CONTENUTO
Le guerre Jugoslave
Alla fine della Seconda guerra Mondiale la Repubblica Federale di Jugoslavia è composta da sei “Repubbliche socialiste” (Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro) e due Province autonome (Kosovo e Voivodina). Nel paese convivono diversi popoli di differenti culture e religione: se la Slovenia è la Repubblica più etnicamente omogenea, le altre entità statali sono caratterizzate da cospicue minoranze interne e da una generale mescolanza delle varie etnie in tutto il territorio.
In Croazia vive un’importante minoranza serba, nella Provincia autonoma del Kosovo convivono serbi ed albanesi (la popolazione albanese in Kosovo cresce esponenzialmente nel corso degli anni e ciò diventa uno dei temi dello scontro), infine abbiamo la Bosnia Erzegovina, dove da secoli convivono serbi, croati e bosniaci di religione musulmana chiamati anche bosgnacchi (bošnjaci).
Il Maresciallo Tito nel 1945 libera il paese dall’occupazione nazifascista e diventa Presidente, dittatore e Uomo simbolo della nuova Repubblica di Jugoslavia. Tito instaura un regime socialista e ne resta alla guida per oltre trent’anni interpretando nel bene e nel male il suo motto “fratellanza e unità” sotto cui i vari popoli jugoslavi restano uniti.
Alla sua morte, il 4 maggio 1980, il paese, sommerso dai debiti e con una economia stagnante, si riscopre terribilmente diviso e vittima di una nuova classe dirigente, nata sotto il socialismo titino, ma adesso pronta a cambiare pelle e seguire radicali politiche nazionaliste nel tentativo di restare al potere. Negli stessi anni cade il Muro di Berlino e il principale regime socialista del mondo, l’URSS, scompare. Cambiare tutto per non cambiare niente.
La guerra in Slovenia
In Serbia i malumori già esistenti riguardo alla gestione del paese da parte di Tito e la sensazione di essere la Repubblica più sacrificata per il bene della Jugoslavia vengono raccolti e alimentati dal leader del Partito Socialista Slobodan Milošević (1941-2006) che, con una campagna elettorale dai forti torni nazionalistici, viene eletto Presidente della Serbia nel 1989. Nei mesi successivi Milošević riesce a imporre il proprio controllo indiretto sui governi delle due Province autonome, Kosovo e Montenegro.
L’aggressività nazionalistica della Serbia di Milošević, che pretende maggiore potere all’interno della Federazione e incita alla rivolta le minoranze serbe nel resto del paese, spaventa notevolmente Slovenia e Croazia, le quali reagiscono però in modi differenti.
In Slovenia le elezioni del 1990 vengono vinte da una coalizione liberale-cattolica il cui obiettivo dichiarato è staccarsi al più presto dalla Jugoslavia ormai sempre più a trazione serba. Anche in Croazia si indicono le elezioni libere per quello stesso anno, ma le vince un unico partito, l’Unione democratica croata il cui leader Franjo Tudjman (1922-1999) risponde all’aggressività serba con altrettanta aggressività.
Vengono recuperati i simboli nazionali croati, gli stessi utilizzati negli anni ’40 nello Stato indipendente di Ante Pavelić, leader degli Ustascia che guidò la Croazia indipendente collaborando con le forze dell’Asse. Di ideologia clerico-fascista, gli Ustascia si sono resi protagonisti di massacri e pulizie etniche a danno dei serbi e degli ebrei che vivevano in Croazia. Oltre ai simboli Tudjman recupera anche l’utilizzo della violenza di Pavelić, ovvero una serie di misure repressive e discriminatorie a danno della minoranza serba in Croazia.
Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclama la sua indipendenza dalla Jugoslavia e le forze di Difesa
territoriale slovene prendono il controllo dei confini del paese. Le forze di Difesa territoriale sono un esercito costituito già da Tito, parallelo all’Armata Popolare, con lo scopo di garantire il controllo del territorio anche in caso di ritirata dell’esercito federale verso la capitale. La Slovenia aveva preso sul serio fin da subito tale richiesta costituendo nel tempo un’eccellente struttura militare e acquistando segretamente armi dall’estero.
