CONTENUTO
Sebbene spesso con il termine “guerra in Vietnam” ci si riferisca al solo intervento militare degli statunitensi (1964-1975) il conflitto nella regione dell’Indocina[1] non è limitato a quei soli 11 anni, ma si sviluppa già durante gli anni ’40 mentre in Europa esplode la Seconda guerra mondiale. La dominazione francese sulla colonia indocinese, che durava fin dalla fine dell’ottocento, ha un inevitabile crollo a partire dall’estate del 1940, quando i tedeschi entrano a Parigi e il Giappone approfitta della situazione per occupare militarmente il Vietnam.
I soldati del Sol levante si presentano inizialmente come liberatori, ma mettono in atto saccheggi e violenze alla popolazione pari a quelle subite negli anni precedenti. Il regime fantoccio francese, il cui principale esponente è Bao Dai ovvero l’ultimo imperatore del Vietnam, collabora con i giapponesi, mentre nel contempo si sviluppa nel paese una Lega per l’indipendenza del Vietnam abbreviata in viet minh il cui fondatore è Ho Chi-Minh, al secolo Nguyen Sinh Cung.
I viet minh e lo scoppio della guerra d’Indocina
L’organizzazione politico militare di ispirazione leninista nasce come movimento di resistenza al colonialismo francese e all’occupazione giapponese. L’impronta nazionalista dei viet minh piace anche agli Stati Uniti che durante il conflitto mondiale finanziano e armano la Lega con lo scopo di tenere sotto costante attacco i giapponesi. Nella realtà dei fatti molte delle armi ricevute da Washington sono conservate in magazzino e risparmiate per l’eventuale ritorno dei francesi ipotesi molto più preoccupante per Ho Chi Minh.
Al termine della guerra nel 1945 i viet minh sono nella condizione di approfittare del vuoto politico lasciato dai giapponesi e ambiscono a sostituirsi ai francesi. A Parigi il Generale Charles De Gaulle è fortemente contrario all’indipendenza vietnamita e invade il sud del paese con l’appoggio di cinesi e britannici. I tentativi di negoziati tra le parti falliscono per volere dello stesso generale francese Leclerc che diede per già vinto il conflitto e accusò il leader dei vietminh di essere un nemico della Francia.
Nel marzo del ’46 il bombardamento francese di Haiphong provoca la morte di oltre 6000 vietnamiti e sancisce lo scoppio la cosiddetta guerra d’Indocina. Fin da subito il generale transalpino dichiara di essere riuscito a prevalere nel meridione del paese, ma nella realtà l’esercito francese controlla la sola città di Saigon e i viet minh tornano regolarmente in ogni villaggio che i francesi abbandonano.
La guerra nel Vietnam è sicuramente il conflitto simbolo del secondo Novecento e racchiude al suo interno tutti gli elementi dei due due grandi processi in atto in quel periodo: la decolonizzazione e la guerra fredda. Se il conflitto franco-vietnamita ha tutti gli elementi di una guerra coloniale, il successivo e crescente interesse americano per la situazione indocinese può essere perfettamente spiegato all’interno delle dinamiche della guerra fredda.
La politica statunitense che nella prima fase del conflitto ha tenuto un atteggiamento neutrale rispetto al conflitto vietnamita, ma sostanzialmente a favore degli interessi della Francia, cambia posizione nel corso degli anni ’50. Il conflitto inizialmente considerato come uno scontro tra una potenza coloniale e un movimento nazional-comunista di liberazione, diventa con il tempo un elemento componente della guerra fredda. I francesi non si battono più per difendere i propri possedimenti coloniali, ma per respingere il comunismo che dilaga nel sud-est asiatico.
Il Dipartimento di Stato americano, impressionato dalla presa del potere di Mao in Cina e dalla guerra in Corea, esplosa nei primi anni ’50, decide di appoggiare con ancora maggiore impegno la guerra francese in Indocina. Nei quattro anni successivi affluirono in Vietnam da Washington armi, macchinari e assistenza per un valore complessivo di 2,76 miliardi di dollari.
L’aiuto americano è di fondamentale importanza per Parigi che in Indocina, solo nel 1949, spende 167 milioni di franchi, tuttavia non è sufficiente ad imprimere una svolta al conflitto e i viet minh continuano a controllare quasi i due terzi del paese.
La sconfitta di Dien Bien Phu e la Conferenza di Ginevra
All’inizio del 1953 viene eletto alla Casa Bianca Dwight Eisenhower il quale si mostra critico verso il suo predecessore soprattutto per quanto riguarda la gestione del conflitto indocinese. Il nuovo presidente chiede ai francesi una conduzione più energica del conflitto e sul piano diplomatico il governo americano vorrebbe che Parigi si esponesse nel riconoscere la futura indipendenza del Vietnam.
La reazione francese alle pressioni statunitense è di parziale opposizione, sebbene sul campo di battaglia si opti per un cambio di tattica. Il comandante in capo dell’esercito francese in Vietnam Henri Navarre decide di attirare in un conflitto aperto i viet minh concentrando una grande quantità di truppe nella valle intorno al villaggio di Dien Bien Phu, caposaldo dell’esercito vietnamita.
La strategia si rivela però fallimentare fin dall’inizio poiché il generale Giap mette in atto un ardito piano logistico per trasportare lungo i sentieri montuosi intorno alla valle armi, rifornimenti e artiglieria pesante. Gli oltre 12 000 soldati francesi vengono in breve tempo accerchiati ed isolati ed il 7 maggio 1954 si arrendono dopo oltre 55 giorni di assedio e bombardamento ininterrotto dell’artiglieria vietnamita.
