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Distensione politica USA-URSS
Il concetto di distensione fa riferimento, nel linguaggio delle relazioni internazionali, a un periodo di allentamento o sospensione delle tensioni tra due o più stati. In ambito storiografico l’espressione è usata per riferirsi a una fase ben precisa della Guerra Fredda, corrispondente grossomodo agli anni tra il 1968 e il 1979, contraddistinta dal progressivo intensificarsi dell’attività diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e dalla volontà comune a cercare soluzioni a temi di importanza globale.
Figure cardini, sono il presidente americano Richard Nixon e soprattutto Henry Kissinger, prima nel ruolo di consigliere per la sicurezza, poi di segretario di stato ridisegnerà la politica estera americana. Nella visione di Kissinger, la distensione, piuttosto che un segno di superamento definitivo del confronto bipolare, doveva essere un modo per fissarne le “regole del gioco”, limitandone quindi i rischi.
Nel medio e lungo periodo, quindi, sarebbe stata proprio la potenza americana a trarne maggiori vantaggi, attraverso un venir meno delle ambizioni egemoniche sovietiche e un consolidamento degli interessi di Washington in tutto il mondo.
I tardi anni ‘60: tra crisi e cambiamento
Per comprendere meglio le dinamiche della distensione occorre partire dal contesto storico degli anni ‘60, segnato dal sopraggiungere di importanti mutamenti geopolitici. Lo spegnersi della crisi dei missili di Cuba, nell’ottobre del 1962, sancisce la conclusione della sua fase più turbolenta, ciononostante, la rivalità tra il blocco liberaldemocratico quello socialista continua ad occupare la scena mondiale, attraverso la competizione scientifica e tecnologica sia nel campo dello sviluppo di armi nucleari sempre più distruttive che puntano agli ambiziosi progetti della “corsa allo spazio”.
Rigidità ideologica e schemi interpretativi obsoleti rendono inevitabile la prosecuzione della contrapposizione, precludendo i pochi e timidi tentativi di dialogo tra le parti, fino a quando, le condizioni storiche di fine decennio non impongono un necessario cambio di rotta. Gli sviluppi della guerra in Vietnam sono uno dei fattori che più di tutti contribuiscono a trasformare l’atteggiamento delle due superpotenze, in particolare l’approccio della politica estera americana nei confronti dell’avversario sovietico e del comunismo più in generale.
Il sempre più dispendioso impegno americano in Indocina non è in grado di piegare la tenacia dei guerriglieri comunisti (cd. Vietcong), né a rendere più disponibili al compromesso il governo nordvietnamita, supportato militarmente dall’Unione Sovietica.
Al contrario, le fallimentari imprese militari mettono a nudo i limiti della teoria del domino, dottrina geopolitica egemone negli apparati di sicurezza statunitensi, secondo la quale il crollo del Vietnam del Sud avrebbe innescato una reazione a catena che avrebbe permesso alle forze comuniste di espandersi in tutto il sud-est asiatico.
I costi umani ed economici, gli insuccessi bellici, nonché la circolazione di notizie sulle atrocità commesse da statunitensi e alleati, lacerano profondamente la società civile americana, già segnata dai drammatici effetti della Crisi del Dollaro. I problemi, tuttavia, non mancano nemmeno nelle viscere del mondo comunista, dove l’apparente allineamento tra il Cremlino e governi satelliti è sempre più fiaccata da dissidi e malcontenti.
L’avvenimento di più ampia portata avviene in Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, quando un intervento militare del Patto di Varsavia pone brutalmente fine alla cosiddetta Primavera di Praga, infrangendo il percorso di rinnovamento inaugurato da Alexander Dubcek. Gli avvenimenti di Praga oltre a concorrere all’allontanamento da Mosca delle sinistre occidentali, sono i sintomi evidenti del malessere crescente all’interno dei regimi dell’est e dell’incapacità dei governi socialisti di garantire il benessere della popolazione.
Soffocando qualsiasi deviazione dai dogmi del socialismo reale, il segretario sovietico Leonid Breznev contribuisce ad ostacolare la realizzazione di un valido programma di riforme economiche e sociali per evitare il graduale declino economico e sociale dell’Unione Sovietica. Il più importante mutamento all’interno del blocco socialista è comunque il crescente deterioramento nei rapporti tra Mosca e Pechino, un processo iniziato a metà anni ‘50, con la morte di Iosif Stalin e proseguito dopo la destituzione di Nikita Kruscev.
