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Le guerre in Cina nella prima metà del Novecento

Nella prima metà del Novecento, la Cina è teatro di numerosi conflitti che ne segnano profondamente la storia. Dalla guerra civile tra nazionalisti e comunisti al brutale conflitto con il Giappone, il paese vive decenni di violenza e instabilità. Queste guerre influenzano profondamente il percorso politico e sociale della Cina contemporanea.

di Riccardo Andreatta
25 Aprile 2025
TEMPO DI LETTURA: 14 MIN
Cina, post propagandistico

Cina, post propagandistico

CONTENUTO

  • La guerra in Cina tra Ottocento e Novecento
  • Modelli di modernizzazione asiatica a confronto
  • La Prima guerra mondiale in Asia e le sue conseguenze
  • La guerra sino giapponese dal 1937 al 1941
  • La guerra mondiale: dal 1941 al 1945
  • Dall’apogeo alla disfatta totale

La guerra in Cina tra Ottocento e Novecento

Il Giappone, costretto ad aprirsi dal commodoro Perry nel 1854, avvia le riforme Meiji dal 1872, trasformandosi rapidamente in una potenza industriale e militare. Sconfigge la Cina nella guerra sino-giapponese (1894-95) e la Russia (1904-05), affermandosi in Asia. La Cina, invece, indebolita dalle guerre dell’oppio e dalle concessioni straniere, non riesce a modernizzarsi. La dinastia Qing cade nel 1911, portando a una fase di instabilità. Il Kuomintang (1919) e il Partito Comunista Cinese (1921) cercano di unificare il paese, con Chang Kai-shek al comando.

Negli anni ’30, il Giappone accelera l’espansione: occupa la Manciuria (1931) e invade la Cina (1937), causando massacri come quello di Nanchino. Durante la Seconda guerra mondiale, il conflitto sino-giapponese si intreccia con la guerra nel Pacifico. L’attacco a Pearl Harbor (1941) segna l’apice dell’espansionismo giapponese, ma la resistenza cinese e l’intervento alleato portano alla sconfitta del Giappone nel 1945. Il Giappone si afferma grazie a una modernizzazione rapida, mentre la Cina, frenata da crisi interne, deve attraversare un lungo periodo di lotta per riconquistare la sua indipendenza.

Modelli di modernizzazione asiatica a confronto

<<Non hai mai sentito parlare di Perry?>>, domandò il generale Ishiwara Kanji al rappresentante statunitense, la pubblica accusa nel processo per crimini di guerra celebrato a Tokyo nel 1946, riferendosi, ovviamente, al commodoro della Marina degli Stati Uniti Matthew C. Perry, che aveva costretto il Giappone ad aprirsi nel 1854. E aggiunse, sempre rivolto al magistrato statunitense, che il Giappone <<Ha assunto il vostro paese come insegnante e ha imparato il modo di diventare aggressivo. Potete dire che siamo diventati vostri discepoli>>. (1) 

La guerra sino giapponese è un fenomeno militare, diplomatico ed economico di lunga durata, che si deve far risalire almeno alla guerra del 1894-95, poiché nel corso dei secoli e millenni precedenti, la Cina e il Giappone hanno avuto diverse occasioni di scontro. Tuttavia, questa non è la sede adeguata per trattare esaustivamente la storia dalla modernizzazione giapponese e la crisi cinese, ma alcune date vanno riprese per crearsi un’idea sufficientemente chiara della guerra sino giapponese. Per la prima dinamica sono sufficienti l’apertura del paese del Sol levante all’Occidente da parte del Commodoro statunitense Perry nel 1853, le riforme sociali, economiche e politiche del periodo Meiji del 1872; le guerre del 1884-85 contro i cinesi e quella del 1904-05 contro i russi.