Pochi giorni dopo la disfatta di Dien Bien Phu a Ginevra si incontrano i Ministri degli Esteri delle 4 grandi potenze uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale. Alla conferenza per la prima volta partecipa anche una delegazione del governo comunista cinese e, essendo la guerra in Indocina il maggiore degli argomenti sul tavolo, partecipa anche il Vietnam che è però rappresentato da due delegazioni: una del governo di Bao Dai ed una dei viet minh.
La conferenza, che durerà oltre due mesi, vede i viet minh, indiscussi vincitori del conflitto, costretti a fare numerose concessioni soprattutto per le insistenze da parte della Cina il cui primo e fondamentale obiettivo è quello di evitare che gli Stati Uniti si impegnino in prima persona nel conflitto.
L’armistizio tra Francia e Repubblica Popolare del Vietnam è firmato il 20 luglio del 1954 e sancisce la divisione del paese in due parti: a nord del 17° parallelo la Repubblica governata dai Viet-minh, a sud un regime sostenuto e finanziato in primis proprio dagli Stati Uniti. Ho-chi Minh sotto la pressione di Cina e Unione Sovietica accetta di ritirarsi dal Laos che, insieme alla Cambogia, diviene stato indipendente.
Gli Stati Uniti inoltre subentrano alla Francia come garanti della sicurezza di questi paesi e del Vietnam del Sud. Si tratta di un cambio di notevole importanza nella politica estera americana che in precedenza si era invece sempre rifiutata di impegnarsi direttamente in Indocina.
Sebbene la conferenza di Ginevra avesse stabilito che i due nuovi paesi avrebbero organizzato libere elezioni entro due anni per riunirsi in un unico stato la divisione entro il 17° parallelo si cristallizzò ben presto e gli Stati Uniti, sostenitori politici ed economici del Vietnam del Sud, trovarono modo per organizzare delle elezioni-truffa, valide solo per Saigon.
La ragione di ciò è che secondo tutti gli osservatori, vietnamiti e americani, il candidato scelto dagli americani, Ngo Dinh Diem, cattolico, anticomunista e anti colonialista, non avrebbe avuto nessuna possibilità di essere eletto se a votare fosse stato l’intero paese. Le elezioni vedono Diem raccogliere oltre il 98,5 % dei voti, ma sulla regolarità del voto ci sono molti dubbi: nella capitale, ad esempio, dove gli elettori registrati sono 405.000 il candidato raccoglie 605.000 voti.
Il regime di Ngo Dinh Diem
Il nuovo presidente si dimostra fin da subito il più grande problema per lo sviluppo del nuovo paese: in molti ambiti del governo Diem impone delle scelte con la sola intenzione di preservare il suo esclusivo potere. In campo militare, per esempio, l’esercito nazionale sudvietnamita (ARVN[1]), in gran parte finanziato ed addestrato dagli Stati Uniti, diviene ben presto lo strumento con cui il presidente tende a conservare il proprio potere.
Il principio alla base è piuttosto semplice: il detentore del potere non dipende dall’approvazione del popolo, ma è quest’ultimo a dovergli ubbidienza. Concetto che lo stesso Diem spiega con queste parole: “Un sacro rispetto è dovuto alla persona del sovrano, egli è il tramite fra il popolo e il Cielo poiché celebra i riti nazionali”[2]. La facciata democratica, costituita da elezioni libere e segrete e poteri limitati da parlamento e magistratura, nasconde in realtà una struttura di governo autocratica e strettamente familiare.
Il primo governo Diem conta come ministri tre parenti del presidente, il fratello minore diviene ambasciatore in Gran Bretagna e al fratello maggiore Arcivescovo viene dato il compito di provvedere al benessere spirituale dei cattolici, principali sostenitori del presidente.
Diem, scelto da Washington per la sua vena anticomunista, si impegna per distruggere i resti del Partito comunista nel meridione e per fare ciò fa arrestare e chiudere in campi di concentramento migliaia di persone. Sono colpiti non solo i nemici politici, ma chiunque possa “risultare pericoloso per lo stato” e negli anni successivi sono istituiti anche i famigerati tribunali militari con il compito di incarcerare a tempo indeterminato o eliminare fisicamente ogni avversario politico. Soltanto tra il 1955 e il 1957 sarebbero state eseguite 12.000 condanne a morte[3].
In campo economico, anche su pressione statunitense, il neo presidente avvia una riforma agraria che restituisce i terreni espropriati dai viet minh ai vecchi proprietari ad esclusione dei francesi. La riforma prevede però che i contadini oltre a restituire la terra debbano pagare un indennizzo per le perdite subite e solo il 10% di questi dispone del denaro necessario. Ciò porta nelle mani dello stato oltre 650.000 ettari di terreno di cui solo meno della metà è poi effettivamente redistribuito.
Queste ed altre decisioni, tra cui l’eliminazione degli organi di auto amministrazione dei villaggi, vanno ad aumentare l’impopolarità del governo Diem soprattutto nelle zone rurali e tra i contadini che vedono ancora in Ho Chi Minh colui che ha liberato il paese dalla dominazione coloniale.
