CONTENUTO
All’alba del 26 ottobre del 1860 avviene lo storico incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Taverna Catena, presso Teano. Il re sabaudo ha occupato i territori pontifici nelle Marche e nell’Umbria ed è andato incontro a Garibaldi, che nel frattempo, ha respinto il tentativo di controffensiva dell’esercito borbonico nella battaglia del Volturno completando, in tal modo, la conquista del Regno delle Due Sicilie. L’incontro tra il generale e il sovrano sabaudo rappresenta formalmente la fine della spedizione dei mille e la consegna del Regno delle Due Sicilie.
Vittorio Emanuele II al comando dell’esercito piemontese
Con la vittoria della battaglia del Volturno Garibaldi ha stroncato ogni speranza del re Francesco II e dei borbonici di poter riprendere la città di Napoli. Il 3 ottobre Vittorio Emanuele II assume personalmente il comando dell’esercito piemontese, acquartierato, in quel momento, ad Ancona. Il suo primo ministri Camillo Benso conte di Cavour, per prevenire qualsiasi imprevisto, provvede a farlo accompagnare dal ministro degli interni Luigi Carlo Farini e da quello della guerra Manfredo Fanti, entrambi due uomini di sua fiducia e, allo stesso tempo, molto sgraditi a Garibaldi.
Quest’ultimo dal canto suo si mostra ben disposto ad accettare l’intervento militare piemontese nel Mezzogiorno, coltivando la speranza di poter svolgere ancora un ruolo importante nella formazione del nuovo Stato:
“Non sarebbe male che la M. V. ordinasse a parte delle truppe che si trovano vicino alla frontiera abruzzese, di passare quella frontiera e far abbassare le armi a certi gendarmi che parteggiano ancora per i Borbone”. (Estratto di lettera di Garibaldi a Vittorio Emanuele II)
L’esercito piemontese, condotto dal proprio sovrano, avanza fino a Pescara ripiegando successivamente verso il Molise. Il 20 ottobre l’avanguardia sabauda viene a contatto, nei pressi di Isernia, con un piccolo contingente borbonico che viene facilmente sconfitto. Dopo l’occupazione di Isernia e Venafro i piemontesi hanno la via libera per procedere verso la pianura del Volturno.
Nel frattempo il 21 ottobre si svolge in tutto il meridione il plebiscito per l’annessione dell’Ex Regno delle due Sicilie agli altri territori peninsulari. I votanti, oltre 1 milione e 300 mila nel napoletano e circa 500 mila in Sicilia, rispondono favorevolmente alla domanda: “Volete l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?“.
Incontro di Teano, 26 ottobre 1860: Garibaldi e Vittorio Emanuele II
Il 25 ottobre Garibaldi, alla testa dei suoi ufficiali e di qualche migliaio di uomini, passa il Volturno per andare incontro al re. La mattina del 26 il generale si trova al quadrivio della Catena, presso il paese di Vairano a pochi chilometri da Teano, quando intravede avanzare in lontananza le avanguardie piemontesi.
Garibaldi indossa l’inseparabile poncho e porta al collo un fazzoletto bianco di seta; i soldati dell’esercito piemontese gli si avvicinano nelle loro uniformi blu. Qualche istante dopo, preceduto dalle note della marcia reale, sopraggiunge sul suo cavallo Vittorio Emanuele II, che indossa la divisa da generale ed è seguito dagli ufficiali del suo Stato Maggiore.
Il colloquio tra i due dura qualche minuto ed è abbastanza freddo: il generale si limita a cedere formalmente a Vittorio Emanuele II le responsabilità governative del territorio meridionale della penisola e a sua volta il re gli chiede di fermare la conquista per scongiurare un possibile intervento militare dell’imperatore francese Napoleone III in Italia.
Quando Garibaldi chiede al sovrano di far partecipare i suoi volontari alle successive operazioni militari contro gli ultimi nuclei di resistenza borbonica si sente rispondere: “Voi vi battete da lungo tempo. Tocca a me ora. Le vostre truppe sono stanche, le mie fresche. Passate alla riserva“. Per Garibaldi la risposta è una doccia fredda. Capisce in quel momento di essere costretto a farsi da parte.
Alberto Mario sull’incontro di Teano
Il garibaldino Alberto Mario ha lasciato ai posteri un interessante resoconto sull’incontro di Teano del quale è stato testimone oculare:
Quando improvvisamente una botta di tamburi troncò le musiche e s’intese la marcia reale.