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La Cina invece vive un periodo molto più travagliato. Infatti, sebbene la Cina sia stata la prima ad avere contatti ravvicinati con l’Occidente moderno, in primis il Regno Unito, non riesce a contrapporre ai tentativi di apertura occidentale una reazione adeguata. Al contrario, diritti commerciali, i porti aperti, e il diritto dell’extraterritorialità a causa della sconfitta nella prima guerra dell’oppio del 1839-42, segnano l’inizio del Secolo dell’umiliazione, peggiorando ulteriormente la situazione con la seconda guerra dell’oppio tra il 1856-1864. Infatti, nuove nazioni come gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone stesso si fanno riconoscere privilegi commerciali. I funzionari cinesi provano un estremo tentativo di modernizzare l’esercito e la marina, ma quel poco che è stato rinnovato, viene annientato dal Giappone nella guerra del 1894-95, che le sottrae Taiwan e la penisola coreana. Infine, grazie alla vittoria sui russi di Tsushima del 1905, il Giappone ottiene i diritti di sfruttamento delle ferrovie manciuriane, una regione scarsamente abitata ma colma di materie prime e risorse naturali vitali per l’industria giapponese.

Punto saliente, anche in quest’area del mondo, è la Prima guerra mondiale e in particolare la diplomazia segreta condotta dalle nazioni europee. Infatti, Francia e Gran Bretagna si accordano in separata sede con cinesi e giapponesi promettendo compensi che avrebbero provocato risentimenti cinesi. Ovvero, a questi ultimi, in cambio di centomila uomini di manodopera sul Fronte occidentale, viene garantita la restituzione delle colonie tedesche in Cina, mentre al tempo stesso queste stesse colonie vengono promesse ai giapponesi. Partendo il Giappone da una posizione di notevole forza rispetto all’ex impero di mezzo, i nipponici occupano quasi tutte le ex colonie tedesche in Asia e nel Pacifico. Questa situazione viene ratificata dal Trattato di Versailles del 1919. Inoltre, i giapponesi, forti del loro apparato industriale, si sostituiscono alle potenze occidentali nel commercio.

Al tempo stesso, la Cina precipita nel decennio dei signori della guerra, un periodo che vede protagonisti ex alti funzionari imperiali, che hanno riformato il proprio esercito dopo la prima guerra sino giapponese e che di fatto controllano feudalmente il Paese. L’abdicazione dell’ultimo imperatore cinese Pu Yi nel 1911 dà la possibilità al rivoluzionario yuan Shikai di instaurare una repubblica a Pechino, di cui Sun Yat sen diventerà presidente. Questa, però, ha vita breve, nonostante il tentativo del generale del Kuomintang Chiang Kai-shek di riprendere il controllo delle maggiori città del Sud come Canton e Shanghai. 

La Prima guerra mondiale in Asia e le sue conseguenze

La Prima guerra mondiale aiuta il Giappone ad imporsi militarmente sulla giovanissima Repubblica: durante i primi mesi di guerra, i nipponici occupano subito lo Shandong tedesco per poi imporre il 18 gennaio 1915 le 21 richieste a Sun avanzate dal ministro degli Esteri giapponesi Kato Komei. In più la Repubblica cinese dopo la morte naturale di Sun precipita nel caos dei signori della guerra. È un periodo, in cui i generali delle varie regioni aggiungono al potere militare quello civile, che tentano di imporre su tutto il paese, alleandosi in cricche che però o non hanno la forza sufficiente per unificare il paese, o preferiscono restare nell’area di propria pertinenza o si alleano con i giapponesi. Si può paragonare questo turbinio politico militare ad una specie di politica dell’equilibrio di potere dell’Europa settecentesca.

Il Trattato di Versailles non fa che complicare il quadro complessivo. Infatti, il Giappone viene quasi trattato come un paese sconfitto, in quanto come all’Italia, viene applicato il principio wilsoniano dell’autonomia dei popoli e quindi sebbene gli vengano riconosciute le conquiste effettuate in Cina e nel Pacifico, il Paese del sol levante può amministrarle solo con un mandato di tipo “C”. Come se non bastasse, i giapponesi sono trattati come una razza inferiore, al pari dei cinesi, ma nonostante abbiano contribuito a sconfiggere il Secondo Reich nel Pacifico, non vengono ammessi a pieno titolo nel concerto delle potenze. A complicare la matassa interviene anche la Conferenza navale di Washington del 1921 che limita il tonnellaggio della marina militare nipponica rispetto a quelle di USA e Regno Unito.