Neanche le brutali persecuzioni dei comunisti e di ogni avversario politico, compresi i viet minh restati nel sud del paese, riescono a reprimere il dissenso crescente che ben presto si trasforma in resistenza armata al regime.
Non sono nè i superstiti del Partito comunista ancora attivo nel sud del paese, nè il governo di Hanoi, capitale della repubblica dei viet minh, i responsabili dello scoppio della guerra civile, ma è lo stesso Diem con le sue politiche reazionarie, personalistiche ed economicamente inefficaci ad aver innestato il processo.
La lotta armata e il Fronte di Liberazione Nazionale
A partire dal 1956 il movimento di resistenza diviene sempre più consistente e gli attentati terroristici contro i rappresentanti del governo di Saigon divengono sempre più frequenti. In campo militare le principali fonti di armi per i vietcong[4], almeno fino al 1960, sono le requisizioni alle forze governative. In quegli anni risultano essere 23.000 le armi funzionanti in mano ai guerriglieri.
Una prima svolta nel conflitto e nella successiva escalation di violenza avviene nei primi anni ’60 quando Hanoi decide di cambiare strategia autorizzando la lotta armata e lasciando partire verso il meridione oltre 4500 guerriglieri comunisti. Nello stesso anno scoppiano i primi veri e propri scontri armati tra guerriglieri e ARVN e la resistenza si organizza anche a livello politico.
Nel marzo del 1960 viene approvato e firmato un appello per la resistenza armata e la formazione di un governo di coalizione tra tutti i partiti e raggruppamenti attivi nel meridione. Alla fine dello stesso anno nasce il Fronte di liberazione nazionale del Vietnam (Fln) composto da gruppi politico-religiosi, oppositori borghesi, intellettuali e addirittura alcuni cattolici, sebbene al suo interno i membri comunisti esercitino una influenza determinante. Tra questi colui che ben presto prende il comando delle operazioni militari nel sud del paese è Le Duan considerato il n. 2 del partito comunista dietro solo ad Ho Chi minh.
La guerra in Vietnam: da Eisenhower a Kennedy
Negli Stati Uniti durante gli anni ’50 la situazione vietnamita ha poco spazio nel dibattito pubblico e il governo di Eisenhower si lascia convincere dalle valutazioni ottimistiche riguardo la tenuta del governo Diem. In particolare il Generale Williams è convinto che l’attuale presidente sia l’unica alternativa al caos che, invece, favorirebbe i comunisti. Parere discordante e decisamente più pessimista è invece quello dell’ambasciata americana a Saigon che registra la crescente insoddisfazione del popolo verso il governo e una preoccupante degenerazione in uno stato di polizia.
Washington decide di anteporre la sicurezza militare del paese alle necessarie riforme politiche democratiche e tale strategia si mostra insoddisfacente all’inizio degli anni ’60, quando in Vietnam esplode la guerra civile e, come notato dallo storico David L. Anderson, il paese diventa “una bomba ad orologeria”[5].
Ogni uomo o donna vietnamita ha sufficienti motivi per abbandonare la propria vita e darsi alla clandestinità per combattere il regime a fianco del Fronte di liberazione. Solo nei primi anni ’60 sono in migliaia ad aderire al Fln e secondo le valutazioni della CIA già nel 1962 l’organizzazione può contare su oltre 23.000 persone[6].
Nel gennaio del 1961 John Fitzgerald Kennedy diventa presidente degli Stati Uniti e ciò comporta un cambio generazionale nei principali posti di potere a Washington. Giovane, dinamica e ottimista la nuova amministrazione fa propri molti degli obbiettivi politici della precedente amministrazione, ma si concentra in modo particolare sulla politica estera controllata direttamente dal presidente. Il Vietnam del Sud diventa il metro della “credibilità” statunitense nel mondo e questa diventa rapidamente la principale motivazione per cui gli Stati Uniti sono impegnati nel paese indocinese.
“Qualunque cosa accada gli Stati Uniti intendono vincere questa battaglia”[7] diventa ben presto la linea guida della politica estera americana e in questo senso l’amministrazione Kennedy riduce a due le possibili scelte: stabilizzare il regime di Diem intensificando gli aiuti militari ed economici oppure inviare truppe americane in Vietnam. L’opzione scelta nei primi mesi del 1961 è la prima e si concretizza in un massiccio programma di armamento e addestramento dell’ARVN e in un aumento degli aiuti economici per Saigon.
Entrambe gli sforzi però non si rivelano sufficienti per risollevare il governo sud vietnamita che è alle prese con difficoltà sottovalutate anche dalla CIA e dalla presidenza americana. Lo stesso presidente-dittatore nell’autunno del ’61 ammette di non controllare più la situazione e chiede esplicitamente l’intervento militare americano nel paese.
Kennedy si rifiuta di inviare truppe americane in Vietnam e spiega la scelta con una metafora: “é come quando si beve un drink, per un po’ se ne avverte l’effetto, ma poi occorre berne un altro”[8]. Il presidente decide invece di accrescere il contingente di consiglieri militari a Saigon con l’obbiettivo di addestrare e preparare l’esercito sudvietnamita.
