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Galileo Galilei e il Copernicanesimo
Gli avversari di Galileo si trincerano sempre più dietro il bastione della Sacra Scrittura per rendere vano il progetto galileiano di far accettare, o almeno considerare senza pregiudizi, il copernicanesimo nel modo cattolico dell’epoca.
Nella Lettera a Castelli del 21 dicembre 1612 Galileo tratta esplicitamente e a fondo dei rapporti fra la scienza e la Bibbia. In primo luogo, Galileo ammette che la Sacra Scrittura non può mai mentire o ingannare, ma aggiunge subito che possono errare i suoi interpreti o espositori in vari modi, il più grave dei quali sarebbe se essi si fermano al puro significato verbale di essa. Data dunque la necessità di una interpretazione della Bibbia diversa da quella letterale “mi pare che nelle dispute naturali ella dovrebbe essere riserbata nell’ultimo luogo”.
Secondo Galileo la Scrittura deve adattarsi alle comuni capacità di intendimento quindi usare parole e modi di dire che, presi nel loro senso letterale, sono lontani dalla verità e “una volta che si fosse sicuri di certi effetti naturali”, i teologi devono sforzarsi di trovare il vero senso dei passi scritturistici che hanno relazione con essi.
Nella Lettera a Cristina di Lorena del 1615, fatta circolare tra gli amici più fidati e data alla stampa nel 1636, propone in forma più sistematica e approfondita le considerazioni contenute nella Lettera a Castelli. Attacca i suoi avversari “si son risoluti a tentar di fare scudo alle fallacie de’ lor discorsi col manto di simulata religione e con l’autorità delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni né intese né sentite”.
Galileo formula quel principio dell’autonomia dello studio della natura che diverrà uno dei cardini della ricerca scientifica moderna: “nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie”.
Egli cerca di dimostrare come la teoria copernicana non sia da condannare affrettatamente in base a una sua pretesa opposizione con la S. Scrittura. La tesi fondamentale di Galileo, che si basa su testi della tradizione dottrinale della Chiesa soprattutto di S. Agostino, è che la scelta fra la mobilità o stabilità della Terra o del Sole non ha relazione con il messaggio religioso della Bibbia, non riguarda il campo delle verità di fede o della morale cristiana.
Galileo a Roma per difendere il copernicanesimo
L’11 dicembre 1615 Galileo è a Roma per difendere il copernicanesimo dai detrattori aristotelici. La sua intensa attività a favore del copernicanesimo insieme con la presa di posizione del teologo carmelitano Antonio Foscarini (che in un opuscolo sostiene che il copernicanesimo, grazie anche alle scoperte di Galileo, appare più verosimile del sistema tolemaico e che deve essere possibile conciliarlo con i brani scritturistici che fanno difficoltà) creano troppa confusione perché la Chiesa possa ancora esitare a prendere una chiara posizione in merito.
Il 19 febbraio 1616, due proposizioni che riassumono le affermazioni principali del sistema copernicano, vengono sottoposte all’esame dei qualificatori del Santo Uffizio. Esse sono così formulate:
- Che il sole sii centro del mondo, et per conseguenza immobile di moto locale
- Che la terra non è centro del mondo, né immobile, ma si move secondo sé tutta, etiam di motto diurno.
I teologi incaricati di esaminare le proposizioni non sono certo competenti nel campo astronomico. Nella riunione plenaria dei qualificatori e dei consultori del Sant’Uffizio del 24 febbraio, essi si accordano sulle qualifiche da dare alle due proposizioni. Circa la prima:
“Tutti dissero che tale proposizione è stolta ed assurda dal punto di vista filosofico e formalmente eretica, in quanto contraddice espressamente le affermazioni della S. Scrittura in molti luoghi secondo il senso proprio delle parole ed il senso dei S. Padri e dei Dottori teologi.”
Circa la seconda:
“Tutti dissero che tale proposizione merita la stessa cesura filosofica; e dal punto di vista della verità teologica, è per lo meno erronea nella Fede”.