Il 1919 è uno spartiacque anche dal punto di vista politico. Infatti, vede la fondazione del Partito nazionalista cinese, il Kuomintang, ad opera del rivoluzionario Chang Kai-Sheck. Nel 1921, gli intellettuali Li Dazhao e Chen Duxiu fondano il Partito comunista cinese nella Concessione francese di Shanghai. Nel 1927 Chang, succeduto ormai definitivamente a Sun, riesce finalmente ad unificare gran parte del paese, sconfiggendo le cricche militari dei Signori della guerra grazie all’aiuto di attaché militari tedeschi. Così stabilisce la capitale a Nanchino, che viene riconosciuta a livello internazionale l’anno successivo. Chang si trova a combattere due nemici: i comunisti da un lato e i giapponesi dall’altro.

I giapponesi temono che la determinazione di Chang nell’unificare la Cina possa in futuro costituire un serio problema alla loro politica espansionistica. Questo timore è aggravato dagli eventi drammatici che si susseguono nello stesso Giappone durante gli anni 30. In questi anni, il governo nipponico perde progressivamente il controllo degli apparati militari, a cominciare dal ministro della difesa Tojo. Egli, come anche gli alti vertici militari, che influenzano assai il governo, è sempre più convinto che l’unica soluzione per il Giappone sia la creazione di un impero territoriale in Asia, dalla Siberia all’Indonesia, che garantisca rifornimenti alimentari, materie prime e mercati per le aziende nipponiche in un paese in costante crescita demografica. La Manciuria è oggetto di forti investimenti giapponesi almeno dalla vittoria sulla Russia del 1905, dunque oggetto di pressioni nipponiche sempre più stringenti.  Tuttavia, la regione è governata dal signore della guerra locale Zhang Xueiliang, figlio di Zang Zuolin, intenzionato a resistere agli invasori, poiché gli avevano ucciso il padre.

Nel mentre, le truppe nipponiche dislocate in Manciuria, circa centodieci mila uomini, acquisiscono sempre più autonomia dal governo Minseito di Tokyo. Il 18 settembre 1931 degli ufficiali giapponesi organizzano un incidente ad hoc vicino alla stazione ferroviaria di Mukden, di proprietà giapponese. Ottenuto il casus belli, occupano le maggiori città mancesi ed entro la fine del 1931 l’armata del Guandong espelle le truppe di Zhang dalla regione. I giapponesi, quindi, installano un governatore fantoccio in Manciuria, rinominandola Manciukuo, cioè terra dei mancesi. In questo modo si assicurano una sicura presenza nella Cina settentrionale, quale futura base per ulteriori guerre contro i nazionalisti o i comunisti cinesi. Questo è il preludio militare della Seconda guerra mondiale in Asia.

La guerra sino giapponese dal 1937 al 1941

Dopo la traumatica annessione della Manciuria, Chang comprende che prima di affrontare i giapponesi, deve risolvere definitivamente la questione con i comunisti. Quindi, fino al 1935, Chang attua le cosiddette campagne di accerchiamento per tentare la distruzione definitiva dei comunisti. Proprio queste prove, tra cui la lunga marcia del 1933-34, dimostrano l’applicabilità delle teorie del comunismo contadino e della guerra popolare di Mao che si impone sul comunismo ortodosso di stampo sovietico. La lunga marcia consente al dirigente comunista di sfuggire al terrore bianco nazionalista delle città e di riorganizzare i resti dell’Armata rossa cinese nella nuova base di Yan’ an. Mao comprende che, se vuole salvare la situazione, deve pervenire ad un accordo con Chang, il quale, pure si convince che i giapponesi non si fermeranno neanche con l’occupazione di Shanghai. L’accordo giunge finalmente il 5 luglio 1937, con lo scopo ultimo di cacciare i giapponesi dalla Cina.

Appena due giorni dopo, mentre una compagnia giapponese sta eseguendo un’esercitazione notturna nei pressi del Ponte di Marco Polo, delle truppe cinesi aprono il fuoco. Questo è la versione dei fatti delle truppe nipponiche. Inizialmente, il nuovo governo giapponese del principe Konoye è favorevole al compromesso diplomatico, ma i militari oltranzisti chiedono l’invio di nuove truppe in Cina per punire Chang. Nel mentre, il 15 luglio i generali Sung-Chi Yen e Gun Hashimoto, rispettivamente il primo cinese, il secondo giapponese, raggiungono un accordo di fondo: le scuse cinesi e l’immediato impegno nipponico a non far più affluire truppe nella regione. Ma le comunicazioni con Tokyo sono così malandate, che ormai il 17 luglio il governo giapponese invia un telegramma a Chang affinché riconosca l’acquisizione manciuriana e cessi l’invio di truppe a nord. Chang rifiuta e il 25 luglio la situazione precipita: giapponesi e cinesi scatenano una vera e propria battaglia, nella stazione ferroviaria di Langfang, vicino a Pechino.

