CONTENUTO
Mussolini giovane socialista: la nascita e le idee
Benito Mussolini è nato a Dovia, frazione di Predappio in Forlì, il 29 luglio 1883, primo di tre figli di Alessandro e Rosa Maltoni (seguiranno Arnaldo nel 1885 e Edvige nel 1888).
Il padre viene da una famiglia di piccoli proprietari contadini andati in rovina. Avviato ancora ragazzino al mestiere di fabbro ferraio, apre poi bottega a Dovia dove sposa Rosa Maltoni, maestra elementare originaria di Ravenna. Alessandro Mussolini dedica più tempo alla politica che al lavoro. Socialista, sostiene Andrea Costa, primo deputato socialista al parlamento, ma crede nel socialismo rivoluzionario necessariamente violento per l’abbattimento dell’ordine borghese.
Il suo socialismo riflette l’influenza dell’anarchismo di Bakunin sul movimento socialista italiano. Di cultura sommaria ma non illetterato, Alessandro riempie la casa di giornali e opuscoli dai quali si abbeverano i due figli maschi. L’impegno politico lo porta alla carica di assessore al Comune di Predappio e dura almeno fino alla morte della moglie Rosa nel 1905, quando lascerà Dovia per aprire a Forlì un’osteria con Anna Lombardi, la madre di Rachele futura moglie del figlio Benito.
Lo storico Renzo De Felice giudica Alessandro Mussolini «tra le più interessanti» delle figure minori del socialismo romagnolo. L’influenza del padre è riconosciuta da Benito stesso in scritti posteriori, gli trasmise il suo socialismo rivoluzionario e anarcoide, intransigente alternativa all’ordine borghese, non privo del rancore sociale del declassato.
La vita della famiglia è proletaria, estremamente povera, si campa con il magro stipendio della madre, una donna credente, conformista, che mette insieme a fatica il pranzo con la cena. Ma la mentalità familiare è piccolo borghese, del padre figlio di ex proprietari e della madre che ha lo status dell’istruzione, in casa non si parlava in dialetto ma in lingua.
Il ragazzo è sveglio, vivace, inquieto e indisciplinato. La madre, per educarlo e avviarlo a un futuro rispettabile, vince la resistenza del marito anticlericale e a nove anni lo mette in un collegio dei salesiani a Faenza, severo e freddo, punitivo e discriminatorio, dal quale viene espulso due anni dopo per aver ferito alla mano con un temperino un compagno in una rissa. L’episodio darà la stura a biografi ostili per sottolineare la natura violenta dell’uomo. Ma esso resta isolato.
Il rapporto con la violenza sarà ideologico e maturerà con gli studi della sua formazione politica. Gli sforzi della madre riescono a collocarlo a Forlimpopoli, in un ambiente laico e più comprensivo, il collegio «Giosuè Carducci», diretto dal fratello del poeta, Valfredo, dove resta dal 1894 al 1901 e completa gli studi con infrazioni non gravi alla disciplina, fino alla licenza di maestro elementare.
Il giovane Mussolini: alla ricerca di una via
Non adattandosi a lavorare nell’officina del padre, inizia per Mussolini piccolo borghese la faticosa ricerca di un impiego di maestro, con scarso successo e ancor più scarso reddito. Fu maestro supplente a Gualtieri Emilia dal febbraio al giugno del 1902, l’incarico è a termine e non viene rinnovato, per di più non ha perso l’occasione di un’avventura sentimentale pubblica con una giovane maritata che fa scandalo. Ma non intende tornare a Dovia.
Decide di emigrare in Svizzera, dove dal luglio 1902 al novembre 1904 gira nei vari cantoni, Berna, Ginevra, Losanna, alla ricerca di occupazione ma anche di novità spinto dall’inquietudine del suo temperamento. Campa di lavori saltuari, garzone, operaio, manovale, entra negli ambienti degli emigrati italiani, poveri operai di scarsa istruzione se non illetterati, tra i quali gli è facile emergere come conferenziere e scrittore di pezzi per i fogli socialisti locali.
