CONTENUTO
Giulio Cesare al potere
Dopo aver vinto la guerra civile contro Pompeo Magno Cesare, già Pontefice massimo, diventa anche “Dittatore a vita” e “Imperator” e con una serie di riforme accentra nelle sue mani sempre più potere. Alla dittatura egli aggiunge le prerogative civili, facendosi attribuire i più importanti privilegi dei tribuni e continuando, allo stesso tempo, a garantire l’apparente sopravvivenza delle istituzioni repubblicane.
Cesare limita il potere del senato, consentendone l’accesso anche a persone di altri ceti, frena le ingerenze dei cavalieri e tenta di aiutare il popolo con sovvenzioni per i più bisognosi; si preoccupa, inoltre, di assicurare la giustizia amministrativa nelle province concedendo la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina.
L’antefatto del cesaricidio: la festa dei Lupercali
Il 15 febbraio del 44, in occasione della festa tribale dei Lupercali alla quale partecipa tutto il popolo, Cesare, che osserva lo spettacolo seduto sui rostri, rifiuta per ben tre volte la corona da re che gli viene posta prima ai piedi da un certo Licinio, poi sulle ginocchia da Cassio Longino e, infine, sul capo da Marco Antonio.
Prendendola tra le mani, infine, il dittatore la getta tra la folla:
“Quelli che erano lontano applaudirono questo gesto, quelli che erano vicino, invece, gridavano che lo accettasse, che non rifiutasse il favore del popolo. Quando Marco Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta il popolo gridò: <<Salve Re!>> Egli non accettò nemmeno allora, e ordinò di portare la corona nel tempio di Giove Capitolino.” (Nicola di Damasco, Vita di Cesare)
Al complotto per uccidere il “tiranno” prendono parte prevalentemente pompeiani graziati e amici intimi dello stesso Cesare: Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Bruto. L’avvocato Marco Tullio Cicerone, invece, viene tenuto all’oscuro della congiura per le sue indecisioni e per il fatto che abbia eccessivamente apprezzato la clemenza e la generosità dimostrata da Cesare verso gli avversari vinti.
L’attuazione della congiura, fissata per le Idi di marzo, non è impossibile da attuare dato che Cesare, dopo il giuramento fatto dai senatori di proteggerlo, ha congedato la sua guardia del corpo costituita prevalentemente da Ispanici e si presenta in pubblico sempre disarmato.
Le Idi di marzo del 44 a.C.: la morte di Giulio Cesare
La sera prima delle Idi di marzo Caio Giulio Cesare cena a casa di Marco Lepido, il magister equitum della città, e ad un certo punto della serata la discussione tra i presenti cade sul tema della morte. Alla domanda “come vorresti che fosse la tua morte?” pare che Cesare risponda “improvvisa e veloce“.
La mattina del 15 marzo del 44 a.C. Cesare e la moglie Calpurnia si svegliano inquieti dopo una notte piena di incubi: Calpurnia ha sognato l’assassinio del marito e lo prega di non uscire di casa e di rimandare la seduta. Cesare, nel corso della sua vita non ha mai preso troppo sul serio i sogni e le superstizioni, tuttavia, quella mattina l’insolito turbamento della moglie lo allarma; decide allora di annullare la riunione in Senato inviando Marco Antonio a congedare i senatori.
A quel punto entra in azione uno dei congiurati, Decimo Bruto Albino, un uomo che gode della piena fiducia di Cesare tanto da essere inserito nel suo testamento tra i secondi eredi. Il compito affidato a Bruto Albino è chiaro: deve assicurarsi che Cesare si rechi alla riunione prevista. Per questo motivo inizia a farsi beffa degli indovini e con argomentazioni valide convince Cesare ad uscire di casa:
“Bisognava forse mandare qualcuno ad avvisare i senatori già riuniti, di andarsene a casa e di ritornare quando Calpurnia avrebbe fatto sogni migliori? E questo non avrebbe indispettito? E noi cosa risponderemo quando bolleranno questi comportamenti come tirannici?” (Plutarco, Vita parallele)
Cesare si convince ad uscire e si incammina verso il teatro di Pompeo, sede provvisoria del senato. Lungo il percorso accade qualcosa che ha dell’incredibile e che ci viene riferito da Plutarco:
“Artemidoro di Cnido, un professore di greco che per il suo lavoro è entrato in contatto nelle settimane precedenti con alcuni amici di Bruto ed è venuto a conoscenza dei particolari del complotto, si fa avanti tra la folla con un piccolo rotolo di papiro nel quale sta scritto tutto ciò che sta avvenendo. Si avvicina a Cesare e gli dice: “Cesare, leggilo subito: contiene una notizia importante che ti riguarda.” (Plutarco, Vita di Cesare)
Cesare prende il biglietto in mano ma incredibilmente non riesce a leggerlo a causa della calca di persone che lo accerchia. Tra la gente gli appare anche l’indovino che in passato gli ha preannunciato un pericolo per le Idi di marzo. Cesare gli esclama ridendo : “Sono le idi di marzo e non mi è accaduto nulla!“; allora l’indovino risponde: “Si, ma non sono ancora passate!”
Il dittatore così raggiunge la sede provvisoria del senato, infastidito dai presagi sfavorevoli e determinato a rinviare ogni decisione importante in un’altra seduta. Appena entrato nell’edificio, i congiurati, che lo stanno aspettando, gli si avvicinano ed estratti improvvisamente i pugnali lo colpiscono uno dopo l’altro in ogni parte del corpo.
Cesare si difende con vigore e, secondo la tradizione, quando tutto insanguinato dalle 23 pugnalate ricevute avvista tra gli assalitori anche Marco Bruto pronuncia in greco le parole “Kai su teknon?” (anche tu, figlio?). Ricevuto l’ultimo colpo di pugnale si accascia ai piedi della statua di Pompeo, che solo poco tempo prima aveva fatto collocare nell’edificio.
Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bella e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido. (Svetonio, Vita di Cesare)
Idi di marzo: il cesaricidio nella serie tv Rome
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- Barry Strauss, La morte di Cesare: L’assassinio più famoso della storia, Laterza, 2015.
- Roberto Cristofoli, Dopo Cesare. La scena politica romana all’indomani del cesaricidio, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002.
- Luciano Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, 2006.
- Carlotta Scantamburlo, Svetonio, «Vita di Cesare». Introduzione, traduzione e commento, Pisa University Press, 2017.