I militari a Tokyo sono convinti che il conflitto si possa risolvere in tre mesi. Questa volta però Chang non ha nessuna intenzione di piegarsi ai giapponesi e organizza la resistenza in modo da prendere tempo, affinché le nazioni occidentali intervengano con aiuti militari. All’epoca solo l’Unione sovietica, la Germania e in misura minore l’Italia aiutano il Kuomintang. La prima per motivi di interessi strategici, cioè di riuscire a tenere impegnati i nipponici in Cina il più possibile, onde evitare una guerra diretta. Le due potenze fasciste invece aiutano Chang per questioni prettamente commerciali, per timore di perdere l’accesso al mercato cinese. Tuttavia, gli aiuti cessano con la stipula del Patto Anticomintern tra il Secondo Reich, l’Italia e il Giappone a Berlino il 25 novembre 1936.

Il 13 dicembre 1937 i giapponesi entrano a Nanchino. Originariamente, il generale Iwane Matsui ordina ai suoi soldati di “proteggere e rispettare nei limiti del possibile, gli ufficiali e il popolo cinese”. Ma al contrario, spalleggiati da camerati oltranzisti, applicano la politica dei tre tutto: uccidere tutti, bruciare tutto, distruggere tutto, per punire la determinazione cinese a resistere. Tuttavia, Chang è determinato a resistere, pena la credibilità a livello di relazioni internazionali del partito nazionalista. Fallito un ulteriore tentativo di negoziato, supportato dall’ambasciatore tedesco Oskar Trautmann, a Tokyo, Tojo e la sua cricca militare colgono l’occasione per imporre la leva obbligatoria ed esautorano di fatto la Dieta imperiale, installando il premier Konoe.

Nel ’38 i nipponici conquistano Hankow e Canton a sud, costringendo Chang a trasferire il governo a Wuhan. Ma è una soluzione temporanea, infatti nonostante una maggiore resistenza cinese, i giapponesi si lasciano andare alle stesse efferatezze commesse a Nanchino. Quindi Chang sgombera Wuhan per spostarsi a Chongqing, sul Fiume Azzurro, deciso a resistere, finché Tokyo non accetti di sgomberare tutte le truppe dalla Cina. Atti cinesi di estrema resistenza sono la battaglia di Taierzuang all’inizio del ’38 e la distruzione della diga sul Fiume azzurro a Huayuankuo.

Quei duri primi anni della guerra cino-giapponese, tra il 1932-39 vedono anche scontri di confine con l’Unione sovietica che tengono impegnate almeno centomila soldati nipponici in Manciuria occidentale e nella Mongolia esterna. Quindi l’Armata rossa sconfigge l’Imperiale esercito giapponese nel luglio del ’39 a Khalkhin Gol, segnando una prima battuta d’arresto al panasiatismo dei militari. Questa sconfitta spinge Tokyo a cercare un cessate il fuoco e poi un trattato di non aggressione con i sovietici che verrà firmato il 13 aprile 1941.

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La guerra mondiale: dal 1941 al 1945

Nel mentre, la guerra in Cina si trasforma in una “strana guerra”: come sul fronte occidentale europeo i primi mesi vedono una stasi delle operazioni belliche, così succede per il conflitto asiatico nel triennio 1938-1941. Anche questa similitudine è indice della internazionalità del conflitto, ben prima di Pearl Harbor e della dichiarazione di guerra americana. Tuttavia, continuano i bombardamenti sulla capitale nazionalista per cercare di indurre Chang alla resa. Nel tempo stesso i giapponesi bombardano Yan’an, la base di Mao, anche se non con la stessa intensità dei nazionalisti. Per esempio, l’VIII Armata di campagna comunista, dopo aver occupato Taiyuan nella Cina centrale, il 25 settembre 1937 massacra la 5 divisione giapponese. Nello stesso triennio, la forza militare comunista si accresce fino a quattrocentoquaranta mila uomini, finché nell’agosto 1940 l’VIII armata comunista lancia l’offensiva dei Cento reggimenti che provoca una controffensiva giapponese nell’autunno successivo.

