CONTENUTO
Cos’è una trincea? Perché viene associata alla Prima guerra mondiale?
“In una trincea c’era un braccio che fuoriusciva dal terreno, la cui mano stringevamo quando ci passavamo accanto, esclamando: <<Salve, amico!>>. Sono stato in trincee dove si pensava: <<Probabilmente c’è un corpo laggiù>>, perché la terra era molle e maleodorante, con un fetore dolciastro. Però ci si abituava”.
Questa è solo una delle tante testimonianze che apprendiamo dai soldati che vissero, combatterono e morirono nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, ma cosa è di preciso una trincea? Da un punto di vista strutturale, essa consiste fondamentalmente in una fortificazione scavata direttamente nel terreno, allo scopo di fornire protezione agli occupanti e permettere, allo stesso tempo, il mantenimento delle posizioni guadagnate e di tenere sotto controllo le postazioni nemiche.
Questo in linea generale, dato che si hanno molte variabili che determinano la tipologia di trincea, come il terreno sul quale stabilirle, le possibilità costruttive di uno schieramento rispetto all’altro e la perspicacia dei “piani alti” nel prevedere il tipo di scontro; a questo proposito, prendiamo come esempio le trincee tedesche e mettiamole a confronto con quelle francesi, dove mai più calzante risulta il detto “chi prima arriva meglio alloggia”, questo perché i tedeschi, dopo le prime azioni belliche, hanno capito (loro malgrado) che lo scontro sarebbe stato più statico del previsto, così hanno realizzato delle trincee particolarmente difensive in luoghi più adatti alla difesa, come zone sopraelevate ben difendibili.
Hanno così avuto la possibilità di scegliere per primi il luogo in cui stabilire queste fortificazioni campali. Una visione preventiva del tipo di scontro ha quindi influito direttamente anche sulla qualità e l’organizzazione di sviluppo delle trincee tedesche rispetto a quelle avversarie.
Un paragone simile può essere fatto anche mettendo a confronto le trincee italiane con quelle austro-ungariche; difatti questi ultimi è vero che inizialmente hanno fatto penetrare l’esercito italiano nel proprio territorio, ma solo allo scopo di ritardare lo scontro per creare linee di trincee solide e ben organizzate, anche se più arretrate. Il risultato fu che nel 1915 gli italiani si ritrovano a scavare fosse di fortuna e a sfruttare i crateri lasciati dall’artiglieria a mo di rifugio, mentre l’esercito austro-ungarico già ha trincee solide e ben organizzate.
La trincea nella Prima guerra mondiale
E’ da tenere ben presente che la trincea non nasce con la Prima Guerra Mondiale, bensì molto prima, ed essa può essere considerata a tutti gli effetti un prodotto delle “guerre di posizione”, vale a dire scontri caratterizzati da stalli e/o preparazioni alla battaglia tali da determinare il posizionamento, tendenzialmente stabile e fisso, di una zona da parte degli schieramenti coinvolti, con il risultato di andare incontro ad un conflitto logorante. Primi esempi in questo senso possono essere ricordati dagli assedi (dall’antichità all’epoca moderna), in cui la creazione di trinceramenti diventa consequenziale.
Nello specifico, la trincea viene associata alla Grande Guerra perché se n’è fatto un uso intensivo, caratterizzandone l’intero conflitto, con uno sviluppo del suo andamento e della sua organizzazione spaziale ben più complesso rispetto alle trincee dei secoli precedenti. Una situazione a cui nessuno crede di giungere all’inizio del primo conflitto mondiale, dato che si pensa piuttosto ad una risoluzione rapida e dinamica della guerra (vedi infatti le premesse del Piano Schlieffen tedesco).
Oltretutto, un fattore che ha incentivato questo tipo di struttura è stato certamente il concetto di “guerra di massa” ormai ben radicato ma introdotto già nel XVIII secolo con la leva obbligatoria, dove si passa dal piccolo esercito professionale al poter schierare grosse quantità di uomini reclutati direttamente dalla popolazione civile.