Appena la notizia dell’indipendenza slovena arriva a Belgrado, il governo federale, ormai senza i rappresentanti croati e sloveni, decide di intervenire immediatamente per riportare con la forza la Slovenia nella Federazione. L’intervento dell’esercito federale (JNA), incontra in Slovenia una forte e ben organizzata resistenza che in pochi giorni respinge completamente l’attacco. Bisogna però sottolineare che all’interno dell’Armata Popolare già da qualche anno è in corso un processo di “serbizzazione” che lo rende sempre più in un esercito serbo e sempre meno un esercito multietnico e federale.
Questo processo è dovuto sia alle tante diserzioni dei soldati non serbi, molti sloveni che si rifiutano di combattere contro il proprio paese, sia per il ritiro di molte truppe da parte delle altre Repubbliche (soprattutto Bosnia-Erzegovina e Macedonia) spaventate di essere coinvolte nel conflitto.
Già i primi di luglio del 1991 a Belgrado è chiaro che la Slovenia non farà più parte della Jugoslavia. Questa sconfitta non cambia però i piani di Milošević il quale sa che in Slovenia non ci sono minoranze serbe da difendere e ciò la rende difficilmente assoggettabile. L’atteggiamento è però diverso nei confronti della Croazia: lì la minoranza serba è numerosa ed è oppressa dalla politica nazionalista di Tudjman.
Già da qualche anno Milošević invia segretamente armi e rifornimenti nella regione, e a metà agosto del ’90 le rivolte dei serbi contro le autorità di Zagabria sono appoggiate attivamente da Belgrado. Nel febbraio 1991 è proclamata la “Provincia autonoma serba della Krajina” la cui città principale è Knin. Quando il 18 Luglio il Consiglio Federale sancisce il definitivo ritiro della JNA dalla Slovenia è già chiaro a tutti dove si sarebbe spostata la guerra.
La guerra in Croazia
Il piano di Belgrado per rendere legittimo l’intervento della JNA in Croazia è quello di organizzare una serie di sommosse popolari, incidenti e scontri più o meno pilotati per provocare l’intervento militare di Zagabria e poter quindi intervenire “a difesa della minoranza serba”.
Nel giro di qualche settimana, nell’estate del 1991, il conflitto si allarga a macchia d’olio in tutta la Croazia dove oltre all’Armata Popolare, ormai un vero e proprio esercito serbo, si aggiungono anche varie formazioni paramilitari provenienti dalla Serbia che iniziano una serie di indescrivibili violenze ai danni della popolazione croata, fra queste formazioni le celebri “Tigri di Arkan”.
Nascono anche a supporto dell’esercito croato simili formazioni paramilitari, una di queste è l’Associazione di difesa croata che porta l’uniforme nera degli Ustascia e anch’essa si dedica a violenze e atrocità di ogni genere contro l’altra etnia.
Inizia cosi una guerra senza nessun tipo di rispetto per le convenzioni internazionali fatta da soldati, spesso ubriachi o drogati che usano il terrore come strumento per costringere la popolazione dell’altra etnia ad abbandonare le proprie case.
Da parte di Tudjman l’atteggiamento è quasi esclusivamente difensivo e di attesa con lo scopo di mostrare la Croazia agli occhi della Comunità Internazionale come vittima di una aggressione. Apice di tale strategia è la caduta di Vukovar nel novembre del 1991, importante città industriale sul Danubio, che viene conquistata dai serbi dopo 86 giorni di assedio.
Tale vittoria darebbe all’esercito serbo la possibilità di arrivare fino a Zagabria approfittando delle difficoltà dell’esercito croato che è peggio armato rispetto a quello federale, non ancora pienamente efficiente e soprattutto reduce da una grave sconfitta. Tuttavia è lo stesso Milošević a ordinare di non continuare l’avanzata verso Zagabria poiché “non abbiamo nulla da fare, noi, nelle aree popolate da croati. Noi dobbiamo difendere le aree serbe” 1.