Dopo la rapida sconfitta della Francia, nel giugno 1940, il ministro della guerra giapponese Tojo ordina di occupare l’’Indocina francese grazie a degli accordi con il governo collaborazionista di Vichy; quindi, nel luglio 1941 gli Stati uniti impongono a Tokyo l’embargo sulle importazioni di petrolio. A questo punto, Tojo, consapevole della relativa carenza delle riserve petrolifere giapponesi, cioè circa due anni al ritmo attuale delle operazioni militari, decide di reagire deponendo il primo ministro Konoe. Le discussioni sull’entrata in guerra con le autorità civili continuano, ma è data per scontata. Infatti, alla Conferenza imperiale del 5 novembre viene fissato il termine ultimo del 5 dicembre per trovare un’intesa con le potenze occidentali. 

Nel mentre, l’esercito e la marina giapponesi studiano i piani di invasione per Singapore, Hong Kong, la Malesia, le Indie orientali olandesi e le Filippine. Poiché il 26 novembre giunge una nota diplomatica in cui si chiede a Tokyo il ritiro dalla Cina, la nuova Conferenza imperiale del 1° dicembre fissa l’inizio delle ostilità per l’8. Così, quando negli Stati uniti è ancora domenica, i giapponesi attaccano di sorpresa, uccidendo circa duemilacinquecento americani e ferendone altri millecento. La flotta americana non è più una minaccia e neppure l’aviazione, eccetto che le portaerei, che fortunatamente si trovano impegnate in un’esercitazione. Ventiquattro ore dopo, i nipponici attaccano Hong Kong, le Filippine, la Malesia, Singapore e la Thailandia.

Dall’apogeo alla disfatta totale

Galvanizzati dalle rapidissime conquiste, mentre procede l’occupazione dell’Indonesia, l’esercito estende l’area delle operazioni ad occidente verso la Birmania, per sia tagliare i collegamenti con la Cina attraverso la direttrice Rangoon Yunnan, sia per poi mirare al florido Raj britannico dell’India. Questa conquista era solo una parte della più generale manovra a tenaglia, promossa dalle potenze del patto tripartito per impossessarsi dell’impero britannico e quindi soddisfare la loro ambizione ultima del fatidico “posto al sole”. Tuttavia, i giapponesi non avevano fatto i conti con la resistenza cinese, nazionalista, ma anche ovviamente comunista.

Nel 1943 le dinamiche della guerra mondiale iniziano a pesare per la Cina nazionalista. Infatti, alla conferenza del Cairo, nonostante l’invito di Chang, la decisione fondamentale della conferenza, nome in codice SEXTANT, è quella di costringere il Giappone alla resa definitiva, senza cercare paci separate. Ma in merito al teatro bellico, viene assegnata priorità al Pacifico, lasciando in ruolo subalterno Chang. Verso la fine di dicembre 1934 i cinesi iniziano a saggiare le postazioni giapponesi d’avanguardia in Birmania, in previsione dell’Operazione Bucaniere, uno sbarco sulle coste orientali, per poi liberare lo stato. Tuttavia, la decisione dell’Operazione Overlord in Normandia nella conferenza di Teheran non consente agli alleati di lanciare Bucaniere. Al contempo, poiché i giapponesi perdono le isole Marianne decidono di raddoppiare la posta in gioco, come nel ’41. Il Quartiere generale imperiale prevede due campagne: l’Ugo dalla Birmania settentrionale contro l’india del nord, la Ichigo: Numero uno, in Cina centrale.