La battaglia per il controllo del villaggio di Ap Bac del 2 gennaio 1963 rappresenta il banco di prova per valutare i miglioramenti dell’ARVN. I soldati sudvietnamiti non eseguono gli ordini in maniera coordinata, i generali rifiutano gli ordini o li eseguono poi con colpevole ritardo. L’esito è disastroso. Pur disponendo di forze otto volte maggiori l’ARVN non riesce a sconfiggere i guerriglieri e subisce notevoli perdite e conta un numero ancora maggiore di feriti (sono sessanta i morti e il doppio i feriti). Sulla sconfitta di Ap Bac il giornalista americano A. Krock scrive il 9 gennaio successivo: “Per quanta assistenza giunga dagli Stati Uniti, essa non basta a mantenere l’indipendenza di un popolo che non è disposto a morire per essa”.[9]
L’assassinio dei due Presidenti
Durante lo stesso anno i rapporti tra Washington e Saigon vanno costantemente peggiorando e Kennedy rimprovera a Diem di aver completamente perso ogni contatto con la popolazione. Nell’ottobre dello stesso anno i generali dell’ARVN prospettano all’amministrazione americana la possibilità di destituire il presidente con un colpo di stato e Washington, profondamente divisa nelle valutazioni e spaventata dalla possibilità che Diem prenda accordi privatamente con i ribelli, non fornisce risposta univoca, ma da la netta sensazione di voler lasciare mano libera ai generali.
Il 1° novembre il palazzo presidenziale sud vietnamita è accerchiato dai soldati e, sebbene Diem si renda infine disponibile anche ad avviare le tanto necessarie riforme, il giorno successivo viene catturato e ucciso insieme al fratello Nhu. Sull’assassinio dei due fratelli lo stesso segretario alla Difesa americano Robert Mcnamara, all’interno dei documenti denominati in seguito Pentagon Papers, scrive: “Per il golpe contro Ngo Dinh Diem gli USA si devono assumere tutta la loro parte di responsabilità”[10]
Nessuno avrebbe potuto immaginare che lo stesso destino sarebbe capitato anche al presidente americano soli 20 giorni dopo i fratelli Diem. L’assassinio di Kennedy a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 è secondo alcune ipotesi strettamente collegato al conflitto in Vietnam e alla presunta intenzione del presidente ritirare le poche truppe già presenti nel paese ( in gran parte consiglieri e tecnici militari).
Alla Casa Bianca arriva il suo vice Lindon B. Johnson, il quale, promette fin da subito continuità politica con il suo predecessore. Se in politica interna ciò può considerarsi vero, in politica estera l’ex vice Presidente si dimostra invece molto più deciso nel considerare l’opportunità di un impegno diretto degli Stati Uniti nel Vietnam.
L’attacco fantasma e la guerra aerea in Vietnam
L’episodio chiave è dell’agosto 1964 quando il cacciatorpediniere americano Maddox viene attaccato dai nord vietnamiti in acque internazionali. Washington risponde con l’invio di un secondo cacciatorpediniere Turner Joy e due giorni dopo le due navi comunicano di essere di nuovo sotto attacco nemico. Nonostante nei giorni successivi lo stesso equipaggio annunci di essere stato tratto in inganno da condizioni di meteo sfavorevoli, il presidente Johnson comanda un attacco aereo contro basi della marina nord vietnamita e depositi di carburante.
L’errore dei militari americani, confermato dopo ricerche decennali e non premeditato, è diventato un’occasione inaspettata per colpire Hanoi e pochi giorni dopo per far approvare al Congresso una risoluzione con cui si autorizza il Presidente “a adottare tutti i provvedimenti per respingere gli attacchi e impedire future aggressioni”.[11]
Tale risoluzione risultò come la giustificazione alla politica di guerra seguita negli anni successivi dall’amministrazione Johnson. Se fino a quel momento il Presidente del Vietnam del Nord Van Dong aveva mantenuto una linea prudente rispetto alla guerra civile scoppiata a Saigon, i fatti dell’agosto 1964 cambiano la situazione e inducono il regime comunista ad assumere un ruolo maggiormente attivo nel conflitto.
Tra il settembre e l’ottobre dello stesso anno le prime truppe regolari nord vietnamite (PAVN)[12] superano il confine e la zona demilitarizzata. Dietro tale scelta “aggressiva” c’è anche la mano del Cremlino, dove nel contempo ha preso il potere Brežnev allontanando l’“amico” Chruščëv che aveva sempre dato al sudest asiatico una importanza secondaria.
Il nuovo Presidente dell’URSS è convinto invece che gli Stati Uniti si stiano muovendo verso un confronto armato diretto in Vietnam e teme che Hanoi posa subire l’influsso “deviazionista”[13] della Repubblica popolare cinese i cui rapporti con l’URSS sono in quegli anni assi tesi. Nel febbraio del 1965 viene sottoscritto un programma di aiuti per Hanoi proveniente dall’URSS e comprendente, oltre ad una consistente parte economica (oltre 5 miliardi in dieci anni), anche la fornitura di moderni armamenti sovietici.
Operazioni Flaming Dart e Rolling Thunder nella guerra del Vietnam
Vinte le elezioni presidenziali del 1964 l’amministrazione Johnson decide di dare inizio ad una limitata offensiva aerea contro il regime nord vietnamita. Gli obbiettivi iniziali sono i sentieri nella giungla laotiana che sono utilizzati dai ribelli e dalle forze PAVN come collegamento tra il nord ed il sud. L’esercito sud vietnamita durante il 1964 rinforzato e arrivato a contare su 660 000 unità, continua a subire pesanti sconfitte tra cui quella di Binh Gia dove in superiorità numerica e generalmente meglio armato lascia sul campo 445 soldati contro i soli 132 persi dal Fln.
