le reazioni internazionali all’avventura italiana in Albania, per quanto deboli e tardive, hanno avuto conseguenze determinanti, spesso dimenticate. La Jugoslavia, ormai accerchiata dai paesi dell’Asse e dall’Ungheria filotedesca, non protesta dinanzi all’azione italiana, ma teme per il futuro. Hitler, nonostante il profondo interesse tedesco per i Balcani, brinda alla vittoria italiana, mentre Grecia e Turchia, sono in allarme, preoccupate che l’azione in Albania sia solo il prodromo di ulteriori espansioni ai loro danni. La Francia sembra quasi tirare un sospiro di sollievo, nel constatare che Mussolini sta rivolgendo le sue attenzioni verso est e non verso i confini francesi.
La reazione più temuta dal Duce, quella di Londra, arriva invece tardi ed è morbida. Neville Chamberlain, potrebbe infatti denunciare gli Accordi di Pasqua, firmati con Mussolini nell’aprile del 1938, con cui i due paesi si sono impegnati a rispettare lo status quo nel Mediterraneo, ma non lo fa. Il premier britannico è infatti convinto che, lasciando sfogare le ambizioni italiane nei Balcani, sarebbe riuscito a contenere quelle tedesche e magari a incrinare l’Asse fra Roma e Berlino.
Il governo britannico sposa perciò una linea di non intervento, dichiarando di non essere interessato alla vicenda, ma di temere per la pace in Europa. La posizione degli inglesi, e di conseguenza dei loro alleati francesi, è quindi di accondiscendenza. La reazione dell’opinione pubblica è però feroce. Per Winston Churchill, principale oppositore di Chamberlain e della politica dell’appeasement, l’aggressione italiana all’Albania è il primo passo verso un attacco alla Grecia e/o alla Jugoslavia.
Essa infine è la prova tangibile che di Mussolini non ci si può fidare, alla pari di Hitler. Messi sotto pressione, i governi di Londra e Parigi, alla fine decidono di reagire: il risultato sono le garanzie concesse non solo alla Polonia, minacciata dalla Germania, ma anche a Grecia, Romania e Turchia. Il cordone di sicurezza intorno alle potenze dell’Asse – che intanto sono convolate a nozze, firmando il Patto d’Acciaio – si stringe sempre di più. La misura è colma. Il tempo dell’appeasement è finito, qualsiasi altra mossa italiana o tedesca, getterà l’Europa in guerra (21).
Note:
- A. Basciani, “I rapporti tra Italia e Albania tra le due guerre”, Nuova Rivista Storica, 2013, pp. 503-505.
- Ibidem.
- E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, La Nuova Italia, Milano, 2000, p. 43.
- S. Duranti, “La politica estera fascista. Fra storia politica e storia diplomatica”, Studi Storici, 2014, p. 262.
- M. Cervi e I. Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dell’Asse, Rizzoli, Milano, 2011, p.185.
- E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, op. cit., p. 47.
- M. Cervi e I. Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dell’Asse, op. cit., p. 187.
- B. Fisher, L’ Anschluss italiano. La guerra in Albania (1939-1945), Salento Books, Nardò, 2004.
- G. Ciano, Diario, 1937-1943, Rizzoli, Milano, 1946.
- E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, op. cit., pp. 388-390.
- Ciano a Jacomoni, 15 marzo 1939, Documenti Diplomatici Italiani, Vol. XI, Ottava Serie, Roma, 2007, pp. 376-377.
- E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, op. cit., p. 392.
- Ciano a Jacomoni, 24 marzo 1939, DDI, op. cit., pp. 473-474.
- Mussolini a Jacomoni, 1° aprile 1939, DDI, op. cit., p. 537.
- G. Ciano, Diario, op. cit., p. 73.
- Ivi, pp. 69-73.
- A. Frediani, Le guerre dell’Italia unita, Newton&Compton, Roma, 1998, pp. 56-57.
- M. Cervi e I. Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dell’Asse, op. cit., p. 192.
- E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, La Nuova Italia, Milano, 2000, pp. 393-394.
- M. Cervi e I. Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dell’Asse, op. cit., p. 194.
- Sulle reazioni internazionali all’invasione italiana dell’Albania si veda E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, La Nuova Italia, Milano, 2000, pp. 394-401.
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- Mario Cervi e Indro Montanelli, Storia d’Italia. L’Italia dell’Asse, Rizzoli, Milano, 2011.
- Bernd Fisher, L’ Anschluss italiano. La guerra in Albania (1939-1945), Salento Books, Nardò, 2004.
- Giovanni Villari, L’Italia in Albania, 1939-1943, Novalogos, Aprilia, 2020.