Come sono strutturate le trincee?
In linea generale ed escludendo le infinite variabili dettate da vari motivi (logistici, territoriali, temporali ecc.), una trincea viene organizzata su più linee orizzontali, rivolte verso i trinceramenti avversari e comunicanti tra di loro attraverso dei camminamenti:
- la prima linea è quella frontale, più vicina all’analoga prima linea avversaria, nella quale l’allerta è sempre massima dato che in qualsiasi momento si può subire o sferrare un attacco. In genere vi è alloggiato 1/3 degli uomini totali;
- la seconda linea, detta “di riserva”, è arretrata rispetto alla prima e viene impiegata come bacino di organizzazione delle truppe dirette alla prima linea e come linea di ripiego nel caso in cui la prima linea venga occupata dal nemico. Anche qui vi è 1/3 circa degli uomini totali;
- la terza linea, detta “di massima resistenza”, funge da trinceramento di supporto alla prima e seconda linea, nel caso in cui le cose si mettano male. Vi è stanziata l’ultima parte dei soldati totali schierati;
- in alcuni casi si può avere anche una quarta linea, quella specificatamente adibita ad ospitare il quartier generale, fondamentale per organizzare la logistica e gli spostamenti delle truppe.
Una trincea nel suo insieme è praticamente paragonabile ad un labirinto che, seppur con livelli di organizzazione discutibili in molti casi, offre: bunker per gli alloggi dei soldati, ambienti ricavati direttamente nel terreno per installarvi vari servizi, come mense, barbieri, ricoveri di fortuna ecc.
Di particolare sviluppo risulta però la prima linea, in cui la caratteristica ricorrente ai vari eserciti risiede nel suo andamento a zig zag, al fine di evitare il fuoco d’infilata e le schegge d’artiglieria.
Per quanto riguarda le dimensioni di una linea di trincea, esse variano da fronte a fronte in base alle esigenze del caso; per esempio sul fronte italiano abbiamo linee larghe lo spazio sufficiente per far passare un soldato con zaino ma non di più, per evitare di essere poco protetti dai proiettili nemici, mentre le trincee inglesi tendono ad essere profonde quasi 3 metri e larghe circa 2,5 metri.
Nonostante queste differenze, una prima linea ha spesso un’organizzazione tipo: pareti interne della trincea con addossati sacchi di sabbia per aumentarne la resistenza ai bombardamenti (non solo sabbia, ma anche pietre o legno in base alla disponibilità), scalini per poter affacciarsi dalla trincea ed osservare le linee nemiche, altri sacchi di sabbia posti sui bordi esterni della trincea (per aumentare la protezione dai colpi nemici) e infine filo spinato rivolto verso le linee avversarie, con lo scopo di ostacolare eventuali avvicinamenti di fanteria nemica.
Esemplificativa è la testimonianza del soldato Ottone Origlia (fronte italiano) che ci racconta un particolare avvenimento che dimostra la complessità effettiva delle trincee:
“Ogni tanto i cucinieri ci raggiungevano e, percorrendo la trincea, distribuivano a ciascuno un mestolo di brodaglia. Una volta sbagliarono trincea, e si ritrovarono in quella austriaca. Occorre riconoscere che i nostri nemici, la cui condizione non era migliore della nostra, si comportarono da gentiluomini: mangiarono di gusto il nostro vitto, ringraziarono i cucinieri e li rimandarono indietro”.
La vita in trincea dei soldati
Come può essere facilmente immaginabile, vivere in un ambiente inospitale e a tratti letale per l’uomo (tale è definita la trincea) non può di certo essere piacevole nonostante i differenti livelli di organizzazione militare presenti tra uno schieramento e l’altro.
Prendendo in esame le centinaia di testimonianze dedicate alla descrizione della quotidianità in trincea, una giornata tipo si svolge in questa maniera: appena sorge il sole finiscono le attività lavorative svoltesi durante la notte, così i soldati cercano dei punti in cui riposarsi, altri invece rimangono fermi, immobili ed aspettano. Un dato, quest’ultimo, spesso presente negli scritti dei soldati e che va a cozzare con l’epicità degli scontri e delle marce all’epoca tanto decantate.