L’esistenza stessa della Cina di Mao Zedong è una costante sfida per la leadership sovietica ma i dissidi, motivati da divergenze ideologiche, faccende economiche e dispute territoriali, andranno incontro a un rapido peggioramento nel corso degli anni ‘60, giungendo a una completa rottura in occasione dello scontro militare sul fiume Ussuri del 1969.
In Europa occidentale il cambiamento più significativo nel decennio avvenne nella Germania dell’Ovest, ed ebbe come protagonista Willy Brandt, primo socialdemocratico ad essere eletto cancelliere. Brandt imprime una svolta epocale della politica estera tedesca, avviando la cosiddetta Ostpolitik (politica orientale), contraddistinta da una riapertura del dialogo con la controparte orientale, con lo scopo di una normalizzazione dei rapporti con l’Unione Sovietica e tutto il mondo comunista.
La Ostpolitik rappresenta un totale capovolgimento dell’approccio intransigente al comunismo adottato nel ventennio precedente da Bonn, cui paradigma fondamentale è la rottura dei rapporti con gli stati che riconoscono il governo di Berlino Est (Dottrina Hallstein).
Sia nella Comunità Europea che negli Stati Uniti le iniziative tedesche vengono accolte con generale apprensione, tuttavia, timori di un possibile indebolimento dell’Alleanza Atlantica e lo spauracchio della rinascita imperiale tedesca sono presto superati quando divenne chiara l’utilità delle iniziative di Brandt al processo di distensione.
Nixon, Kissinger e la diplomazia triangolare
La consapevolezza che solo un radicale cambio di rotta avrebbe consentito agli Stati Uniti di rinnovarsi e fronteggiare le sfide del decennio è alla base della nuova strategia politica inaugurata dal presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon che succede a Lyndon Johnson nel 1969.
Nixon e il suo segretario di stato Kissinger vengono ricordati prevalentemente per la spregiudicatezza con cui fronteggiano vicende interne e internazionali, e per aver delineato una concezione dell’ordine mondiale imperniato sull’equilibrio di potenza (balance of power), piuttosto che sul contenimento dell’avversario.
Il presidente repubblicano esterna la sua visione politica, durante un discorso sull’isola di Guam, nel dicembre del 1969, soffermandosi principalmente sulla crisi vietnamita: <<Gli Stati Uniti>>, disse, << dovrebbero non più essere i poliziotti del mondo, ma assumere un atteggiamento di basso profilo (low profile), e gli alleati asiatici dovrebbero assumersi le proprie responsabilità nel campo della difesa, senza chiedere la protezione americana>> (1).
La conclusione di Nixon sostiene l’idea che la “sovraesposizione” militare, caratterizzata da sempre più eccessive e ingiustificate misure di contenimento della minaccia comunista, sia la principale causa della crisi economica e morale che opprime gli Stati Uniti. Il primo obiettivo concreto della nuova amministrazione è permettere alle forze armate militari a liberarsi dal pantano vietnamita; il graduale disimpegno americano in Indocina è reso possibile solo dopo lunghe e difficoltose trattative durante le quali non si fermano le azioni di guerriglia e i massicci bombardamenti statunitensi.
Solo nel 1973, a Parigi, verrà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e quindi la completa “vietnamizzazione” della guerra. Nella stessa occasione, le parti si impegnano a concorrere alla riconciliazione tra il governo del sud e quello del nord, purtroppo questo obiettivo fallirà per mancanza di volontà da parte di entrambi e gli scontri andranno avanti sino alla caduta di Saigon nel 1975.
Il presidente repubblicano, pur nella consapevolezza della fragilità del governo sudvietnamita, preferisce liberarsi del fardello della guerra, innanzitutto per la consapevolezza che una possibile sconfitta dell’alleato non avrebbe comportato il tanto temuto “effetto domino”, in secondo luogo per concentrare l’azione diplomatica verso altri fronti, a partire dalla crisi sino-sovietica.
La frattura tra i due giganti comunisti è oggetto di particolare interesse per Kissinger, conscio delle opportunità che questa avrebbe potuto offrire a favore di un rinnovamento strategico americano, incentrato sullo sviluppo di una diplomazia triangolare. A riguardo della crescente rivalità tra le due potenze comuniste Kissinger afferma: “ci troviamo nella paradossale situazione per cui ciascuno dei due può considerare l’altro come un nemico peggiore degli Stati Uniti”. (2)
I primi segnali favorevoli a una riconciliazione sino-americana arrivano a fine decennio, quando Mao Zedong, preoccupato per gli effetti di un prolungato isolamento, inizia ad ammorbidire i toni nei confronti della Casa Bianca, palesando la volontà di riaprire un dialogo. Nixon coglie la palla al balzo, rendendosi pienamente disponibile alla riattivazione dei canali diplomatici tra Washington e Pechino.