La situazione è diventata catastrofica e se ne rende conto anche il consigliere di Sicurezza Nazionale McGeorge Bundy che spinge il presidente americano ad iniziare al più presto gli attacchi aerei contro gli obbiettivi militari nord vietnamiti. L’occasione di cominciare arriva nel febbraio del 1965 dopo un assalto dei vietcong ad una base di elicotteri statunitensi presso Pliku. Le Operazioni Flaming Dart e in seguito Rolling Thunder[14] danno inizio all’offensiva aerea americana in Vietnam e hanno lo scopo di colpire obbiettivi militari nord vietnamiti e fermare l’avanzata del Fln nel sud del paese.
All’inizio di marzo per difendere le basi militari Washington, su richiesta del generale Westmoreland, invia due battaglioni di marines (40.000 uomini) con annessi carri armati. L’esito nel lungo periodo di tale decisione è profetizzato dall’ambasciatore americano a Saigon Taylor in quegli stessi giorni: “Se ci discosteremo da questa linea, sarà poi difficile porsi dei limiti e il governo del Vietnam tenterà verosimilmente di scaricarci altri compiti. […] I francesi ci hanno provato e hanno fallito, dubito che truppe americane possano far meglio”[15].
La guerra terrestre in Vietnam
Nell’estate del 1965 sono inviati altri 50.000 marines a cui se ne aggiungono altrettanti entro la fine dell’anno. Tale decisione segna per gli Stati Uniti l’inizio della guerra terrestre nel Vietnam del Sud.
La guerra pensata a Washington è basata su bombardamenti “chirurgici” dei complessi militari ritenuti dal presidente stesso come strategicamente più importanti. Le “incursioni” aeree effettuate nel solo 1965 sono 25.000 e un anno dopo sono già più che raddoppiate (79.000). Nei primi due anni del conflitto gli americani utilizzano in Vietnam 226.000 tonnellate di bombe oltre al napalm e le cosiddette bombe a frammentazione che sparano tutt’attorno centinaia di proiettili mortali. Le maggiori vittime di questa tipologia di guerra sono i civili e nel 1967 ne vengono uccisi in media mille a settimana[16].
Grazie all’appoggio cinese e soprattutto sovietico i danni arrecati alle strutture militari nord vietnamite restano contenuti rispetto alla quantità di bombardamenti effettuati. Molte industrie sono spostate o in montagna o sottoterra dove negli anni viene allestito un sistema di gallerie da oltre 40.000 km. La guerra aerea, come già dimostrato durante la Seconda guerra Mondiale, provoca decine di migliaia di vittime tra i civili, ma non riduce in modo sensibile la capacità militare di chi subisce l’attacco. In questo senso un dato rivelatore è che per causare ai vietnamiti un danno materiale di un dollaro gli americani ne spendevano in media 9,6.
In un primo momento la guerra terrestre vede gli americani infliggere notevoli perdite ai nord vietnamiti grazie alla maggiore capacità di fuoco, ben presto, tuttavia, come i francesi dieci anni prima, anche le forze statunitensi sono costrette a dividersi in piccoli gruppi allo scopo di controllare villaggi, guadare una risaia o dar manforte al ARVN sempre più debole e in difficoltà.[17]
Ne nasce una guerra fatta di piccoli scontri ravvicinati in cui la maggiore capacità di fuoco americana ha meno efficacia e dove invece, la migliore conoscenza del terreno e della lingua hanno un peso specifico enorme. In questo contesto i vietcong prendono presto il sopravvento, decidono loro le modalità e i luoghi di combattimento e costringono i marines sulla difensiva.
Già alla fine del 1965 l’amministrazione Johnson è estremamente divisa sull’atteggiamento da tenere nel Vietnam, tra gli “hardliner” e chi è convinto invece che si tratti di una guerra di difficile vittoria. Il Presidente tenta una mediazione mantenendo un atteggiamento incerto, rispondendo solo in parte alle richieste dei generali, ma allo stesso tempo rifiutando ogni ipotesi di avviare trattative di pace o di interrompere i bombardamenti aerei.
Tale modus operandi, descritto dallo storico G. C. Herring come “un continuo avallare il processo di graduale escalation del conflitto senza accompagnarlo con scelte precise”[18], peggiora i rapporti tra la Casa Bianca ed il Pentagono e rende il conflitto asiatico esclusivamente una “guerra del Presidente”.
All’interno della società statunitense cresce il dissenso e il movimento pacifista in grande ascesa trova la maggioranza dei suoi esponenti tra gli studenti,nelle fasce sociali meno abbienti e tra la popolazione di colore, che sono quelle che forniscono all’esercito gran parte dei soldati.
Johnson, estremamente sensibile ai sondaggi e bisognoso di approvazione, alla fine degli anni sessanta arriva ad utilizzare la CIA per spiare, screditare e dividere i vari movimenti che si oppongono al conflitto. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un conflitto combattuto fuori dai confini nazionali spacca la società diventando l’argomento principale di ogni mezzo di comunicazione.
Guerra in Vietnam: l’offensiva del Tet
Il 31 gennaio 1968 a Saigon, al termine dei festeggiamenti per il Tet ( il capodanno vietnamita) due autovetture con 19 guerriglieri entrano nel muro perimetrale dell’ambasciata americana e prendono d’assalto il palazzo mentre le guardie dell’ARVN si danno alla fuga. L’attacco armato termina solo sei ore dopo. A seguito di questo primo singolo episodio, solo nella capitale sud vietnamita, entrano in azione oltre 4000 guerriglieri del Fln che colpiscono numerosi punti strategici della città tra cui il palazzo presidenziale e l’aeroporto.