La politica non è ancora la sua strada, è alla ricerca della sua via di ascesa sociale, accarezza l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti, ma intanto essa gli rende qualche compenso e soprattutto conosce personaggi che saranno importanti nel suo percorso futuro, Giacinto Menotti Serrati e Angelica Balabanoff. Ma attira anche l’attenzione della polizia e viene espulso nel giugno 1903, ma in luglio riesce a rientrare.
Nella primavera successiva subisce una seconda espulsione, ma la scampa grazie alla mobilitazione dei compagni, che limita l’espulsione al cantone di Ginevra. Passa gli ultimi mesi svizzeri a Losanna. Il periodo svizzero è fondamentale per la prima esperienza politica, per le relazioni che aiutano la sua formazione, in particolare la Balabanoff per il marxismo, per lo studio, segue lezioni del sociologo Vilfredo Pareto, collabora con la rivista di Arturo Labriola «Avanguardia socialista» e assimila le idee del sindacalismo rivoluzionario.
Sottrattosi alla leva della sua classe nel marzo 1904 e condannato per diserzione semplice, rientra in Italia alla fine di novembre per assolvere il servizio militare, profittando dell’amnistia concessa per la nascita dell’erede al trono. È già schedato come socialista, ma sotto le armi si porta bene, presta servizio nel reggimento bersaglieri di Verona e ottiene il certificato di buona condotta.
Il rientro è dettato anche dalla ricerca di una sistemazione meno precaria di quella svizzera. Non è portato al lavoro manuale, il suo status intellettuale glielo rende estraneo. Un tentativo di passare, tramite Serrati, al grande giornalismo, quello dei quotidiani, è prematuro, ma rivela l’aspirazione del giovane Mussolini: il giornalismo professionista.
Terminato il servizio militare, riprende la lotta per il posto, la ricerca di una via nella vita. Brevi incarichi a termine non rinnovati, sufficienti a fargli capire che neanche l’insegnamento fa per lui. Dal novembre 1906 all’agosto 1907 è maestro a Tolmezzo, dove si distingue per intemperanze anticlericali e per una nuova pubblica relazione con una donna sposata. Andò meglio a Oneglia, dove giunse nel febbraio 1908, insegnante di francese in un collegio privato in una città amministrata dai socialisti, che gli diedero l’occasione di riprendere l’attività politica nel giornale «La Lima».
Il passaggio a Oneglia fu breve, l’incarico terminò a giugno, con il solito triste ritorno a Dovia. Qui non svolse attività politica, ma attivista come sempre si coinvolse nelle lotte agrarie locali con corrispondenze giornalistiche alla «Lima» e all’«Avanti!», un litigio con un mezzadro gli procurò il carcere per alcuni giorni e il prestigio presso i compagni forlivesi. Continua a leggere e scrivere, a questo periodo risale l’incontro con la filosofia di Nietzsche.
L’apprezzamento di Serrati e della Balabanoff gli procurano un incarico a Trento, segretario del Segretariato trentino del lavoro e direttore del giornale «L’avvenire del lavoratore». Arriva in Trentino un po’ in cerca di novità, un po’ per avere un’occupazione, eppure la permanenza a Trento dal febbraio al settembre 1909 sarà significativa. Inizia nuove collaborazioni, con Cesare Battisti e il suo quotidiano «Il Popolo», di cui diverrà caporedattore.
Da socialista, è internazionalista, ma il contatto con gli ambienti irredentisti trentini gli fa sentire la forza oggettiva dei valori nazionali. Inoltre, sollevato dalle urgenze economiche, a Trento ha l’opportunità di leggere e studiare, la città è dotata di fornite biblioteche e giornali quotidiani. Si priva del necessario, mangia una volta al giorno, non ha pretese nel vestiario, non è condizionato da venalità, spende le poche corone in libri, riviste. A Trento legge sistematicamente riviste d’avanguardia, allineate allo spirito attivista del secolo, antipositiviste, «Il Leonardo» e soprattutto «La Voce» di Prezzolini.
Le sue polemiche, specie con i cattolici che dominano la vita locale e con il loro organo «Il Trentino», diretto da Alcide De Gasperi, sono martellanti e violente. Agita la compassata vita politica trentina, innesca disordini e agitazioni, provoca sequestri dei giornali cui collabora, ai quali cerca di sottrarsi con la distribuzione clandestina. Le autorità lo considerano pericoloso e alla fine lo espellono.
