CONTENUTO
Il contesto storico in cui nasce “Il canto degli italiani” di Mameli
Alla fine del mese di ottobre 1847 il sovrano del Regno di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, dopo diversi tentennamenti che gli procurano l’appellativo di “Re tentenna”, si decide finalmente a soddisfare le pressanti richieste dei suoi sudditi facendo loro delle concessioni. Alcune delle riforme rientrano in un progetto di razionalizzazione delle strutture amministrative e giudiziarie, mentre altre come l’istituzione dei consigli comunali elettivi, la limitazione dei poteri arbitrari della polizia e una leggera attenuazione della censura sulla stampa si caratterizzano per una natura più marcatamente liberale.
Questi provvedimenti del sovrano riaccendono le speranze dei patrioti che la sera del 31 ottobre manifestano per le strade di Torino per inneggiare Carlo Alberto. L’entusiasmo aumenta ulteriormente il 3 novembre quando viene firmato in città un accordo per la creazione di una Lega doganale tra il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio.
In quei giorni di euforia patriottica la gente si incontra in strada e nei caffè per discutere, scambiarsi idee e preparare nuove richieste da presentare al re come ad esempio l’amnistia per i reati politici e l’istituzione della Guardia Civica. La popolarità del re raggiunge vette elevatissime tanto che Carlo Alberto viene celebrato con l’inno “La coccarda. Inno al re”.
La storia della nascita dell’Inno di Mameli – Il Canto degli italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro
Con ogni probabilità sono proprio alcuni dei versi di questo nuovo inno che si stanno intonando una sera di inizio novembre 1847, nell’abitazione a Torino dello scrittore Lorenzo Valerio dove si sono riunite diverse persone, quando sopraggiunge nel salotto un nuovo ospite inaspettato. Si tratta di Ulisse Borzino, un noto pittore genovese appena arrivato dalla sua città, che subito dopo aver salutato i presenti estrae dalla propria tasca un foglio che consegna al ventinovenne compositore genovese Michele Novaro, il quale in quel periodo vive a Torino grazie ad un contratto di lavoro quale secondo tenore e maestro dei cori nei Teatri Regio e Carignano.
Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos’è; gli fan ressa d’attorno. – Una cosa stupenda! – esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. (da testimonianza del patriota Anton Giulio Barrili presente nel salotto di Valerio)
Il foglietto contiene i versi de “Il canto degli italiani” scritto qualche tempo prima da Goffredo Mameli, precoce poeta ventenne e patriota di sentimenti liberali e repubblicani che già si è messo in mostra nelle manifestazioni popolari che si sono svolte a Genova nelle settimane precedenti. Dopo aver scartato l’idea di adattare ai versi musiche già esistenti Mameli decide di affidarsi alle note capacità artistiche del Novaro che già in quel periodo sta mettendo a disposizione il suo talento compositivo per la gloriosa causa italiana.
L’emozione che si diffonde nell’abitazione di Valerio una volta letti tutti i versi del Mameli è enorme; Novaro rimane ben impressionato dal testo e subito si siede al cembalo per musicarlo. Così Anton Giulio Barrili avrebbe ricordato nel 1902 le parole riferitegli personalmente da Novaro nell’aprile 1875 in merito alle sensazioni provate in quei minuti:
Io sentii – mi diceva il Maestro nell’aprile del ’75, avendogli io chiesto notizie dell’Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli – io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte.
L’ispirazione di Michele Novaro per l’inno di Mameli
L’ispirazione, dunque, non arriva immediatamente; il Novaro deve tribolar un poco prima di trovare la musica più adatta che sia in grado di glorificare nel migliore dei modi i versi del Mameli. Si arriva così alla sera del 10 novembre 1847 quando Novaro, euforico per essere riuscito a terminare la composizione, si reca di corsa a dare il lieto annuncio agli altri patrioti che si trovano riuniti nel caffè Calosso in via Dora Grossa (attuale via Garibaldi a Torino).