Nel linguaggio teologico “formalmente eretica” significa direttamente contrari a una dottrina di fede (è la cesura teologia più grave possibile). Secondo i qualificatori e i consultori, le affermazioni della Scrittura e dei Padri sul moto del sole sono una dottrina di fede.
La qualifica della seconda proposizione, invece, è meno grave: “erronea nella fede” significa che si riconosce che l’immobilità della terra non è affermata in modo del tutto chiaro dalla Scrittura e che perciò la sua negazione (ossia l’affermazione del moto della Terra) non è direttamente contraria alla Scrittura. Però, dato che si deve accettare per fede il moto del sole intorno alla Terra, non resta che una conclusione teologica possibile: che la Terra sia immobile. È appunto questo il senso della cesura “erronea nella fede”: dottrina contraria solo a una verità cattolica non definita come di fede.
L’intervento del Sant’Uffizio
Galileo è ormai famoso in tutta l’Europa ed è ‘matematico e filosofo primario’ del Granduca di Toscana, di cui gode pubblicamente la fiducia e l’appoggio. D’altra parte non si può dubitare della sincerità della sua fede, nonostante le sue idee astronomiche. Perciò il 25 febbraio, durante la riunione settimanale dei cardinali del S. Uffizio, papa Paolo V ordina al cardinale Bellarmino di convocare privatamente Galileo e ammonirlo ad abbandonare le suddette proposizioni. Con questo espediente, lo si vuole far tacere senza ledere la sua fama e senza offendere il Granduca. Il 26 Galileo si sottomette.
Il 1° marzo Bellarmino, sempre su incarico del papa, sottopone agli altri cardinali membri della Congregazione dell’Indice il problema della formulazione teologica dello status del copernicanesimo nei confronti della S. Scrittura e delle misure da prendere nei confronti dell’opera di Copernico e di quelle favorevoli al copernicanesimo.
Il decreto della Congregazione viene pubblicato il 5 marzo 1616. In esso si afferma che:
“affinché una tale opinione (il copernicanesimo) non serpeggi ulteriormente a pernicie della verità cattolica, ha decretato di sospendere, finché non siano corretti, i detti Nicola Copernico De Revolutionibus orbium e Didaco Astunica su Giobbe; che il libro del Padre Paolo Antonio Foscarini Carmelitano sia invece del tutto da proibire e condannare; e che tutti gli altri libri, che parimenti insegnano lo stesso, siano da proibire; come con il presente Decreto li proibisce, condanna e sospende rispettivamente tutti”.
Cominciano a circolare voci insistenti secondo cui Galileo, chiamato all’Inquisizione per rendere conto delle sue convinzioni copernicane, ha abiurato e che gli sono state imposte severe penitenze. Galileo decide di ricorrere a Bellarmino, che gli rilascia il 26 maggio un attestato. Dopo aver escluso l’abiura e le penitenze, vi è scritto:
“solo gl’è stata denuntiata dichiarazione fatta da N.ro Signore et pubblicata dalla Congregatione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, […], sia contraria alle sacre Scritture e perciò non si possa difendere né tenere.”
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi
Nel 1623 il cardinale Maffeo Barberini, amico ed estimatore dello scienziato, diventa papa Urbano VIII. Convinto del momento propizio per promulgare le sue idee e le sue corrette convinzioni scientifiche, Galileo scrive dal 1624 al 1630 un libro nel quale i personaggi discutono il sistema aristotelico e quello copernicano. L’aristotelico Simplicio viene dichiarato vincitore della disputa, nonostante il lettore capisce in realtà la serietà degli argomenti portati dal copernicano, perché il libro è scritto in italiano.
L’inquisitore di Firenze Clemente Egidi concede l’autorizzazione alla pubblicazione del Dialogo il 24 maggio 1631 su licenza del Maestro del Sacro Palazzo a Roma, Niccolò Riccardi, dopo la revisione del manoscritto operata dal consultore dell’Inquisizione, il domenicano Giacinto Stefani, con la nota condizione di presentare la teoria copernicana solo ex suppositione. È pubblicato il 21 febbraio 1632 da Giovan Batista Landini.