L’attesa è la compagna del soldato di trincea, ma forse la peggiore è quella relativa al momento dell’attacco, poiché chi esce dalla trincea non sa se ne farà ritorno. Di notte le cose non migliorano dato che è in questo momento che si concentrano i livelli di massima attività lavorativa (poiché si è occultati dal buio), ma sempre seguendo la regola del muoversi lentamente e con attenzione per evitare di essere colpiti dai cecchini, perennemente in agguato sia di giorno che di notte.
Dopodiché inizia un’altra giornata, che insieme alla luce del sole porta rancio e caffè, e a proposito di caffè in trincea, forse è proprio da questo momento che ha preso piede il consumo di caffè al mattino (curiosità).
Ovviamente non mancano momenti di svago, soprattutto nelle linee arretrate e in luoghi non caldi del fronte, ma di base questi sono i momenti della giornata vissuti dai soldati al fronte.
Neanche il pasto, uno dei pochi momenti “ricreativi” della giornata, è esente da malumori e a tal proposito basta pensare al fatto che molti soldati di prima linea si ritrovano talvolta a mangiare con l’odore nauseante dei cadaveri lasciati a decomporre nella “terra di nessuno”, e questo odore si va a mischiare con quello del cibo da consumare, fino a <<cambiarne addirittura il sapore>>.
Ma a giudicare dai racconti e dalla corrispondenza, spesso è la sete il nemico principale, tant’è che alcuni uomini, pur di dissetarsi, bevono l’acqua di raffreddamento delle mitragliatrici e quella dei radiatori delle trattrici (con il rischio di morire avvelenati), oppure urinano in un mastello di sassi e sabbia che fungono da filtro (si crede ciò) e ne bevono il liquido restante considerato depurato. Spesso succede anche che venga bevuta l’acqua che ruscella tra i cadaveri, con conseguenze immaginabili…
Ma la pace non viene nemmeno durante i momenti di riposo: è cosa nota la presenza di topi e pidocchi che, nei casi peggiori, addentano letteralmente i poveri uomini intenti a riprendersi, portando a risultati sanitari terribili; il morso di questi animali provoca prurito (se non dolore) e il prurito porta a grattarsi. Il problema è che l’igiene è precaria, quindi il grattarsi continuamente con le unghie sporche porta ad ulteriori malattie. Una situazione davvero invivibile.
Il momento più felice del soldato in trincea della prima Guerra Mondiale è forse il momento della posta. Un momento capace di far rivivere gli affetti, la familiarità della propria vita lontana dalla guerra. Nonostante il basso livello di alfabetizzazione, circolano miliardi di lettere e chi non sa leggere e scrivere si fa aiutare da chi è invece alfabetizzato.
Concludo citando Marco Scardigli che, con una semplice frase, riassume la vita del soldato in trincea: “Pidocchi, fame, sete, puzza e fango: questa era la realtà quotidiana della guerra, che non si trova nelle lapidi commemorative e nella poesia dei tanti D’Annunzio. Manca solo la merda.”
Come si svolge un attacco nella Prima guerra mondiale
“La vita in trincea, anche se dura, è un’inezia di fronte ad un assalto. Il dramma della guerra è l’assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono”.
Questo è il momento più temuto da ogni soldato. Nessuno sa se sopravvivrà una volta superato il parapetto della propria trincea. Spesso, prima di un assalto di fanteria verso le linee nemiche, il ruolo da protagonista lo riveste l’artiglieria che martella le posizioni avversarie in continuazione, anche giorno e notte senza interruzione, per spianare la strada alla fanteria.