Nel complesso la cosiddetta offensiva del Tet vede impegnati circa 80.000 guerriglieri in 5 delle 6 grandi città e in 36 dei 44 capoluoghi di provincia. I prolungati scontri rappresentano nel complesso una sconfitta per i guerriglieri del Fln che alla lunga vengono respinti quasi ovunque e contano circa 40.000 perdite.
Il terremoto mediatico a Washington
Quei giorni di fine gennaio risultano però decisivi nell’andamento futuro della guerra non tanto per l’esito della battaglia, ma perché producono un terremoto mediatico e politico a Washington: per la prima volta dall’inizio del conflitto, gli americani vedono alla televisione ciò che realmente sta succedendo in Vietnam e non ciò che fino a quel momento gli era stato raccontato dall’amministrazione Johnson.
Stragi di civili, nel complesso sono 14.000 i civili che perdono la vita in quei giorni, violenze e stupri sono all’ordine del giorno da entrambe le parti e le città per la cui difesa gli americani sono entrati in guerra sono devastate molto spesso proprio dagli stessi elicotteri USA. “Per difendere Ben Tre abbiamo dovuto distruggerla”[19] è la tristemente celebre frase di un ufficiale superiore americano che spiega perfettamente il paradosso del conflitto in Vietnam.
Il terremoto mediatico negli Stati Uniti riguarda sia l’aspetto politico che quello economico. All’inizio di marzo il “New York Times” riporta la notizia: “Westmoreland[20] chiede altri 206.000 uomini. Acceso dibattito nell’amministrazione” e questa infiamma ancora di più l’opinione pubblica e le proteste da parte dei pacifisti.
Dal punto di vista economico si iniziano a manifestare le conseguenze dell’imponente sforzo bellico: il dollaro è messo sotto sforzo dagli ingenti costi della guerra ed il debito pubblico cresce di oltre 20 miliardi. La situazione economica è aggravata dalla cosiddetta “crisi dell’oro” che costringe Washington a sospendere la convertibilità del dollaro in oro per le banche di affari.
Tale scelta, non compresa fino in fondo dalla maggioranza degli americani, fu invece centrale nel convincere molti funzionari dello stato, i cosiddetti “saggi” a cambiare opinione riguardo il proseguo del conflitto in Vietnam. Ne il popolo americano ne il Congresso avrebbe appoggiato un altro ingente incremento di forze e adesso anche molti dei più stretti consiglieri del presidente sono scettici a riguardo.
Il 31 marzo il Presidente Johnson annuncia in tv la sospensione dei bombardamenti a nord del 17° parallelo e si dichiara disposto ad avviare trattative di pace. “ Stasera voglio parlarvi di pace in Vietnam … Nessun altra questione preoccupa altrettanto il nostro popolo”[21]. Al termine del discorso dichiara anche di non essere disponibile ad un secondo mandato presidenziale.
Nei giorni successivi vengono assassinati prima Martin Luther King e poi il candidato alle primarie democratiche Robert Kennedy. Le grandi città americane diventano veri e propri campi di battaglia tra manifestanti e poliziotti. La maggioranza della popolazione ne ha abbastanza della guerra, della violenza e delle distruzioni.
L’annuncio del presidente statunitense è accolto positivamente ad Hanoi, ma le trattative preliminari a Parigi si dimostrano fin da subito estremamente complicate poiché nessuna delle due parti vuole realmente arrendersi o affrettare le trattative di pace. Il presidente sud vietnamita Thiêu non vuole assolutamente trattare mentre Johnson, senza dover più pensare alle prossime elezioni, è ancora convinto in cuor suo di poter ottenere una vittoria militare.
Sul campo il nuovo generale Abrams ridistribuisce le forze, le organizza in piccole unità e intensifica l’addestramento dei soldati sudvietnamiti. Le nuove formazioni militari, maggiormente preparate, riescono a stanare numerosi rifugi del Fln causando numerose perdite tra le forze di Ho chi minh, ma anche tra gli inermi civili.
Prova di questo è la terribile strage di My Lai compiuta da una brigata di soldati americani ai danni di circa 400 civili inermi e disarmati, tra cui donne e bambini. Torture, violenze e stupri sono fermati solo dall’intervento di un altro reparto statunitense in ricognizione. L’intervento permise l’evacuazione del villaggio e salvò la vita almeno ad 11 persone[22]
Nixon e la de-americanizzazione del conflitto in Vietnam
Le elezioni presidenziali del 1968 portano alla Casa Bianca Richard Nixon che, sebbene in passato fosse stato un fermo sostenitore dell’intervento americano in Vietnam, nel gennaio del ’69 si rende conto che tale conflitto sia adesso diventato un problema e un peso per gli Stati Uniti.
Il presidente repubblicano per uscire dal conflitto vietnamita nel modo “più onorevole” possibile apre dei negoziati privati con Unione Sovietica e Cina allo scopo di interrompere i costanti rifornimenti di armi e materiali per Hanoi.
Alla “de americanizzazione” del conflitto, già proposta dal suo predecessore, Nixon coniò il termine “vietnamizzazione” che in breve termine portò ad un milione i soldati arruolati nell’ARVN. Sono forniti a Saigon aerei, elicotteri, armi, e munizioni di ogni genere e l’ambasciata americana riesce persino a convincere il governo a mettere in atto una seria riforma agraria che nell’immediato porta buoni risultati.