La via di Mussolini: la politica
Espulso dall’Impero, ai primi di ottobre 1909 è a Forlì. Ancora in condizioni economiche precarie, fa dieci giorni di carcere perché non riesce a pagare una vecchia multa di cento lire. Dà una mano nell’osteria paterna, fa domanda per insegnare, non viene accolta. Non ha ancora chiaro il suo avvenire, non intende rimanere, pensa nuovamente all’America.
Nonostante ciò, mette su famiglia, ai primi di gennaio, con Rachele Guidi, a settembre nasce Edda (il matrimonio civile seguirà nel 1915, nel ’25 quello religioso). Sta per accettare un impiego allo stato civile di Argenta, quando arriva la svolta della sua vita, è proprio la sua terra romagnola ad offrirgli il trampolino di lancio nella politica di professione.
I sette mesi in Trentino, più l’espulsione, che ha fatto cronaca sull’«Avanti!» e che risuona nel parlamento italiano con interpellanze parlamentari, lo hanno fatto conoscere fuori degli ambiti locali in cui ha finora operato. La federazione del PSI di Forlì è debole, sopraffatta dall’egemonia repubblicana nella regione. I dirigenti scarseggiano, i militanti non sono molti. Preceduto dalla fama delle sue imprese agitatorie in Trentino, col prestigio di vittima della reazione asburgica, gli viene offerta sullo scorcio del 1909 la direzione della federazione e del suo organo «Lotta di classe».
Getta nell’incarico la sua foga rivoluzionaria, ottiene buoni risultati organizzativi e attesta la federazione su posizioni intransigenti e rivoluzionarie, al punto di farla uscire dal PSI dopo il congresso di Milano del 21-25 ottobre 1910 che vide l’affermazione della corrente riformista. La mossa è azzardata e impulsiva, ma coerente con la sua impostazione ideologica radicalmente ostile al riformismo. Rischia l’isolamento e l’eclissi fuori dal partito, è solo un segretario locale di una piccola federazione, a Milano aveva preso la parola nell’indifferenza, «Il Giornale d’Italia», conservatore, lo aveva definito «un contadino dall’oratoria a scatti».
La guerra di Libia lo trae d’impaccio. L’opposizione del PSI alla guerra coloniale è protocollare, lo sciopero generale di protesta della CGL riformista è fiacco. Non così in Romagna, dove repubblicani e socialisti, capeggiati i primi da Pietro Nenni e Aurelio Lolli, i secondi da Mussolini, danno vita a una lotta antimilitarista fino al blocco delle tradotte militari che fa scalpore a livello nazionale. Tutti e tre finiscono in carcere per alcuni mesi e Mussolini ne esce come figura di spicco della frazione rivoluzionaria del socialismo italiano.
Con questa aura rientra nel partito con la sua federazione e arriva al congresso di Reggio Emilia che si apre il 7 luglio 1912. Interviene l’8, il “contadino” parla ancora a scatti ma stavolta conquista il congresso. Lascia le manovre congressuali ai capi storici della frazione, ma tesse un rapporto diretto con le masse socialiste con la battaglia simbolo che lo consacra come il capo rivoluzionario di riferimento: chiede e ottiene l’espulsione dei riformisti di destra Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca.
La frazione rivoluzionaria si prende la rivincita e diventa maggioranza al congresso. Mussolini entra nella direzione nazionale del partito, segretario Costantino Lazzari, con suoi antichi compagni come la Balabanoff. Il piccolo borghese, già alla ricerca del posto, ha trovato la sua via, la politica, e la imbocca con la sua identità di «idealista rivoluzionario».
L’idealismo rivoluzionario di Benito Mussolini
Dalle influenze paterne alla Svizzera, dalla stampa socialista cui collabora all’esperienza trentina, fino alla dirigenza di partito a Forlì, ha riempito il suo bagaglio ideologico. Il rivoluzionarismo anarcoide del padre resta l’imprinting. Il sindacalismo rivoluzionario, ispirato da Georges Sorel, eserciterà l’influenza più duratura nel percorso mussoliniano, nella militanza socialista, nell’interventismo, nelle stesse origini del fascismo.