Dopo una serie di incontri segreti organizzati da Kissinger, nel 1972 Nixon incontra Mao in Cina, decretando così l’inizio del percorso, che, in pochi anni, avrebbe portato alla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi. Per Kissinger la riconciliazione con la Cina Popolare (dopo la brusca interruzione dei contatti nel 1953, a seguito della guerra di Corea) è un modo per esercitare pressione nei confronti di Mosca, che, sentendosi minacciata, sarebbe stata più disponibile al dialogo; la distensione con l’Unione Sovietica rimane, infatti, il principale obiettivo della diplomazia triangolare.
Verso la distensione: i colloqui sugli armamenti strategici
Una delle questioni centrali che le due superpotenze devono affrontare nell’ambito della distensione è quella relativa all’armamentario bellico, in particolare quello atomico. I primi negoziati in materia di armi nucleari sono conclusi già durante le amministrazioni Kennedy e Johnson, in occasione delle quali Stati Uniti e Unione Sovietica sottoscrivono il Trattato sulla Messa al Bando parziale degli esperimenti nucleari in atmosfera (1963) e il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (1968).
Questi accordi, tuttavia, non affrontano uno dei problemi più sentiti da ambo le parti, quello del controllo sugli armamenti strategici, fondamentale, quanto rischioso strumento di deterrenza. Un compromesso sulla produzione di questo genere di armi avrebbe apportato numerosi benefici ad ambo le parti, primo su tutti la possibilità di ridurre le risorse a favore del complesso militare-industriale per destinare il loro utilizzo ad altri settori economici.
I colloqui per la limitazione delle armi strategiche SALT (Strategic Arms Limitation Talks) iniziano nel 1967, su proposta di Lyndon Johnson ma, il loro buon andamento viene ostacolato da un clima di reciproca sfiducia, e tensioni internazionali. Le trattative subiscono un’accelerazione solo dopo l’elezione di Nixon, diventando uno dei capisaldi del processo di distensione promosso da Kissinger; i punti fondamentali affrontati durante i colloqui riguardano principalmente i missili balistici intercontinentali a lunga gittata (ICBM) e i sistemi antimissilistici (ABM).
Con gli accordi SALT I, siglati nel maggio del 1972 a Mosca, Stati Uniti e Unione Sovietica non risolvono definitivamente il problema del numero di testate, limitandosi a un “congelamento” della situazione esistente ma si mostrano comunque soddisfatti del risultato ottenuto; ai sovietici viene assicurato un numero superiore di vettori (1618 contro 1054) e di missili per sottomarini (740 contro 656), mentre gli americani ottengono il riconoscimento della superiorità nel campo dei missili a testata multipla (rapporto 3 a 1) e dei bombardieri strategici (445 contro 140).
La questione della difesa antimissilistica è risolta stabilendo che i due paesi avrebbero potuto installare due sistemi antimissilistici a testa, uno a difesa della propria capitale, l’altro nei pressi della base militare più importante. In aggiunta, il negoziato viene arricchito dalla sottoscrizione di una serie di protocolli per la cooperazione economica e scientifica, un primo passo per permettere all’Unione Sovietica di rifornirsi di cereali e materie prime dagli Stati Uniti.
I colloqui SALT I tratteggiano l’avvio della fase più fruttuosa della distensione, marcata da un clima amichevole e dalla cessazione di comportamenti ostili. In questo contesto di aperta collaborazione si svolgono le visite di Breznev negli Usa nel 1973 e di Nixon in Urss nel 1974 che sono l’occasione per procedere alla firma di altri accordi di natura commerciale.
Il dialogo tra i due blocchi consente un più rapido superamento di crisi internazionali che, in altri periodi della Guerra Fredda, avrebbero potuto avere conseguenze imprevedibili. Da questo punto di vista, la vicenda della Guerra dello Yom Kippur tra Israele ed Egitto è emblematica: la risoluzione del conflitto del 1973, oltre alle capacità diplomatiche di Kissinger è infatti conseguenza della solidità delle relazioni tra i due blocchi che mantengono un canale di comunicazione durante tutta la durata della crisi.
Le dimissioni di Richard Nixon, a seguito dello scandalo Watergate, non compromettono la cooperazione tra i due poli, la quale viene anzi rilanciata dal successore Gerald Ford, il quale, durante il vertice di Vladivostok del 1974 annuncia la volontà di riaprire i negoziati sulle armi nucleari strategiche. Gli incontri ribattezzati SALT li avrebbero, nelle intenzioni di Ford, dovuto affrontare il nodo della parità dei vettori e della percentuale di essi da destinare ai missili a testata multipla e si sarebbero conclusi con la firma di un secondo trattato.