Tra questi vi è anche lo scrittore e giornalista Vittorio Bersezio che ci ha lasciato la testimonianza relativa agli eventi di quella sera nel suo scritto “I miei tempi” grazie al quale sappiamo anche quale sia stata l’idea o visione che ha ispirato la musica di Novaro.
«Amici!» gridò con voce alquanto concitata «ho scritto la musica dell’Inno di Mameli. L’ho finita adesso. Voglio che la sentiate… Venite!» Un’irruzione di applausi salutò quell’annuncio, e subito seguimmo Novaro in dieci o dodici fino alla sua dimora, al terzo piano del secondo casamento di via Nuova – l’attuale via Roma – a sinistra di chi viene da Piazza Castello, una stanza non tanto vasta perché l’invasione d’una dozzina di uomini non vi facesse ingombro.
Sedette al piano. D’improvviso, si gira.«Bisogna ch’io vi dica l’idea che mi fece nascere il motivo e l’andamento di questo canto. Dico idea; dovrei dire sogno, fantasticheria, visione. La troverete bizzarra, e per tale anche a me; ma in ogni modo mi ha dominato e ispirato. Mi parve di essere in una grande pianura il cui confine si perdeva dietro l’estrema linea dell’orizzonte; a capo di essa, un rialzo, su cui un trono… una cattedra… sì, la cattedra di bronzo in San Pietro del Vaticano; e in essa solennemente assettato in solenni paludamenti Pio IX… Intorno e sotto a quel trono un innumerevole corteo di re, di principi, di guerrieri, di prelati, di magistrati: in faccia una immensa moltitudine che fittamente riempiva tutto quello spazio immenso, le popolazioni di tutta la penisola là convocate ad una dieta universale delle genti italiche.
Tutti avevano viso e occhi intenti nel Pontefice, e un gran silenzio incombeva su quella folla immobile e aspettante. Pio IX si alza, tende le braccia verso quella moltitudine, e con voce grave, solenne, lenta annunzia ai popoli la buona novella: «Italia essersi desta, riprendere la gloriosa sua strada, doversi fare a lei schiava la vittoria!» Un sussurro si leva da quella folla: si guardano attoniti, s’interrogano, si ripetono a mezza voce, agitati, frementi, le parole del Pontefice. Se ne persuadono. Ma allora bisogna combattere e vincere; si combatta: «Stringiamoci in coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò». Se lo ripetono esaltandosi, l’entusiasmo li manda ad un crescendo incalzante che si conchiude in un grido supremo, il quale è un giuramento e un grido di guerra. E il poeta mi perdonerà se, per mandare questo grido, ho aggiunto all’ultimo verso una sillaba: «L’Italia chiamò: Sì».
La sua voce, che pel teatro era poca, per quella camera riusciva piena e sonora; e l’interno affetto e il sentimento onde era stato ispirato davano al canto un’efficacia di espressione che nulla più. Quando ebbe gettato quell’ultimo grido, quel «Sì!» finale che ha tanta forza e fierezza, scoppiò un vero entusiasmo; tutti ci si strinse intorno al maestro, lo si abbracciò, si baciò, si plaudì, si gridò, si pianse. Si proclamò, è vero, che l’Italia aveva il suo canto. Quel canto bisognava farlo conoscere, diffonderlo. Lo fece l’Accademia Filodrammatica, che aprì le sue porte ai cantori dell’inno del Novaro e al pubblico che doveva giudicarlo. L’effetto fu enorme. Pochi giorni dopo tutta Torino sapeva quel canto, poi tutto il Piemonte, poi tutta l’Italia. (Da “I miei tempi” di Vittorio Bersezio)
Il film-documentario di Raiplay “L’inno di Mameli. Il canto degli italiani” di Maurizio Benedetti
Il debutto dell’inno di Mameli e Novaro a Genova
Il sacro inno degli italiani vede così la luce e l’immediatezza dei versi e l’impeto coinvolgente della melodia, come ha scritto il Bersezio, sono in grado di far “scorrere per le membra un brivido soave e potente, che ne innalza lo spirito a più sereni cieli, che ci fa capaci di comprendere e di compiere le gesta degli eroi”. L’inno di Mameli e Novaro diventa immediatamente popolare e si diffonde con entusiasmo tra i patrioti.