Tale decisione indica come l’obiettivo di Milošević non sia riportare la Croazia nella Federazione, ma annettere alla nuova “Grande Serbia” la parte più ampia possibile di Croazia, realisticamente la parte più abitata da serbi. Tale atteggiamento inoltre fa sorgere il dubbio che i due Presidenti non abbiano già un accordo per concludere la guerra in Croazia e concentrarsi entrambi su altre zone di interesse comune, in particolare la Bosnia-Erzegovina dove entrambi hanno territori da rivendicare e minoranze da “difendere”.
Se Vukovar sia sacrificata da Tudjman in cambio del riconoscimento della Croazia non è dimostrabile, ma sicuramente la caduta della città fluviale induce il Senato degli Stati Uniti a pronunciarsi a favore dell’indipendenza croata e accelera il lavoro di tedeschi e francesi con il medesimo obbiettivo.
La guerra in Croazia, alla fine del 1991, sta volgendo verso la sua conclusione; Milošević, spaventato dalle molte perdite subite dall’Armata popolare, dalla crisi economica sempre più grave e dai sentimenti di antimilitarismo crescenti fra la popolazione, decide di cambiare strategia puntando a consolidare le conquiste ottenute nelle regioni abitate dai serbi.
I due Presidenti si accordano per il cessate il fuoco e accettano, nel novembre del 1991, la proposta del diplomatico ONU Cyrus Vance per l’intervento dei caschi blu in Croazia con lo scopo di garantire il blocco dei combattimenti e aprire un dialogo diplomatico fra le parti.
In Europa è soprattutto la Germania a spingere per arrivare al riconoscimento dell’indipendenza slovena e croata per motivi strettamente economici. Ne è prova ancora oggi la grande quantità di investimenti tedeschi nel campo immobiliare, alberghiero e turistico su tutta la costa dalmata fino a Dubrovnik.
Inizialmente questa spinta tedesca è frenata dagli altri paesi europei, Francia e Gran Bretagna in testa, i quali temono che i nuovi paesi balcanici diventino troppo presto assoggettati economicamente alla Germania; tuttavia a fine anno un irrituale intervento della Santa Sede a favore dei due cattolicissimi paesi induce la Germania a riconoscere l’indipendenza slovena e croata senza aspettare il consenso degli altri paesi europei.
Tale decisione di Berlino fu molto criticata in Europa e tacciata di esprimere “l’Arroganza del bulldozer tedesco”. L’ufficialità arriva nel gennaio del 1992 e, sebbene la commissione Badinter, riunita in seno alla Comunità Europea, dia l’assenso solo all’indipendenza della Slovenia e della Macedonia, anche gli altri paesi seguono l’esempio tedesco e riconoscono la Slovenia e la Croazia.
Resta in attesa solo la Macedonia, che era stata l’apripista fra i paesi balcanici a chiedere il riconoscimento europeo, ma nel suo caso prevale la forte contrarietà della Grecia. L’Europa candidata principale per risolvere la complicata situazione in Jugoslavia si dimostra ancora estremamente divisa e incapace di portare avanti una politica unitaria.
La guerra in Bosnia-Erzegovina
Secondo un censimento svolto in Bosnia-Erzegovina nel 1990 nel paese abita il 44% di bosniaci-musulmani, il 31% di serbi e il 17% di croati. Queste etnie convivono da secoli sparse in tutto il paese, ad esempio i serbi vivono nel 94,5% del territorio e così i musulmani, nel 94%. Nello stesso anno si svolgono le prime elezioni libere e i tre partiti nazionalisti rappresentanti le tre etnie maggioritarie nel paese prendono insieme oltre il 70% dei voti.
Seguendo la chiave “etnica” diviene Presidente Alija Izetbegovic, leader musulmano del Partito d’azione democratica, il quale fin da subito da subito dichiara l’estraneità della Bosnia-Erzegovina al conflitto scoppiato nelle vicine Repubbliche, cerca di mediare fra Belgrado e Zagabria e invita la Comunità Internazionale a non riconoscere i due nuovi Stati così da non restare da solo nella nuova Jugoslavia di Milošević.