In molti casi, l’artiglieria svolge anche un ruolo diversivo: bombardare l’area X facendo credere che la fanteria attaccherà quel punto, per poi invece assaltare via terra il punto Y. Sta di fatto che il principio generale che sta alla base degli attacchi d’artiglieria è quello di martellare prima l’area cosiddetta “terra di nessuno” (oltre che la prima linea nemica) per eliminare i reticolati e gli impedimenti per la fanteria, dopodiché il tiro si alza e viene rivolto oltre la prima linea avversaria, con lo scopo di isolare la difesa e falcidiare tutti gli eventuali rinforzi diretti verso la prima linea; lo scopo di tale operazione è quindi isolare la prima linea dalle linee di rinforzo.
In tutto questo, importantissimo è l’apporto dell’aviazione a supporto dell’artiglieria, dato che grazie agli aerei e ai palloni frenati (detti anche “draken”) si viene a conoscenza delle linee da bombardare e tramite l’uso dei razzi colorati avviene l’eventuale comunicazione di aggiustamento del tiro.
Ma attenzione al considerare la vicinanza fra trincee avversarie, poiché si può incorrere nel fuoco amico, cosa non rara: per esempio, in un ricovero tedesco è stata trovata la seguente scritta: “Noi tedeschi non temiamo nessuno all’infuori di Dio e della nostra artiglieria”. Questa affermazione la dice lunga.
A questo punto, dopo il bombardamento, partono le prime pattuglie incaricate di trinciare i reticolati rimasti per facilitare l’attacco alla fanteria, utilizzando cesoie o tubi di gelatina esplosiva. Nello sfruttamento di questi rischiosi incarichi se ne comincia a fare a meno lentamente, fino a che l’uso delle bombarde non ne determina la drastica riduzione poiché esso si rivela in grado di eliminare buona parte degli impedimenti presenti sul campo.
Al termine di questa fase, inizia l’avanzata composta da varie ondate di fanteria: la prima ondata da il via all’assalto e viene seguita dalle successive, pronte a rafforzarsi a vicenda. Nel momento in cui avviene la conquista della prima linea avversaria, si continua verso la seconda linea. L’obiettivo è quello di occupare e quindi annientare l’area nemica, conquistandola.
Il buon esito di un’avanzata lo si ha quasi sempre in teoria, difficilmente in pratica. Ecco ora una testimonianza che ci da l’idea di un assalto:
“Un ufficiale dopo aver consultato l’orologio diede fiato ad un fischietto: i soldati tacquero ed ascoltarono. Egli comandò: <<Baionette in canna…>>>.
Un rumore di ferri e di scatti si diffuse per la trincea. Il nemico non sparava un colpo…solo alcune batterie nostre tiravano a granata sulle trincee avversarie. Gli uomini che avevo vicino si fecero pallidi in viso e i loro occhi divennero come quelli dei pazzi e le loro bocche mute. Si guardavano senza parlare; qualcuno baciava delle immagini e delle fotografie tolte dal portafoglio.
Un altro fischio ed altri comandi. Tre minuti ancora…due minuti…un minuto…fuori!…fuori! Una tremenda fucileria dell’avversario li accolse…li investì, li disperse tutti…prima che giungessero al reticolato nemico.
Dopo un quarto d’ora pochi sopravvissuti rientravano nella trincea di partenza”.
Le conseguenze umane del conflitto: i matti di guerra
Oltre ai quasi 18 milioni di morti provocati dal conflitto mondiale, vanno ricordati gli ulteriori milioni di uomini che furono feriti non solo nel fisico ma anche nella psiche. Cosa può portare un uomo ad auto infliggersi lesioni tali da poter sperare di tornare a casa, lontano dal fronte? Solo traumi profondi come quelli provocati da una guerra.

Spesso questi uomini cercano di simulare l’accidentalità dell’evento per essere rimandati a casa, ma altre volte (nella maggior parte dei casi) venivano ricondotti al fronte oppure fucilati per simulazione. Sono numerosi i casi in cui i nevrotici di guerra vengono equiparati a dei disertori, poiché dominati dal voler abbandonare la zona di guerra al pari di un disertore, appunto.