Sotto l’apparenza della sicurezza e della maggiore stabilità economica restano però irrisolti i gravi problemi strutturali del regime: la corruzione dilagante, le diserzioni, la frequente incapacità di utilizzare armi cosi tecnologicamente avanzate e la apatia politica di ormai gran parte della popolazione sfinita dalla guerra e interessata soltanto a sopravvivere senza doversi schierare con una o l’altra parte. “L’attuale governo rimarrà verosimilmente al potere fino a quando gli Stati Uniti lo appoggeranno, ma se l’attuale governo rimarrà al potere la vietnamizzazione fallirà”[23].
Ad un maggiore impegno dell’esercito locale consegue un lento ed inesorabile ritiro delle truppe americane nel Vietnam del Sud: nei primi anni ’70 l’amministrazione Nixon ritira dal Vietnam oltre 200.000 marines. Se nel momento di massima presenza statunitense, nel 1969, si è toccato quota 550.000 unità, tre anni dopo, nel 1971, i soldati americani sono 157.000.
Di pari passo proseguono i negoziati segreti con Cina e Unione Sovietica, e per gli Stati Uniti è il Consigliere per la Sicurezza Henry Kissinger il principale protagonista. Nato nella Germania nazionalsocialista possiede eccellenti contatti con gli establishment della politica estera e nell’estate del 1971 è mandato in visita segreta a Pechino. É il primo americano con responsabilità politica che visita la Cina di Mao.
Ad Hanoi, spaventati dalla possibilità che Mao sia presto convinto da Kissinger, si prepara in breve tempo una nuova offensiva militare che ha inizio alla Pasqua dell’anno successivo. L’ ARVN viene in breve travolto dai vietcong che arrivano, con i mezzi corazzati sovietici, fino a meno di 100 km dalla capitale. Nixon risponde con potenti bombardamenti che alla lunga riescono a bloccare i rifornimenti di armi e carburante arenando in seguito l’offensiva.
Per i nord vietnamiti si rivela un insuccesso militare e le perdite sono ingenti, tuttavia, l’intervento americano risulta ancora una volta decisivo per il governo di Saigon il cui esercito si è nuovamente disfatto davanti al nemico. Le valutazioni positive del presidente riguardo il processo di “vietnamizzazione” del conflitto non trovano riscontro nella realtà e rischiano di essere mere illusioni. Ne iniziano a prendere coscienza a Washington e anche a Saigon.
I fallimenti di Parigi e il bombardamento di Natale
Sono ripresi i colloqui di pace a Parigi, ma Thieu non intende fare concessioni ai vietcong e sabota ogni tipo di accordo tra Kissinger e il negoziatore nord vietnamita Le Duc Tho.
Dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel novembre del 1972 Nixon torna a bombardare Hanoi per provare a forzare un accordo che possa soddisfare anche il suo alleato: il “bombardamento di Natale” che provoca 2000 morti tra i civili segna per gli Stati Uniti il punto più basso nella considerazione internazionale e al tavolo delle trattative ottiene solo risultati minimi e non significativi.
Guerra del Vietnam: un armistizio senza vincitori
Il 27 gennaio 1973 viene firmato l’accordo che sancisce la fine della guerra e di fatto ricalca i precedenti accordi a cui erano giunti nell’ottobre del 1972. I combattimenti sono sospesi e gli Stati Uniti si impegnano a ritirarsi dal Vietnam entro 60 giorni, nello stesso periodo di tempo Hanoi libera i prigionieri americani. Il paese è riunificato e il confine al 17° parallelo perde di valore internazionale, tuttavia i due governi continuano ad amministrare i territori di propria competenza. Con un documento separato l’amministrazione Nixon si impegna a versare al Vietnam del Nord un miliardo di dollari per la ricostruzione.
Non si tratta di un accordo tra vincenti e vinti poiché, con mezzo milione di morti, anche per l’Fln e i nord vietnamiti non si tratta di un accordo trionfale sebbene dopo oltre cento anni di dominazione francese e 10 anni di guerra americana nessun esercito straniero sia più presente nel paese.
Il governo di Saigon, deluso dal comportamento degli Stati Uniti, firma con molta riluttanza l’accordo. Thieu controlla il 75% del Vietnam del Sud e gran parte della sua popolazione, inoltre ottiene ingenti aiuti economici americani e l’assicurazione segreta da parte di Nixon che, in caso di violazione dell’accordo da parte dei nord vietnamiti, avrebbe ripreso la guerra aerea.
La promessa di Nixon diviene presto irrealizzabile: Congresso e larga parte dell’opinione pubblica non hanno più intenzione di aiutare Saigon nè militarmente nè economicamente. Nel novembre del 1973 il Parlamento approva una legge (War Power Act) che limita i poteri del Presidente riguardo all’invio di truppe in qualunque paese straniero e nel corso dei due anni successivi riduce progressivamente i fondi da destinare al Vietnam del Sud. Nel corso dei due anni successivi l’ARVN abituato a combattere utilizzando armi e risorse americane si trova costretto a cambiare strategia militare per via dei sempre più scarsi fondi, 300 milioni nel 1975.