Nell’estate del 1991 diviene chiaro che in Bosnia-Erzegovina viene attuato il medesimo piano che ha scaturito il conflitto in Croazia: Milošević rifornisce i serbi di Bosnia con armi, munizioni e mezzi e vengono organizzate milizie locali a cui si aggiungono unità paramilitari che con il loro atteggiamento aggressivo, soprattutto nell’Erzegovina orientale, spaventano la popolazione musulmana e croata.
Il leader del principale partito serbo di Bosnia è lo psichiatra (e poeta di scarso successo) Radovan Karadžić (1945-condannato all’ergastolo dal Tribunale dell’Aia il 20 marzo 2019) che nel mese di novembre proclama due “Regioni autonome” di nazionalità serba in Bosnia-Erzegovina che inglobano 50 comuni sui 109 totali. I parlamentari serbi si riuniscono in una “Assemblea del popolo serbo” tagliando tutti i rapporti con il governo di Sarajevo.
Anche i croati di Bosnia proclamano nello stesso mese una regione autonoma, “Unione croata Herceg-Bosna” che ingloba 38 comuni. Il processo di frazionamento del paese è inarrestabile e sembra debba essere inevitabilmente accompagnato dalla guerra.
La situazione che si è creata durante il 1991 è paradossale: mentre nella Croazia orientale gli eserciti serbi e croati ancora combattono, i due Presidenti Milošević e Tudjman s’incontrano, neanche troppo segretamente, per accordarsi sulla spartizione della Bosnia-Erzegovina. Entrambi la considerano uno “Stato fasullo” e ambiscono a spartirselo a danno dei musulmani, dando vita contemporaneamente a una “Grande Serbia” e a una “Grande Croazia”.
Lo stesso capodanno Tudjman, in una conferenza stampa, dichiara che la divisione della Bosnia Erzegovina fra Croazia e Serbia con la contemporanea nascita di uno Stato cuscinetto musulmano tra le due “avrebbe corrisposto in maniera migliore agli interessi a lungo termine di tutti e tre i popoli”2 .
Nel gennaio del 1992 il Parlamento di Sarajevo, boicottato dai parlamentari serbi e incoraggiato dall’appoggio statunitense riguardo l’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, organizza un referendum riguardo la propria indipendenza, come richiesto dalla Comunità Europea come condizione per il riconoscimento. Karadžić e i suoi fedeli in risposta accusano, tramite una violenta campagna di stampa, Izetbegovic di voler creare uno Stato fondamentalista islamico nel centro dell’Europa.
Al referendum, boicottato dalla popolazione serba, partecipano poco meno di 2 milioni di persone e l’opzione dell’indipendenza prende oltre il 99% dei voti; tuttavia si tratta di un numero troppo esiguo perché vi si fondi una solida entità statale. Il rifiuto dell’esito referendario da parte dei serbi e lo scoppio di alcuni incidenti e i successivi scontri fra serbi e musulmani fa esplodere il conflitto prima a Sarajevo e in breve in tutta la Bosnia-Erzegovina.
L’Armata popolare, che nel frattempo ha concentrato grandissime forze nel paese, è impegnata in combattimenti sia nella zona di Mostar, allo scopo di conquistare la Bosnia nordorientale collegamento con la Madrepatria, sia a sud nella zona di Neum, unico porto erzegovese sull’Adriatico e, nelle intenzioni serbe, sbocco al mare della Repubblica serba in Bosnia-Erzegovina.
Ad amplificare la differenza di eserciti, e soprattutto di armamenti fra i due schieramenti in campo, partecipa anche la Risoluzione 713 dell’ONU che istituisce l’embargo sulla vendita di armi alla Jugoslavia. Tale provvedimento colpisce soprattutto i bosniaci musulmani che privi di un esercito si trovano costretti a comprare le armi e chiedere sostegno alle potenze islamiche, in primis l’Iran. Ad aprile 1992 Sarajevo viene cinta d’assedio dalle truppe serbo-bosniache e bombardata dalle alture circostanti.