Il suo debutto ufficiale è inizialmente previsto per il 4 dicembre 1847 a Torino in occasione del ritorno di Carlo Alberto da Genova, ad un mese esatto dalla sua partenza da Torino. Così scrive proprio quel giorno il quotidiano Il Mondo illustrato:
La poesia però che per lo splendore delle immagini, per la novità originale davvero del concetto, pel vigore del sentimento e per la naturale e spontanea armonia del ritmo vince al paragone tutte le altre e sopravviverà alle ingiurie del tempo ed alla dimenticanza dei secoli è l’inno nazionale dettato dal giovane Mameli genovese, che verrà reso di publica ragione in questi giorni. È vero inno nazionale, è inno italiano, sarà il nostro Peana.
In tale occasione però viene eseguita solo “La coccarda” in onore del sovrano. Il Canto degli Italiani dunque deve attendere qualche altro giorno per il suo debutto che avviene il 10 dicembre 1847 a Genova quando, sul piazzale del santuario di Nostra Signora di Loreto del quartiere di Oregina, viene eseguito dalla Filarmonica Sestrese di fronte alla cittadinanza riunitasi per commemorare la rivolta del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti austriaci durante la guerra di successione austriaca.
L’apprezzamento per il Canto degli italiani arriva anche dal maestro Giuseppe Verdi che nel suo Inno delle Nazioni del 1862 affida proprio all’inno di Mameli e Novaro, anziché alla Marcia Reale di casa Savoia, il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto agli altri inni God Save the Queen e la Marsigliese. Non stupisce quindi il fatto che il 12 ottobre 1946 l’Inno di Mameli sia diventato l’inno nazionale della Repubblica Italiana battendo la concorrenza di altri due brani carichi di significato: la “Leggenda del Piave” di E.A. Mario e il coro “Va pensiero” tratto dal Nabucco di Giuseppe Verdi.
Significato e testo completo dell’Inno di Mameli con strofe e ritornello (AUDIO)
Il canto di Mameli, che si compone di sei strofe ed un ritornello, conquista immediatamente, sin dalla prima lettura, tutti gli invitati presenti nel salotto di Valerio per la potente incisività dei versi che richiamano all’antichità classica e ad altri gloriosi episodi del passato della storia italiana a partire dalle parole “Dell’elmo di Scipio”, un chiaro riferimento all’elmo del generale Publio Cornelio Scipione l’Africano che l’Italia deve indossare per combattere e riscattarsi.
Un’ispirazione di Mameli all’inno nazionale francese può essere individuata, invece, nelle parole «Stringiamci a coorte» che richiamano alla mente il verso della Marsigliese, «Formez vos bataillon» (“Formate i vostri battaglioni”).
«Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.»«Noi siamo da secoli
calpesti, derisi
perché non siam Popolo,
perché siam divisi:
raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.»
Di idee mazziniane e repubblicane Mameli mette in versi nella terza strofa il disegno politico di Giuseppe Mazzini creatore della Giovine Italia e della Giovine Europa, dando enfasi al francesismo “Per Dio“.
«Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore;
giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti per Dio,
chi vincer ci può!?»
Nella quarta strofa, Mameli ripercorre eventi storici legati la lotta dei secoli passati contro il dominio straniero, a partire dalla battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda riesce a sconfiggere l’imperatore Federico Barbarossa, passando per l’strema difesa della Repubblica di Firenze assediata dall’esercito imperiale di Carlo V nel 1530 di cui diventa simbolo il capitano Francesco Ferrucci, fino ad arrivare alla figura di Balilla che rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova del 1746 contro la coalizione austro-piemontese e alla rivolta dei Vespri siciliani del 1282.
«Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano,
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano,
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla,
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.Son giunchi che piegano
le spade vendute:
ah l’aquila d’Austria
le penne ha perdute;
il sangue d’Italia
bevé, col Cosacco
il sangue polacco:
ma il cuor le bruciò.Evviva l’Italia,
dal sonno s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.»