Mussolini non entrerà nelle organizzazioni “sindacaliste”, il partito deve mantenere la guida del proletariato, ma condivide le loro direttive, quanto di più alternativo al riformismo: contestazione del parlamentarismo, che considera una resa all’ordine borghese; azione diretta con lo sciopero generale rivoluzionario, che soddisfa la sua esigenza di azione, movimento, che risente di un antico anarchismo, ma è l’influsso attivista del secolo; il ruolo dell’“ideale” (il “mito” soreliano), vera forza di mobilitazione delle masse.
Riceve influenze di ambiti estranei al socialismo, ma anch’essi portatori dell’esigenza di rinnovamento morale della società italiana, insoddisfatti dell’Italietta giolittiana, è il caso della «Voce» di Giuseppe Prezzolini. Dalle lezioni di Pareto ha tratto la concezione elitista della lotta politica e sociale. Non manca Marx, che il padre gli leggeva in compendio sin da ragazzo e che egli ritroverà nella lettura di maestri di quella scuola, da Karl Kautsky a Rosa Luxemburg e Antonio Labriola.
Il suo marxismo non è ortodosso; da Marx prende la lotta di classe, il determinismo economico e il finalismo della «catastrofe», il crollo del capitalismo nello scontro violento tra borghesia e proletariato. Sono gli elementi marxiani funzionali alla prospettiva rivoluzionaria in cui si muove, ma il ruolo dell’élite guida delle masse resta per lui risolutivo, rispecchiando il volontarismo dell’attivismo del secolo, estraneo, se non incompatibile, con la teoria marxista. Infine è arrivata la scoperta di Nietzsche, il superomismo libero da vincoli come via al superamento dell’ordine morale borghese.
A Mussolini verrà rimproverato, da socialisti suoi avversari, di non essere mai stato marxista. La storiografia è divisa, tra chi ritiene Mussolini estraneo al marxismo (Arfè, elementare per De Felice) e chi lo ritiene parte della storia del socialismo marxista italiano in un suo particolare momento storico (Galli). Ma chi era marxista ortodosso nel movimento socialista italiano del tempo? A parte un intellettuale puro come Antonio Labriola, tra i dirigenti forse solo la Balabanoff, poi? I riformisti, evoluzionisti imbevuti di positivismo, la filosofia ottocentesca dell’ottimismo borghese? I rivoluzionari del partito, che scambiano l’intransigenza per rivoluzione? I sindacalisti rivoluzionari, usciti dal partito nel 1907, che seguono il volontarismo dell’azione diretta di Sorel?
Nella stagione revisionista del marxismo, quello “eterodosso” di Mussolini non è un’eccezione. Il suo stesso rapporto con la violenza «levatrice della storia» è ideologico, poiché la rivoluzione è necessariamente violenta, in questo è più marxista dei suoi detrattori nel partito.
Questi apporti ideologici incontrano il temperamento inquieto del giovane Mussolini, ma sono anche influssi del tempo. I primi del Novecento sono gli anni dell’irruzione delle correnti irrazionaliste nella cultura, nell’arte, nella letteratura, in politica, e le correnti di pensiero tradizionali, inclusa la socialista, non scampano alla contaminazione di questa rivolta antipositivista.
Croce scrisse che Mussolini riprese l’intransigenza del rigido marxismo, ma infuse nel socialismo, «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee», un’anima nuova, il volontarismo, il «misticismo dell’azione». È questo l’elemento che rende estraneo Mussolini al PSI del tempo, non un marxismo eterodosso.
Era inevitabile che bestia nera del socialismo mussoliniano diventasse il riformismo. Positivisti ed evoluzionisti, i riformisti credevano in un passaggio graduale al socialismo, con successive riforme, ottenute nel gioco parlamentare, senza violenza, quindi ai suoi occhi negavano la rivoluzione. Le classi non si avvicinavano e confondevano, come essi credevano, bensì, affermava, si allontanavano e la lotta di classe si polarizzava. Si sbagliava, come tutti i marxisti, ma era allineato alle errate profezie di Marx; i riformisti avevano ragione, ma erano già fuori da Marx nella prassi se non nella teoria.