Anche la guerra in Bosnia-Erzegovina è segnata dalle tremende violenze dei gruppi paramilitari e lo scopo è sempre lo stesso: cacciare o uccidere la popolazione dell’etnia avversaria così che la propria etnia sia maggioritaria nella città o nel paese.
In alcuni casi gruppi paramilitari si recano in uno specifico villaggio per far scappare i propri connazionali diffondendo false notizie relativa all’imminente arrivo dei “fanatici” soldati dell’etnia avversaria, e questo solo allo scopo di svuotare le case razziare il bottino e spostare la popolazione in altri luoghi dove è necessario ripopolare con la propria etnia per divenire maggioranza. Bijelina, Zvornik, Bratunac, Srebrenica, Žepa sono solo alcune delle cittadine teatro di massacri e pulizie etniche; nel giro di 5-6 settimane l’Armata Popolare appoggiata dai gruppi paramilitari serbi “liberano” oltre il 60% del paese lasciando ai musulmani solo il centro del paese.
Da parte croata la guerra in Bosnia-Erzegovina è caratterizzata dalla divisione in fazioni in base al luogo di provenienza: gli abitanti della Posavina tendono a stringere alleanze con i musulmani per difendersi dai serbi, mentre i connazionali della sassosa Erzegovina sono tendenzialmente più orgogliosamente nazionalisti e ambiscono a poter presto ritornare a far parte della Croazia.
Quest’ultima fazione ha come esponente di spicco il Presidente Tudjman e la potente mafia croata, di origine erzegovese che ne ha sostenuto l’elezione, lo appoggia economicamente e lo spinge ad aprire il conflitto con i musulmani per “liberare” l’Erzegovina. Questa fazione non vede di buon’occhio l’alleanza con i musulmani ed è convinta dell’incapacità della Bosnia-Erzegovina di organizzare un governo autonomo. Perciò influenza il Presidente che, fin da subito, è diviso fra il diktat statunitense di mantenere la Bosnia-Erzegovina unita e le rivendicazioni territoriali dei croati erzegovesi che ambiscono a ritornare a far parte della Croazia.
Nell’estate del 1992 il sogno della “Grande Serbia” non è mai stato cosi vicino all’essere realizzato: grazie agli accordi fra Milošević e Tudjman la Serbia riesce a portare a termine il “corridoio” che unisce la Serbia ai territori conquistati in Bosnia-Erzegovina e in Croazia. Tudjman invece avanza notevolmente nell’entroterra erzegovese riuscendo a “riempire il croissant”, cosi viene chiamata la Croazia per la sua particolare forma geografica.
Tali conquiste ottenute grazie agli accordi preventivi presi fra i due Presidenti mettono in mostra un’altra caratteristica peculiare di questa guerra: in Jugoslavia non sono i combattimenti a decidere l’andamento della guerra con i successivi accordi politici che ratificano i nuovi confini; al contrario sono gli accordi politici a decidere i confini e i combattimenti vengono eseguiti seguendo uno schema che è già prestabilito dagli accordi.
Durante l’estate viene anche rivelata all’opinione pubblica l’esistenza di campi di concentramento organizzati dai serbi-bosniaci da cui passano oltre 13 000 persone, croati e soprattutto bosniaci-musulmani e almeno 5000 sono le vittime. Il più tristemente noto è quello di Omarska, ripreso in alcuni video ancora oggi disponibili su You tube. Tale scoperta incendia il dibattito elettorale americano di quell’anno fornendo al candidato democratico Bill Clinton ampi argomenti di critica al governo repubblicano di G. Bush Senior il quale segue una politica di non intervento nelle questioni europee. “L’America non può accettare uno sterminio di esseri umani progettato per ragioni di razza”3.