Urbano VIII, eletto dai cardinali filofrancesi, in politica estera è filo-francese, anti-imperiale e anti-spagnola. Durante il concistoro del marzo 1632, il cardinale Gaspare Borgia, ambasciatore di Spagna, attacca violentemente il papa, accusandolo di favorire la causa degli eretici. Il papa, infatti, in questa fase della Guerra dei Trent’anni favorisce l’intesa fra il re di Francia, il duca di Baviera e il protestante Gustavo Adolfo re di Svezia, esponendosi a critiche sempre più aspre da parte dei partigiani di Spagna e dell’Impero germanico secondo cui la politica papale tradisce la causa cattolica.
In quel clima in cui si critica apertamente e duramente la mancanza di zelo cattolico del papa, il Dialogo può costituire un ulteriore e grave motivo di accusa verso Urbano VIII. Le reazioni in Roma, all’uscita del libro, non si fanno attendere: già il Maestro del Sacro Palazzo Nicola Riccardi, aveva scritto il 25 luglio all’inquisitore di Firenze, Clemente Egidi, che il Dialogo non piace al papa e che deve essere corretto; gli scrive ancora, il 7 agosto, di contarne le copie già uscite per ritirarle, ma si premura che l’Egidi consoli «l’autore, che stia di buon animo».
Ad aggravare la posizione di Galileo è il ritrovamento negli archivi del S. Uffizio di un documento del 26 febbraio 1626 in cui il Commissario del S. Uffizio Segizzi, dopo l’ammonimento del Bellarmino “ha ordinato […] al predetto Galileo […] di abbandonare del tutto la predette opinione […] e di non tenerla, insegnarla o difenderla con parola o con gli scritti, in qualsiasi modo (nec eam […] quovis modo teneat, doceat aut defendeat)”. Inoltre, una commissione di tre teologi (Riccardi, Oreggi, Inchofer) convocata da Urbano VIII conferma che Galileo ha difeso il copernicanesimo e che si deve far esaminare il Dialogo dal S. Uffizio.
Il 28 settembre 1632 il Sant’Uffizio emette la citazione di comparizione di Galileo a Roma. Diversi sono i suoi tentativi di evitare di presentarsi a Roma. Privo della protezione del Granduca di Toscana, che non intende mettersi in urto con la Chiesa, il 20 gennaio 1633 parte per Roma in lettiga e vi arriva il 13 febbraio 1633. Arrivato a Roma è ospite a Palazzo Firenze dell’ambasciatore di Toscana Niccolini. Per due mesi non ha notizie dagli inquisitori e l’ambasciatore ottiene che Galileo, sofferente di artrite, possa, anche durante il processo, rimanere presso l’ambasciata toscana: gli viene concesso con l’eccezione del periodo tra il primo e il secondo interrogatorio, in cui viene trattenuto nelle camere del giudice nel Palazzo del Sant’Uffizio.
Il processo a Galileo Galilei
Il 12 aprile 1633 si presenta al Commissario del S. Uffizio Vincenzo Maculano, che è assistito dal procuratore padre Carlo Sincero. Il Commissario comincia ad interrogare Galileo sugli avvenimenti del 1616. Si vuole appurare la sua responsabilità nella trasgressione degli ordini ricevuti da Bellarmino e da Segizzi, sulla base del documento ritrovato al S. Uffizio.
Galileo precisa che la decisione della Congregazione gli fu notificata dal Bellarmino, il quale:
“Nel mese di febbraio 1616, il Sig.r Card.le Bellarmino mi disse che, per esser l’opinione del Copernico assolutamente presa, contrariante alle Scritture Sacre, non si poteva né tenere né difendere […] ma che ex suppositione si poteva pigliar e servirsene. In conformità di che tengo una fede dell’istesso S.r Card.le Bellarmino, fatta del mese di Maggio a’ 26”
E Galileo consegna la copia della lettera, dichiarando di conservare l’originale in casa. Maculano domanda se gli fu rivolto un precetto (ossia un ordine che, se violato, avrebbe comportato una pena) alla presenza di testimoni, in cui “si conteneva che non poteva in qualsiasi modo (quovis modo) tenere, difendere o insegnare (nec docere) la detta opinione”.