La questione della sicurezza europea: da Berlino a Helsinki
Conclusosi, almeno temporaneamente, il dialogo inerente gli armamenti strategici, l’obiettivo centrale delle rispettive diplomazie diviene quello di definire le regole di convivenza sull’Europa, che è stato per oltre un ventennio, il principale terreno di confronto e scontro della guerra Fredda.
Una delle principali cause di attrito, quella della divisione di Berlino e delle due Germanie è affrontata nel settembre del 1971; nell’occasione le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Regno Unito) firmano l’Accordo Quadripartito, un trattato che ribadisce la validità delle intese raggiunte durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il vertice, pur avendo portata limitata per una mancata intesa dello status della capitale tedesca, delinea la volontà condivisa di trovare un accordo duraturo sul futuro dell’Europa. Riaprire il dialogo sull’Europa diviene un obiettivo fondamentale nell’agenda politica americana, soprattutto per l’urgenza di dare una risposta alla Ostpolitik di Willy Brandt.
Nella concezione geopolitica di Kissinger la stabilità dei due blocchi deve essere garantita da una gestione “centralizzata” del dialogo bipolare. Da questo punto di vista le iniziative del cancelliere di Bonn non sono ben accolte a Washington che, ad ogni modo, non ritiene sia nei suoi interessi contrastare apertamente l’alleato puntando invece a rendere la Ostpolitik una delle pietre angolari della distensione a guida americana.
L’occasione per affrontare le numerose tematiche inerenti il Vecchio Continente è offerta dall’apertura dei lavori per la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, tenutasi a Helsinki nell’estate del 1975. Il vertice, a cui partecipano tutti gli stati europei (ad eccezione di Albania e Andorra), Canada, Stati Uniti e Unione Sovietica, termina con la sottoscrizione dell’Atto Finale di Helsinki, un documento diviso in quattro sezioni, conosciute anche come cesti.
Il primo cesto comprende l’impegno al rispetto della sovranità territoriale e a risolvere le controversie internazionali senza l’uso della forza; il secondo tratta della cooperazione in ambito economico, scientifico e tecnologico; il terzo, fortemente voluto dagli europei, è quello relativo al rispetto dei diritti umani; infine, l’ultimo cesto comprende le procedure per monitorare il corretto rispetto dei principi.
Con gli Accordi di Helsinki le due superpotenze, esprimono la chiara volontà di mantenere lo status quo in Europa, evitando reciproche interferenze e preservando i loro interessi geopolitici; apparentemente, quindi, a uscire rafforzata dai colloqui è, prima di tutto l’Unione Sovietica, il cui dominio politico e culturale sulla parte orientale del continente non è più messa in discussione dal principale avversario ideologico; ma sia sovietici che americani ignorano che, nel medio e lungo termine, Helsinki, avrebbe contribuito a minare le fondamenta dei regimi dell’est.
L’intensificarsi dei flussi commerciali e finanziari, i contatti culturali e la circolazione delle idee mettono in luce, agli occhi dei cittadini del Patto di Varsavia, l’abissale divario tra il loro standard di vita e quello degli occidentali, erodendo così la già scarsa fede verso l’economia pianificata.
Inoltre, nel periodo immediatamente successivo alla firma della dichiarazione, assumerà sempre maggior rilevanza la questione del rispetto dei diritti umani; i principi enunciati nel “terzo cesto” ispireranno infatti la proliferazione di movimenti critici verso il modello socialista come Charta 77 in Cecoslovacchia, il Comitato di Difesa Operaia in Polonia e il Gruppo di Monitoraggio degli Accordi di Helsinki in Unione Sovietica.
La fine della distensione USA-URSS
Dopo Helsinki le obiezioni rivolte alla politica di distensione divengono sempre più forti, sia in seno al Partito Repubblicano che tra gli esponenti dell’opposizione democratica. Le accuse, rivolte in particolar modo a Kissinger vertono sul fatto di aver sacrificato la libertà dei popoli europei e di aver favorito le ambizioni egemoniche sovietiche, lasciando al nemico la possibilità di espandere la propria influenza anche in Occidente.