Nel 1993 fallisce anche il Piano di pace Vance-Owen (prende il nome dai due diplomatici che lo progettano). Tale piano dà invece involontariamente nuovo impulso alla guerra e incoraggia le pulizie etniche al fine di diventare di essere l’etnia maggioritaria nella Provincia. Esempio drammatico di ciò è quello che accade nella cittadina di Srebrenica. Nel 1991 l’etnia di maggioranza era quella bosniaco-musulmana, ma già all’inizio del conflitto viene conquistata dai serbo-bosniaci che costringono alla fuga gran parte della popolazione non serba.
Il 6 maggio, tuttavia, i musulmani riescono ad organizzare un contrattacco e riconquistare la cittadina. Al comando dell’attacco c’è Naser Orić, ufficiale di Polizia, ex guardia del corpo di Milošević, che si comporta con la popolazione serba come Arkan si è comportato con quella musulmana. Secondo le fonti serbe sono più di 1300 le persone uccise negli attacchi guidati da Orić. Tali avvenimenti sono il prologo di ciò che avverrà a Srebrenica nell’estate del 1995.
Il 1993 è sicuramente un anno di svolta per l’andamento del conflitto anche se sul campo di battaglia il conflitto è stagnante e si risolve solo in una lunga sequenza di violenze reciproche. Serbi e croati non riescono a mettere in atto i piani di spartizione del paese. Durante l’anno Milošević si convince che sia nel suo interesse, a questo punto, chiudere al più presto il conflitto e presentarsi al tavolo della pace forte delle conquiste effettuate e con il ruolo di fondamentale mediatore.
I motivi sono molteplici: è preoccupato dalla crescente crisi economica in cui versa la Serbia, anche a causa delle forti sanzioni che gli sono comminate, inoltre si accorge di non riuscire effettivamente a controllare tutto il vasto territorio conquistato di cui molta parte non è abitato da serbi o questi sono solo una minoranza. Se per far esplodere il conflitto nel 1992, i serbi di Bosnia gli sono stati utili e li aveva incoraggiati, finanziati e armati, adesso che l’obiettivo è diventata la pace questi diventano per Milošević un peso, e un problema per Belgrado.
Nell’aprile del 1993 prende forma il “Gruppo di contatto” che vede la partecipazione di Stati Uniti e Russia oltre a Gran Bretagna, Francia e Germania e esclude, in modo più o meno elegante, l’ONU e la Comunità Europea col fine di rendere il lavoro più rapido e il processo negoziale più sciolto.
Tuttavia Karadžić, rimangiandosi la parola data, rifiuta, tramite il Parlamento serbo-bosniaco, il piano per la suddivisione della Bosnia-Erzegovina e neanche il tentativo di convincimento da parte dei russi ha effetto. Il 30 luglio Milošević annuncia pubblicamente la rottura dei rapporti diplomatici fra la Serbia e la Repubblica serba di Bosnia; il 4 agosto sono interrotti i rapporti economici e politici e le frontiere fra i due paesi vengono chiuse. La rottura dei rapporti con Karadžić è accolta con favore dalla Comunità internazionale, Milošević è adesso l’“uomo di pace” su cui è possibile fare affidamento.
Anche in Occidente il 1993 è un anno di svolta: le elezioni americane sono vinte dal candidato democratico Bill Clinton che si mostra da subito preoccupato per l’esito del conflitto jugoslavo e delle sue ripercussioni sul mondo musulmano e sugli orientamenti politici della neo nata Russia. La nuova fase di intraprendenza degli USA in Bosnia-Erzegovina inizia con l’apertura dell’ambasciata a Zagabria nell’estate del 1993, il cui titolare, Peter W. Galbraith ha istruzioni precise: appoggiare l’indipendenza della Croazia, lavorare alla reintegrazione pacifica dei ribelli serbi e impegnarsi per raggiungere la pace fra musulmani e croati. Il suo lavoro si concretizzerà, il 1° marzo 1994 con gli Accordi di Washington fra i bosniaci-musulmani e i croati di Bosnia.