Benito Mussolini all’«Avanti!»
Nella direzione del partito dell’8-10 novembre 1912 corona l’antica ambizione, un giornale quotidiano: viene nominato direttore dell’«Avanti!», tribuna che gli offre visibilità personale e un rapporto diretto con le masse. Assume il 1° dicembre l’incarico, si riduce di un terzo lo stipendio rispetto al predecessore, il riformista Claudio Treves, e si trasferisce a Milano, passaggio decisivo nella sua formazione politica, poiché dal mondo rurale della Romagna viene in contatto con le contraddizioni della moderna società industriale. Irrequieto anche sul piano sentimentale, a questo periodo risale la controversa relazione con la scrittrice libertaria Leda Rafanelli, seguace del sufismo islamico, che dura fino al novembre 1914.
Al giornale si muove spedito. Epura la redazione degli elementi riformisti legati alla direzione di Treves, aiutato nei primi mesi dalla Balabanoff. Imposta un giornalismo agitatorio che attivizza le masse, su temi come gli “eccidi proletari” negli scontri delle lotte bracciantili, propugna lo sciopero generale a oltranza, legittima la violenza come risposta alla violenza. Sa che non può limitarsi al perimetro del partito: i riformisti controllano pur sempre il gruppo parlamentare, la CGL, il movimento cooperativo. Per di più nella sua stessa frazione appaiono le prime perplessità, proprio Serrati è tra i primi critici.
Nel novembre 1913 fonda «Utopia», rivista ideologica del “suo” socialismo, aperta a giovani di vario orientamento. Tenta di allargare la “sua” base, getta ponti oltre il partito, allarga le collaborazioni a esponenti di altre correnti della sinistra, sindacalisti rivoluzionari, anarchici, repubblicani e persino riformisti eterodossi come Gaetano Salvemini, uscito dal partito nel 1911, che lo considera l’uomo nuovo del socialismo italiano. Il progetto politico diventa evidente: il “blocco rosso”, l’unità delle masse proletarie guidate da un unico grande partito rivoluzionario, un nuovo PSI, in prospettiva guidato da lui stesso.
Il progetto viene colto dai riformisti. Anna Kuliscioff definisce Mussolini «un anarchico perfetto» da «far saltare per aria» dalla direzione del giornale; Turati si chiedeva ironicamente cosa fosse il socialismo di Mussolini, «religione, magismo, utopia, sport, letteratura, romanzo, nevrosi? Certo non socialismo». Dall’alto del loro sprezzo aristocratico, si sbagliavano, non leggevano i tempi.
I risultati ottenuti dai riformisti con la prassi parlamentare non erano affatto irrilevanti, sia sul piano dei diritti sociali che di quelli politici, il socialismo massimalista non coglierà mai risultati simili. Ma Mussolini interpretava e rappresentava il nuovo momento. Le masse socialiste erano radicalizzate da una congiuntura economica sfavorevole che rendeva precari i risultati ottenuti con le lotte sindacali, deluse da un partito la cui prassi riformista non aveva scalfito il controllo borghese della società italiana, ora in ripresa su un terreno nazionalista che le aveva condotte ai sacrifici della guerra libica.
Giovanni Giolitti, sponda del riformismo socialista, era in difficoltà, alle elezioni del 1913 i liberali persero seggi e Giolitti lascerà il posto a Salandra, uomo della destra liberale, assai meno comprensivo verso i movimenti popolari. Soprattutto, i riformisti non colsero che l’«idealismo rivoluzionario», da loro giudicato «reazionario» (così Treves), intercettava i tempi meglio del loro positivismo. L’ascesa di Mussolini va collocata, come ha osservato Enzo Santarelli, nella crisi del socialismo italiano, di cui anch’egli fu espressione, poi beneficiario, infine sconfitto.