La tesi dei critici è corroborata dal ritrovato dinamismo militare e politico di Mosca, che a partire dal 1974 ha ripreso a esportare il modello comunista in Africa, approfittando del vuoto politico venutosi a creare dopo la disgregazione dell’impero coloniale portoghese. Il supporto alle formazioni armate rivoluzionarie dell’Angola e del Mozambico, convincono buona parte della classe politica americana che la distensione è solo una maschera e che il Cremlino non ha mai abbandonato la sua natura di baluardo del sistema anticapitalista.
Sulla base di queste interpretazioni allarmistiche viene fondato il Committee on Present Danger, un organo che riunisce le voci sfavorevoli al “disegno kissingeriano”, promuovendo un ritorno a obiettivi di contenimento dell’espansionismo sovietico. In questa atmosfera di ferventi manifestazioni anti comuniste si vengono a consolidare le fondamenta del movimento neoconservatore americano, il quale guadagnerà ampi consensi, diventando la principale voce critica della distensione per poi acquisire maggior influenza a partire dalla presidenza di di Ronald Reagan.
La frattura interna al Partito Repubblicano, consentirà al leader della fazione democratica, Jimmy Carter di vincere le elezioni del 1976. La nuova amministrazione presenta due anime, la prima, incarnata dal Segretario di Stato Cyrus Vance, favorevole al prosieguo della distensione, l’altra, orientata a una maggior aggressività verso il blocco sovietico è rappresentata dal consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski.
Questo dualismo riflette come i colloqui, a partire dall’insediamento di Carter, siano conditi da molteplici appelli al rispetto dei diritti umani, cosa che suscitò lo sdegno e l’irritazione della nomenklatura comunista. (3) Il progressivo irrigidimento delle posizioni ha come conseguenza il venir meno dell’atmosfera cordiale che ha accompagnato fino a quel momento il dialogo bipolare.
I rapporti, già compromessi da una crescente ostilità, peggiorano ulteriormente nel 1977, quando inizia a circolare la notizia dell’ammodernamento, da parte sovietica, delle forze balistiche a gittata intermedia, quindi la sostituzione dei vecchi vettori con i nuovi SS-20. La NATO, incalzata dalle voci preoccupate dei governi europei, risponde con l’installazione di 108 missili Pershing e 464 Cruise nel territorio del Vecchio Continente, innescando quella che sarà ricordata come crisi degli euromissili.
Come conseguenza alle “provocazioni” sovietiche, il trattato SALT II, firmato nel giugno del 1979 a Vienna da Carter e Breznev, non verrà ritirato dal presidente americano, quindi mai ratificato dal Senato degli Stati Uniti. Il definitivo tramonto della distensione viene sancito dalla decisione dell’Unione Sovietica di avviare un intervento armato in Afghanistan nel 1979, a supporto del regime socialista di Kabul, impegnato a fronteggiare le feroci ribellioni che si diffondevano in tutto il paese.
Alla dura condanna della Casa Bianca segue un nuovo periodo di tensioni crescenti, la cui intensità è tale da parlare di Seconda Guerra Fredda. Il primo limite della distensione, sta nel diverso modo con cui questa è percepita dalle due superpotenze.
Il Cremlino da ai negoziati un connotato prettamente ideologico: la disponibilità americana al compromesso viene interpretata come un segno di debolezza, di conseguenza maturano l’idea che la distensione avrebbe aperto la strada alla tanto sperata rivoluzione socialista; non sorprende, quindi pensare alla ripresa delle iniziative di Mosca nel Terzo Mondo con lo scopo di accelerare la crisi del sistema capitalista, di cui gli Stati Uniti erano ritenuti i maggiori rappresentanti.
Questa ritrovata “vitalità” entra in contrasto con la visione di Nixon e Kissinger, i quali ritengono che il dialogo sia la strada migliore per circoscrivere le ambizioni di Mosca, rinvigorendo, al contempo, l’ala della politica americana più severa nei confronti del regime sovietico. L’amministrazione repubblicana, inoltre, non tenendo conto della crescente sensibilità dell’opinione pubblica occidentale alla questione dei diritti umani, perde il sostegno di coloro che dopo la firma degli Accordi di Helsinki chiedono una risposta forte alle violazioni da parte sovietica dei principi della Carta.
NOTE:
1: Di Nolfo, Il mondo atlantico e la globalizzazione. Europa e Stati Uniti: storia, economia e politica, Milano, Mondadori, 2014 pp.41-42.
2: ivi p.61.
3: F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Giulio Einaudi editore, Torino, 2014, p. 315.
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- Di Nolfo, Il mondo atlantico e la globalizzazione. Europa e Stati Uniti: storia, economia e politica, Mondadori, Milano, 2014.
- Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Giulio Einaudi editore, Torino, 2014.
- Mario Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006.