L’esercito nazionalista subisce nuove sconfitte, nel mentre, Mao si rafforza sempre di più, grazie agli aiuti sovietici, ma anche alle politiche di redeistribuzione delle terre e della guerra di resistenza. Ma, l’aspetto più importante è che Chang si aliena la lealtà della popolazione, poiché sovente le sue truppe si abbandonano a saccheggi. I nipponici vengono sconfitti in Birmania, dalla quale arretrano. Ma, forti delle loro truppe motorizzate, avanzano nella Cina centrale e meridionale, raggiungendo nel novembre ’44 Guilin, ad ottocento chilometri dalla capitale nazionalista Chongqing. Inoltre, la vittoria in Birmania, è una vittoria di Pirro, in quanto i nazionalisti subiscono alte perdite. Il tutto, unito al crescente impegno europeo degli Usa, sembra far pendere sempre più l’ago della bilancia in favore degli invasori.

Mentre la guerra infuria in Cina, gli americani dalla vittoria di Guadalcanal nel 1943 hanno strappato isola dopo isola ai giapponesi nel Pacifico, fino a Iwo Jima nel febbraio 1945 e Okinawa alla metà del mese stesso. Nonostante la vittoria, gli americani constatano un’incrollabile determinazione nipponica a resistere all’ultimo uomo. Per esempio, per conquistare l’ultima isola gli americani riportano 12000 morti, 30000 feriti e forti perdite aeree e navali. Quindi gli strateghi a Washington temono numerosissime perdite nel caso di uno sbarco alleato in Giappone, oltre al fatto di dover ancora liberare tutta la Cina orientale. Inoltre, nonostante i forti bombardamenti, anche incendiari sulle maggiori città giapponesi, che provocano migliaia di vittime, poiché le case nipponiche sono ancora in legno, lo spirito combattivo nipponico non accenna affatto a diminuire.

Conferenza di Potsdam

Alla Conferenza di Potsdam del 17 luglio 1945 Harry Truman, Clement Attlee e Stalin emanano una nota in cui intimano al Giappone la resa incondizionata o la distruzione totale. Il Giappone non accetta le condizioni alleate. Nel mentre continuano i bombardamenti e finalmente l’8 agosto Stalin ordina l’attacco della Manciuria, che si risolve in una lunga ma vittoriosa marcia fino a Porth Arthur il 30 agosto. Due giorni dopo l’attacco sovietico, il B-29 americano Enola Gay sgancia la prima bomba atomica su Hiroshima, provocando 60000 morti circa e 100000 feriti. L’imperatore non si è ancora risolto a cercare la pace; quindi, gli americani sganciano il 9 agosto Fat boy, la seconda bomba atomica su Nagasaki. Il 10 allora l’Imperatore soglie le riserve dell’esercito, annunciando il 14 al popolo giapponese l’accettazione della sconfitta. La resa viene firmata il due settembre sul ponte della corazzata Uss Missouri, sancendo per la prima volta l’occupazione del Giappone da una potenza straniera.

La guerra sino giapponese rappresenta uno dei più grandi paradossi della storia. Un paese, all’inizio delle ostilità, avanzato economicamente, tecnologicamente, militarmente, decide di entrare in guerra contro il mondo intero per il timore di essere accerchiato. Ma è l’eccessivo ottimismo dei militari la causa ultima della perdita del primato giapponese sull’Asia. Infatti, il Paese del sol levante, dai folgoranti successi iniziali, al Trattato di pace di Versailles è costretto a rendere lo scettro di massima potenza asiatica alla Cina, che ottiene di essere riconosciuta tra le cinque potenze vincitrici e il seggio permanente all’Onu. Altra conseguenza è il proseguo della guerra civile tra comunisti e nazionalisti, che si risolve nel 1949 con la vittoria di Mao e la fondazione della Repubblica comunista di Cina, oltreché alla perdita della sovranità del Giappone stesso.

NOTE:

1) Rana Mitter, Lotta per la sopravvivenza, pagine 56-57

Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!

  • Enrica Collotti Pischel, Storia dell’Asia orientale, 1850-1949, Carocci editore.
  • Rana Mitter, Lotta per la sopravvivenza. La guerra della contro il Giappone, 1937-1945, Einaudi.
  • John Toland, L’eclissi del sol levante, Arnoldo Mondadori Editore.
Letture consigliate
Riccardo Andreatta

Riccardo Andreatta

Sono un laureato magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli studi di Padova, con una tesi sullo sviluppo dell’esercito cinese dal 1948 ad oggi. Invece la triennale l’ho conseguita a Cà Foscari, sempre in Storia contemporanea, ma sul conflitto sino indiano per il Kashmir.

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