– Il re! disse Della Rocca.
– Il re! il re! ripeterono cento bocche.
E in vero una frotta di carabinieri reali a cavallo, guardia del corpo, armati di spada, di pollici e di manette, annunziò la presenza del monarca sardo. Il re, coll’assisa (uniforme) di generale, montava un cavallo arabo. Lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori: tutta gente avversa a Garibaldi, a codesto plebeo donator di regni. Disotto al cappellino, Garibaldi s’era acconciato il fazzoletto di seta per proteggere le orecchie e le tempie dalla mattutina umidità. All’arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo:
– Oh, vi saluto, caro Garibaldi, come state?
– E Garibaldi: Bene Maestà e Lei?
– E il re: Benone!
Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi, come chi parla alle turbe, gridò:
-Viva il Re d’Italia!
-E i circostanti: Viva il re!Vittorio Emanuele, trattosi in disparte pel libero transito delle truppe, s’intrattenne qualche tempo a colloquio col generale. Postomi con istudio vicino ad ambedue, ero vago d’intendere per la prima volta come parlino i re, e di avverare se all’altissimo grado corrisponda l’altezza dell’ingegno e del pensiero. La situazione era epica: suolo campano e Capua a poca ora; grandi ombre di consoli romani e di Annibale; incontro degli eserciti di Castelfidardo e di Maddaloni; vigilia della battaglia; contatto della camicia rossa e della porpora; d’un principe ricevitore e d’un popolano datore di una corona; trasformazione d’un regolo in re d’Italia.
Sua Maestà favellò del buon tempo e delle cattive strade, intercalando le considerazioni con rauchi richiami e con alcune ceffate al nobile corsiero irrequieto. Indi si mosse. Garibaldi gli cavalcava alla sinistra, e a venti passi di distanza il quartiere generale garibaldino alla rinfusa col sardo.
Ma a poco a poco le due parti si separarono, respinta ciascuna al proprio centro di gravità; in una riga le umili camicie rosse, nell’altra a parallela superbe assise lucenti d’oro, d’argento, di croci e di gran cordoni.
Se non che, immezzo alla vanità di queste umane grandezze sorgeva in atto benigno e vestita di realtà l’idea d’una buona colazione che i regi cuochi precorsero ad imbandirci presso Teano. In tanto strepito d’armi e corruscare di spallini e ondeggiare di cimieri, i contadini accorrevano attoniti ad acclamare Garibaldi.
Dei due che precedevano, ignorando quale ei fosse, posero con certezza gli occhi sul più bello. Garibaldi procacciava di deviare quegli applausi sul re, e, trattenuto d’un passo il cavallo, inculcava loro con molta intensità d’espressione:
– Ecco Vittorio Emanuele, il re, il nostro re, il re d’Italia; viva lui!
I paesani tacevano e ascoltavano, ma non comprendendo sillaba di tutto ciò, ripicchiavano il Viva Calibardo! Il povero generale alla tortura sudava sangue dagli occhi, e conoscendo come il principe tenesse alle ovazioni e quanto la popolarità propria lo irritasse, avrebbe volentieri regalato un secondo regno pur di strappare dal labbro di quegli antipolitici villani un Viva il re d’Italia! anche un semplice Viva il re! Ma la difficoltà si sciolse prontamente, perché Vittorio Emanuele spinse il cavallo al galoppo.
Tutti noi gli si galoppò dietro, e con noi Farini, il quale, agguantata la testa della sella, curava poco le redini e meno le staffe, e ad ogni movimento della bestia le brache aggroppavansigli alla volta delle ginocchia. Per buona sorte il re, oltrepassati i villani, si rimise al passo, rassettò la tunica, raddrizzò il berretto, asciugò il sudore e riatteggiossi decorosamente. Al ponte d’un torrentello che tocca Teano, Garibaldi fece di cappello al re; questi proseguì sulla strada suburbana, quegli passò il ponte, e separaronsi l’un l’altro ad angolo retto. Noi seguimmo Garibaldi, i regi il re.
Dopo l’incontro il re si ferma a Teano mentre il generale ritorna fra i suoi sul Volturno. A Jessie White, moglie del patriota Alberto Mario e fautrice della causa italiana, Garibaldi confida amareggiato: “Jessie, ci hanno messi alla coda“.
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