Risponde Galileo di non ricordare che nella dichiarazione del Bellarmino vi fossero le parole quovis modo e nec docere. Ma Galileo ammette di avere ricevuto un precetto da Bellarmino di non tenere né difendere l’opinione copernicana. Galileo commette un errore perché era un ammonimento e non un precetto.
L’inquisitore, verbalizzando, dà per avvenuta l’intimazione del presunto precetto. Dopo aver risposto sulle vicende dell’imprimatur al suo Dialogo, sostiene di non avervi «né tenuta né difesa l’opinione della mobilità della Terra e della stabilità del Sole; anzi nel detto libro io mostro il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti». Con questa disperata difesa si chiude il primo interrogatorio.
Il Dialogo è nuovamente esaminato da tre teologi (Oreggi, Inchofer e Pasqualigo) incaricati dal S. Uffizio. I tre confermano che Galileo ha effettivamente trasgredito il precetto del 1616.
Il secondo interrogatorio del processo (30 aprile) è frutto del tentativo extragiudiziale di Maculano: il 27 in un colloquio privato Galileo ammette di aver commesso un errore e si decide di confessarlo nel processo. Nell’interrogatorio afferma di aver riletto il Dialogo per esaminare se realmente abbia mancato al precetto e che gli sembra
“quasi come scrittura nova e di altro autore […] distesa in tal forma che il lettore, non consapevole dell’intrinseco mio, harebbe avuto ragione di formarsi concetto che gli argomenti portati per la parte falsa, e ch’io intendevo confutare […] vengono veramente […] avvalorati all’orecchio del lettore più di quello che pareva convenirsi a uno che li tenesse per inconcludenti e che li volesse confutare […] di essere incorso in un errore tanto alieno dalla mia intenzione che […] s’io avessi a scriver adesso le medesime ragioni, non è dubbio ch’io le scriverei di maniera che elle non potrebbero fare apparente mostra di quella forza della quale essenzialmente e realmente son prive”.
Tornato alle sue stanze, poco dopo ritorna dinnanzi all’inquisitore ribadendo ancora di non aver mai sostenuto “la dannata opinione della mobilità della terra” e di esser pronto a riscrivere il libro “dovendo io soggiungere una o due altre giornate, prometto di ripigliare gli argomenti già recati a favore della detta opinione falsa e dannata, e confutargli in quel più efficace modo che da Dio mi sarà somministrato”.
Considerata la cattiva salute dello scienziato, Maculano gli concede il permesso di lasciare il palazzo dell’Inquisizione e di tornare all’ambasciata fiorentina.
Il 10 maggio è richiamato al S. Uffizio. Galileo rilascia una sua difesa scritta e l’originale dell’attestato del 26 maggio 1616 del Bellarmino, rilevando che il contenuto di quella lettera corrisponde esattamente al decreto del 5 marzo 1616 della Congregazione dell’Indice, a parte le parole quovis modo e nec docere contenute soltanto nel precetto lettogli nel primo interrogatorio, che gli sono giunte “novissime e come inaudite”.
Galileo sottolinea che non si può dedurre che gli sia stato fatto alcun precetto. Quindi non credeva necessario notificare al padre Ricciardi, quando chiese la licenza per la stampa del Dialogo, l’ammonimento ricevuto perché il decreto del 5 marzo 1616 era noto a tutti. Inoltre, non nega la possibilità che il precetto gli sia stato comminato, ma si scusa dicendo di aver dimenticato, nel lungo periodo intercorso, l’esatta formulazione di esso, tanto più che l’attestato di Bellarmino gli toglieva la preoccupazione di ricordare altri particolari.