Da questi Accordi nasce la Federazione di Bosnia e Erzegovina che riunisce 8 province del paese (3 a maggioranza musulmana, tre a maggioranza croata e due miste) ed attualmente è una delle due entità statali che compongono la Bosnia-Erzegovina. La fine del conflitto croato-musulmano e la rottura definitiva dei rapporti tra serbi e serbo-bosniaci ha effetti anche sul campo di battaglia dove musulmani e croati ottengono vari successi.
I croati a seguito dell’Operazione Fulmine scattata il 1° maggio 1995 infliggono pesanti perdite alla Repubblica serba della Krajina la quale non riceve l’appoggio né dei serbo-bosniaci di Karadžić né di Milošević, i quali probabilmente avevano già preso accordi con i croati e con Washington per abbandonare la zona.
Durante l’estate del 1995 i serbi di Bosnia danno vita ad una controffensiva nella Bosnia orientale contro le enclavi musulmane di Srebrenica e Žepa. Nei giorni successivi alla conquista serba della cittadina di Srebrenica i soldati serbo-bosniaci comandati dal generale Mladic uccidono, sebbene questa fosse teoricamente sotto la protezione dei caschi blu, fra i 7 e gli 8.000 bosniaci-musulmani, in maggioranza giovani adulti, ma anche donne, bambini e vecchi. Iniziata il 13 luglio, la mattanza dura almeno quattro giorni e solo il 16 e 17 luglio si hanno le prime informazioni sul massacro messo in atto.
L’eccidio di Srebrenica nei mesi e negli anni successivi avrebbe dato origine a critiche spietate, sia verso i soldati ONU presenti a Srebrenica che hanno consegnato i civili ai soldati serbi senza sparare neanche un colpo, sia verso Izetbegovic accusato di aver abbandonato Srebrenica al suo destino poiché negli accordi di pace che si stavano contemporaneamente redigendo la cittadina avrebbe fatto parte della Repubblica serba di Bosnia.
Nei giorni successivi al massacro di Srebrenica viene riunito a Londra un vertice di crisi alla presenza dei Ministri degli Esteri e della Difesa dei paesi NATO: il risultato del Vertice è un documento che affida ai comandanti militari della NATO il potere di decisione su quando intervenire con raid aerei “sostanziali e decisivi” contro le postazioni serbo-bosniache.
Questa decisione deresponsabilizza i vertici ONU e sblocca l’enpasse della “doppia chiave” dovuto alla necessaria preventiva approvazione delle autorità civili dell’ONU per ogni intervento militare. Tale decisione di utilizzo della forza si rende necessaria a fine agosto dello stesso anno dopo che vengono esplosi a Sarajevo 4 colpi di mortaio, tre provocano poco danno, ma il quarto colpisce il mercato del pesce e della carne uccidendo 39 persone e ferendone altrettante.
Questo attentato si aggiunge a quelli dell’anno passato, di cui il più cruento era stato il 5 febbraio 1994 in piazza Markale a Sarajevo che causò 68 vittime e fu effettuato con una granata di mortaio. Tuttavia i dubbi e le incertezze riguardo l’autore del gesto avevano sempre scoraggiato ogni tipo di intervento militare punitivo. Da parte loro i serbi accusavano i musulmani di colpire i propri connazionali allo scopo di attirare l’attenzione della Comunità Internazionale e gli studi balistici effettuati non aiutarono a scoprire il colpevole.
In quest’ultimo attentato a Sarajevo, invece, i dubbi sono pochi e subito diradati: gli autori sono i serbo-bosniaci forse per una vendetta o per lanciare un messaggio a Izetbegovic sempre più convinto ad aderire al piano di Washington.
A questo punto è lo stesso Clinton ad intervenire presso gli alleati della NATO per spronarli all’azione. L’operazione militare della NATO denominata “Deliberate Force” ha inizio il 30 Agosto 1995; a tre riprese 60 bombardieri eseguono azioni di rappresaglia contro le postazioni serbe colpendo con assoluta precisione gli obiettivi militari strategici più importanti fra cui un deposito di munizioni e una caserma. I bombardamenti della Nato sulle postazioni serbo-bosniache proseguono per tutto settembre, mentre musulmani e croati continuano l’offensiva per riconquistare i territori perduti durante il 1992.