Si nota come a queste manifestazioni di nevrosi e di isteria (oggi riconosciute come patologiche), si accosta una reazione particolare, vale a dire l’auto inibizione da parte del paziente di rinunciare a una o più funzioni della coscienza per fuggire dalla violenza: alcuni non parlano più, non vedono, non camminano nonostante il loro fisico non abbia problemi.
Riguardo a queste manifestazioni psicopatologiche, fenomeno questo meno divulgato, un interessante lavoro di raccolta dati e testimonianze scritte dai medici che assistono tali pazienti, è stato fatto dal prof. Guido Alliney che ricostruisce la storia di un giovane sottotenente di 24 anni, Adolfo Vinciguerra, appartenente al III battaglione del 66o reggimento della brigata Valtellina, proveniente da un’agiata famiglia borghese di Sora (Frosinone).
Dalla descrizione che ne fanno i genitori, esso è un ragazzo molto sensibile con il timore di ogni sorta di arma e che, a seguito del terremoto della Marsica (13 gennaio 1915) che uccise solo a Sora 600 persone, ebbe “manifestazioni nevropatiche di tipo isterico”, come riportato dalla sua cartella clinica.
L’evento che però va a “cambiare totalmente” Vinciguerra è da ricercare in un assalto alle linee austriache portato avanti dal plotone del nostro sottotenente e a cui esso prese parte; appena usciti alla carica, gli italiani si ritrovano sotto un fuoco intenso di fucileria, artiglieria e mitragliatrici e dei circa 50 componenti del plotone, solo sette se ne salvano. Di questi, Vinciguerra rimane l’ultimo sottotenente in vita. E’ il 28 novembre 1915.
Arrivati al 10 dicembre, Adolfo viene ricoverato all’ospedale di Cividale per febbri reumatiche. Successivamente si riprende ma ha una ricaduta caratterizzata da stati psicologici alterati: è il 5 febbraio e Vinciguerra <<si mostra angosciato e preoccupato, parla in continuazione e si muove andando in tutti i sensi come in gran pena. Accenna a dei dubbi atroci, delle sofferenze sovrumane>>.
A questi sintomi, gli psichiatri del Reparto malattie nervose diagnosticarono una psicosi isterica. Se fino a questo momento gli atteggiamenti del sottotenente sono stati questi, adesso il giovane si mostra solitario, pensieroso e a tratti violento, sfociante in attacchi di pianto improvvisi e cambi d’umore repentini.
Il padre del giovane, venuto a conoscenza della situazione di salute in cui verte il figlio, fa di tutto per riportarlo a casa e così, il 12 agosto 1916, riesce nell’intento. Il sottotenente Adolfo Vinciguerra viene giudicato non più idoneo al servizio militare e congedato con diagnosi di demenza precoce catatonica.
Una volta a casa, la famiglia non riconosce più il giovane; di quel ragazzo sensibile e affettuoso non rimaneva più nulla. L’esperienza traumatica della guerra <<aveva acuito il disagio latente di Adolfo e la sua insofferenza verso i comportamenti e i valori dell’ambiente borghese, portandolo al rifiuto della famiglia e del mondo circostante, in uno stato di torpore e di negazione dei sentimenti>>.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
Hai voglia di approfondire l’argomento e vorresti un consiglio? Scopri i libri consigliati dalla redazione di Fatti per la Storia sull’argomento, clicca sul titolo del libro e acquista la tua copia su Amazon!
- Emilio Ceresola, “Sopravvivere in trincea. La vita quotidiana nelle trincee della Grande Guerra”, DBS, 2017.
- Guido Alliney, “La follia nella Grande Guerra. Storie dai manicomi militari”, Leg Edizioni, 2020.
- Marco Scardigli, “Viaggio nella terra dei morti”, UTET, 2014.
- Joshua Levine, “Somme. Voci dall’inferno”, Giunti Editore, 2016.
Adoro questo sito! Gli articoli sono sempre ben fatti, di semplice comprensione e ricchi di informazioni come piacciono a me! Sicuramente non smetterò presto di leggere gli articoli e da grande appassionata credo sia un buon mezzo per approcciarsi alla storia.