La conquista del partito socialista di Mussolini
L’agitazione mussoliniana dimostrerà ai riformisti il loro superamento irreversibile nel partito al congresso di Ancona del 26-29 aprile 1914, dove Mussolini sancirà la sua posizione di leader del partito, aiutato dai risultati: la diffusione dell’«Avanti!» dalle 30 mila copie dei tempi di Treves toccava le 60 mila, sezioni e iscritti erano aumentati, i deputati socialisti alle elezioni del 1913 erano passati da 25 a 53.
La base aveva premiato l’indirizzo rivoluzionario, di cui Mussolini si era reso l’interprete più intransigente. Ad Ancona non ci fu partita congressuale. I riformisti presero atto della sconfitta. Piuttosto la partita era interna alla frazione rivoluzionaria e fu vinta dai duri Lazzari e Mussolini. La “settimana rossa” di giugno farà emergere la difficoltà della posizione rivoluzionaria intransigente.
Il 7 giugno ad Ancona un convegno antimilitarista degenerò in disordini con tre morti tra i partecipanti. La protesta si estese ad altre parti del paese, raggiungendo il culmine in Romagna, fino al 14 i disordini continuarono con altri scontri e morti. I moti, senza pianificazione né guida unitaria, si esaurirono da soli, mentre Salandra mosse l’esercito per ristabilire l’ordine. La reazione del PSI era stata incerta, la CGL riformista aveva proclamato uno sciopero generale revocato dopo due giorni, attirandosi l’anatema mussoliniano di “fellonia”.
L’«Avanti!» sostenne le agitazioni, ma anche Mussolini fu sorpreso dalla settimana rossa e non credeva che fosse la rivoluzione attesa. La lotta antimilitarista era un cavallo di battaglia dell’«Avanti!», coerente con la tradizione socialista e con i precedenti romagnoli del direttore. Ma il suo appoggio era una necessità tattica per non perdere contatto con le masse popolari e con le altre forze rivoluzionarie del “blocco rosso”, dai repubblicani intransigenti di Nenni, ai sindacalisti rivoluzionari di Filippo Corridoni, agli anarchici di Errico Malatesta, protagonisti dei moti.
La settimana rossa confermò la convinzione mussoliniana che “colpi di mano” e “quarantottate” spontaneiste non erano la rivoluzione. Era in difficoltà, alle critiche dei riformisti si affiancavano dentro la sua frazione perplessità se non opposizioni. Era intrappolato nello stesso angolo in cui aveva messo i suoi avversari: per non essere scavalcato e non perdere credibilità doveva inseguire gli spontaneismi ribellisti delle masse, correndo il rischio di essere travolto dalle “quarantottate”, dal fallimento di una rivoluzione impossibile.
Aveva capitalizzato la crisi del riformismo socialista, aveva proposto il suo socialismo rivoluzionario per uscire dalla crisi del socialismo italiano, verificava ora l’inadeguatezza di questa soluzione. Ci voleva di più per una congiuntura rivoluzionaria.
In questo momento d’impasse risuonarono i colpi di rivoltella di Sarajevo. Accanto a precise motivazioni politiche, riemerse, come ha colto Luigi Salvatorelli, l’attivismo che di lì a poco lo spinse alla scelta interventista, stare da protagonista nella storia che gli sembrava offrire “la congiuntura rivoluzionaria”: la guerra. Leader di fatto di un partito di massa, idolo della gioventù rivoluzionaria, riferimento di componenti della sinistra rivoluzionaria oltre il PSI, accreditato anche in ambienti non socialisti, rischiò tutto, venne espulso dal PSI e uscì di fatto dal socialismo. Iniziava una nuova lunga avventura politica.
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- Renzo De Felice – Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Torino, Einaudi, 2019.
- Ernst Nolte – Il giovane Mussolini. Marx e Nietzsche in Mussolini socialista,Milano, Sugarco 1993.
- Emilio Gentile, Spencer M. Di Scala, Mussolini socialista, Roma-Bari, Laterza, 2015.
- Giorgio Galli, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007
- Gherardo Bozzetti, Mussolini direttore dell’”Avanti!”, Milano, Feltrinelli, 1979.
- Renzo De Felice, Mussolini giornalista, Milano, Rizzoli, 1995.