I sempre più scarsi fondi americani colpiscono non solo l’esercito, ma l’intero regime di Saigon che in breve tempo è investito da una grave crisi economica. Recessione, inflazione, disoccupazione al 40% e la dilagante e cronica corruzione degli apparati dirigenti sono i gravi problemi che Thieu continua ad ignorare aspettando un nuovo intervento americano che salvi il suo regime. Negli Stati Uniti però la situazione è completamente cambiata e anche il Presidente Nixon, che infelicemente aveva fatto importanti promesse scritte al presidente vietnamita, nell’estate del ’74 è costretto a dimettersi coinvolto nello scandalo Watergate[24].
L’unificazione del Vietnam
Chi invece si è perfettamente reso conto della situazione è il gruppo dirigente di Hanoi che dopo aver rinforzato e consolidato il potere nel nord del paese e nella zona immediatamente a sud del vecchio confine con relativa facilità nel dicembre ’74 prende il controllo di un importante centro come Dong Xoai; i dirigenti decidono allora di preparare una nuova offensiva contro Saigon contando sul fatto che gli Stati Uniti, senza presidente eletto e stanchi della guerra, non interverranno nuovamente.
La scommessa risulta vincente e nel marzo del 1975 l’esercito nord vietnamita effettua subito rapide conquiste nel centro-sud del paese. All’ ARVN viene ordinato di ritirarsi dalla regione, ma il generale capo preferisce fuggire e abbandona i soldati al proprio destino. L’episodio trasforma una ritirata tattica in una fuga disordinata dove sono abbandonati per strada armi, munizioni e veicoli. I vietcong inseguono e senza praticamente combattere occupano Hue e Da Nang.
Alla luce dei successi militari il comando supremo ad Hanoi decide di attaccare Saigon e occupare anche le province meridionali del paese. Nelle settimane successive i viet cong eliminano ogni resistenza e puntano verso la capitale, dove intanto, Thieu decide di cedere il potere ad un nuovo governo presieduto dal generale Duong Van-Minh e poi scappa all’estero. Il 1° maggio 1975 le truppe di Hanoi entrano a Saigon e accettano la capitolazione del generale. Il Vietnam torna ad essere unito dopo quasi vent’anni dall’armistizio che aveva concluso la guerra francese in Indocina.
L’anno successivo i viet-minh proclamano nella nuova città di Ho Chi-Minh (ex Saigon) la nascita della Repubblica socialista del Vietnam. Il prezzo pagato dal popolo vietnamita è altissimo sia in termini umani che materiali e la ricostruzione del paese, insieme alla la creazione di uno Stato unitario, costeranno altre vite ed altri enormi sacrifici. La popolazione e la dirigenza comunista si renderanno ben presto conto che è più semplice vincere una rivoluzione che governare, dopo tanti rivolgimenti, un paese a lungo diviso e devastato dalla guerra.
Film consigliati:
- Apocalypse Now di F. Coppola, 1979
- Platoon di O. Stone, 1986
Note:
[1]La regione dell’Indocina o penisola indocinese copre una superficie di oltre 2 milioni di kmq dove vivono circa 40 milioni di persone. Comprende gli attuali stati di Birmania, Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia
[1]Army of the Republic of Vietnam
[2]M. Frey, Storia della guerra in Vietnam, Einaudi, 2006 p. 52-53
[3]Ivi p. 54
[4]Denominazione comunemente usata in Occidente per indicare un guerrigliero appartenente al gruppo di resistenza vietnamita.
[5]M. Frey cit. p. 66
[6]Ivi p. 68
[7]Ivi p. 80
[8]Ivi p.82
[9]M. Hastings, cit. 205
[10]D. Ganser, Le guerre illegali della NATO, Fazi editore, 2022, p. 212
[11]M. Frey cit. p 100-101
[12]People’s Army of Vietnam
[13]I rapporti tra l’Urss e la Cina di Mao entrano in crisi alla fine degli anni ’50: entrambe le dirigenze si rimproverano varie scelte e il segretario sovietico definisce il regime cinese come avventurista, deviazionista e nazionalista.
[14]L’operazione Rolling Thunder, al contrario della prima, è una vera e propria offensiva aerea non limitata nel tempo.
[15]M. Frey cit. p. 118-119
[16]I dati sono presenti in M. Frey cit. di p. 126
[17]Tra i motivi della scarsa efficacia dell’esercito sudvietnamita la dilagante corruzione, la paga misera e le diserzioni di massa.
[18]M. Frey, cit. p . 148
[19]M. Frey, cit. p. 165
[20]Il Generale William Westmoreland è comandante in capo delle forze armate statunitensi dal 1964 al 1968
[21]M. Hastings, cit. p. 557
[22]Il Sottoufficiale Thomposon e il suo equipaggio sono stati premiati per il loro coraggio nel frapporsi tra i civili e i soldati americani il cui capo è il Tenente Calley (condannato all’ergastolo e in seguito graziato da Nixon)
[23]Rapporto per il Senato degli Stati Uniti 1970 in M. Frey cit. p. 198
[24]Lo scandalo Watergate scoppia nel 1972 quando sono scoperte alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del partito democratico statunitense. Il presidente Nixon si dimette il 9 agosto ’74 quando la prospettiva dell’impeachment diviene una certezza.
I libri consigliati da Fatti per la Storia sulla guerra del Vietnam
- Max Hastings, Vietnam, una tragedia epica 1945-1975, I Colibri, 2018.
- Marc Frey, Storia della guerra in Vietnam, Einaudi, 2006.