La condanna e l’abiura
Nella seduta del S. Uffizio del 16 giugno, il papa e i cardinali prendono la decisione finale. Il 21 giugno si tiene l’ultimo interrogatorio circa l’intenzione che Galileo ha avuto scrivendo il Dialogo.
Alla domanda se egli sostenga o avesse sostenuto la teoria eliocentrica risponde:
“avanti la determinazione della Congregazione dell’Indice e prima che mi fusse fatto quel precetto io stavo indifferente e avevo le due opinioni, cioè di Tolomeo e di Copernico, per disputabili, perché o l’una o l’altra poteva esser vera in natura; ma dopo la determinazione suddetta, assicurato dalla prudenza de’ superiori, cessò in me ogni ambiguità, e tenni, sì come tengo ancora, per verissima e indubitata l’opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della Terra e la mobilità del Sole”
L’interrogante ribatte che:
“era invece proprio dal libro, e dalle ragioni addotte in favore del moto della terra, che si presumeva che egli tenesse, o almeno avesse tenuto, al tempo [in cui aveva scritto il libro], l’opinione copernicana; e perciò se non si risolve a dire la verità, si ricorrerà contro di lui con gli opportuni rimedi di diritto e di fatto.”
Galileo, continuando a mentire, dice:
“Io non tengo né ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla; del resto, son qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace.”
Galileo si mostra irremovibile anche sotto la minaccia di tortura “Io son qua per far l’obedienza; e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto”.
Il giorno dopo, Galileo, obbligato a vestire il sanbenito (l’abito di penitenza), è condotto al convento domenicano di S. Maria sopra Minerva dove i cardinali e gli officiali del S. Uffizio sono riuniti in seduta plenaria. Ordinatogli di mettersi in ginocchio, ha inizio la lettura della sentenza di condanna:
“Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiaramo che tu, Galileo suddetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S.o Off.o veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura […] Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma da noi ti sarà data. E acciocché questo tuo grave e pernicioso errore e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell’avvenire e essempio all’altri che si astenghino da simili delitti. Ordiniamo che per publico editto sia proibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei. Ti condanniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t’imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali”.
A Galileo non resta che obbedire e, sempre in ginocchio, legge la formula di abiura che gli è presentata:
“Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel Convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria”.
La riabilitazione di Galileo Galilei
La prima vera riabilitazione dello scienziato da parte della Chiesa cattolica si può datare al 1822 da parte del papa Pio VII con la concessione dell’imprimatur all’opera “Elementi di ottica e astronomia” del canonico Settele, che dà come teoria consolidata e del tutto compatibile con la fede cristiana il sistema copernicano.
Nel 1835 in occasione della pubblicazione della nuova edizione dell’Indice dei libri proibiti, tutte le opere sul sistema copernicano vengono finalmente rimosse dall’elenco. La decisione è presa personalmente da papa Gregorio XVI, ma con la prescrizione che lo si faccia silenziosamente.
Il 10 novembre 1979 papa Giovanni Paolo II auspica che l’esame del caso Galilei venga approfondito da “teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, […] nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano” per rimuovere “le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo”. Come seguito concreto di questa proposta, il 1° maggio 1981 è istituita un’apposita Commissione di studio.
Dopo oltre 11 anni dall’inizio dei lavori e 359 anni dopo la condanna di Galileo, nella relazione finale della commissione di studio datata 31 ottobre 1992, il cardinale Poupard scrive che la condanna del 1633 fu ingiusta, per un’indebita commistione di teologia e cosmologia pseudo-scientifica, e arretrata, anche se viene giustificata dal fatto che Galileo sosteneva una teoria radicalmente rivoluzionaria senza fornire prove scientifiche sufficienti a permettere l’approvazione delle sue tesi da parte della Chiesa. Giovanni Paolo II, preso atto dei lavori della commissione osserva che “una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede”.
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- A. Fantoli, Galileo per il copernicanesimo e per la chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2010