In particolare i croati all’inizio di agosto danno inizio all’Operazione Tempesta (Operacija Oluja in croato), mettendo in campo la più grande macchina bellica operante nella ex Jugoslavia con il decisivo appoggio e coordinamento americano. Già il 4 agosto gran parte delle forze serbe in Croazia si ritira in Bosnia, in certi casi anche abbandonando postazioni ben armate e quindi ancora difendibili.
Come già successo per l’Operazione Fulmine i serbi-bosniaci restano immobili e non soccorrono i connazionali in Croazia e ciò non deve stupire sapendo che già nel ’93 le posizioni serbe in Croazia erano considerate “l’anello più debole della catena del programma nazionale”.
La schiacciante vittoria croata nell’Operazione Tempesta getta nel panico la popolazione serbo-croata che, vittima della martellante propaganda serba contro gli “Ustascia” e delle effettive violenze commesse dai soldati croati soprattutto nella cittadina di Knin, si dà alla fuga con ogni mezzo disponibile. Si tratta del più massiccio esodo verificatosi in Europa dopo la Seconda guerra Mondiale e anche il più rapido visto che si conclude in pochi giorni.
Coinvolge tra le 150 e le 200 mila persone che si riversano in Bosnia-Erzegovina e in Serbia e non sempre ricevono gradita accoglienza neanche in patria. Quasi 6000 persone, soprattutto vecchi, donne e bambini che restano in Croazia sono vittime delle violenze dei soldati croati; interi villaggi sono saccheggiati e distrutti e le vittime sono almeno 450.
Il Primo novembre 1995 nella base militare americana di Dayton si aprono le trattative di pace, sono presenti i tre Presidenti balcanici, i rappresentanti europei e ovviamente i padroni di casa americani. Karadžić, accusato dal Tribunale Internazionale dell’Aia, e in seguito condannato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, non è ritenuto un leader con cui aprire una trattativa di pace e non è presente a Dayton.
Il conflitto si conclude con i confini del 1991, ma nel frattempo sono stati necessari più di 100 mila morti e milioni di sfollati, sono stati commessi crimini contro l’umanità e violenze che la popolazione difficilmente potrà scordare o perdonare. La convivenza di popoli, etnie e religioni diverse che, nel bene e nel male, è stata parte fondante della Repubblica di Jugoslavia, è quasi completamente spazzata via dalla guerra. Tutto ciò era stato orchestrato dai 4 leader politici che, altro paradosso di questa guerra, sono sia i responsabili dell’esplosione del conflitto, sia i protagonisti delle trattative di pace successive.
La Bosnia-Erzegovina viene suddivisa in due Entità statali una serbo-croata, la Repubblica Srpska e l’altra croato-musulmana, la Federazione di Bosnia-Erzegovina. Il governo centrale di Sarajevo tiene per sé alcuni poteri (difesa ed economia su tutti) e lascia ampie libertà alle due Entità sugli altri temi. I problemi di tale struttura statale e amministrativa, oltre a quelli legati alla convivenza delle tre etnie, sono molteplici e affrontabili in un articolo specificatamente dedicato, basti solo sapere che ancora oggi producono danni all’economia del paese, nel settore dell’istruzione e anche riguardo i diritti politici di coloro i quali non si definiscono appartenenti a nessuna delle tre etnie.
Note:
(1) Citato in A. Marzo Magno, La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001
(2) Cit. di Tudjman in J. Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999 , Einaudi, Torino, 2002
(3) Cit. Bill Clinton in J. Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999.
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- J. Pirjevec, “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, Einaudi, 2001.
- P. Rumiz, “Maschere per un massacro”, Feltrinelli, ristampa 2011.
- S. Bianchini, “La questione jugoslava”, Giunti, 1999.