CONTENUTO
Guerra del Kosovo: prologo
Nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (lo Stato nato nel 1945 e dissoltosi nel 1991) il Kosovo è una Provincia autonoma all’interno della Repubblica Socialista di Serbia. Al pari dell’altra Provincia autonoma, la Voivodina, il Kosovo ha un certo grado di autonomia da Belgrado, ma non a pari livello con le altre Repubbliche che compongono la Federazione. Il Kosovo con i suoi numerosi monasteri e chiese ortodosse è per i serbi un luogo sacro e dalla forte valenza simbolica.
Durante il XIII e XIV secolo il Kosovo è il centro politico e spirituale del regno serbo e il 15 giugno 1389 nella piana dei Merli (Kosovo Polje in serbo, parola da cui proviene il nome stesso Kosovo), a nord di Pristina, si combatte la famosa battaglia che vede un’alleanza di diversi popoli balcanici di fede cristiana, in maggioranza serbi, comandati dal duca di Lazar scontrarsi con gli Ottomani di Murad I che ambiscono alla conquista dell’intera penisola. Per i cristiani si tratta di una terribile sconfitta e lo stesso Lazar viene ucciso in battaglia, tuttavia la battaglia nella Piana dei Merli svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della coscienza collettiva serba.
A partire dal 1400 il Kosovo è abitato però anche da albanesi (i quali sono in maggioranza di religione musulmana) che, con il passare dei secoli, diventeranno la maggioranza della popolazione. Secondo le stime più accreditate nel 1991 gli albanesi sono il 95% della popolazione della Provincia.
Kosovo 1989-1995
I rapporti fra serbi e albanesi in Kosovo vanno peggiorando fin dagli anni Ottanta; in particolare nel 1989 il Parlamento serbo, con una decisione presa in autonomia, abolisce la parziale autonomia della Provincia dal governo di Belgrado. Nei mesi successivi sono approvati una serie di decreti discriminatori verso la popolazione albanese (fra cui una riforma scolastica per limitare l’insegnamento della lingua albanese nelle scuole), e la polizia locale “Movimento di resistenza serbo” ottiene poteri praticamente illimitati per effettuare perquisizioni, arresti, torture, processi di massa e violenze contro l’altra etnia.
La risposta della popolazione albanese al regime discriminatorio imposto da Belgrado ha come obbiettivo quello di dimostrare la propria capacità e volontà di resistenza: nel luglio del 1990 si autodichiara indipendente dalla Serbia, sia pure nell’ambito della Federazione jugoslava, nel settembre dello stesso anno è redatta una vera e propria Costituzione che rivendica il diritto all’autodeterminazione del Kosovo.
Nell’estate del 1991 i leader albanesi-kosovari decidono di seguire l’esempio di Slovenia e Croazia nel chiedere il riconoscimento della Comunità Europea a seguito dello svolgimento di un referendum clandestino dove l’opzione dell’indipendenza raggiunge quasi l’unanimità; tuttavia tale richiesta si rivela del tutto inutile poiché la Commissione Badinter[1] è incaricata di decidere riguardo le richieste di riconoscimento delle sole Repubbliche jugoslave e non delle Province autonome come il Kosovo. Tale sconfitta a livello internazionale segna però la scelta della leadership albanese-kosovara di seguire la strada della resistenza pacifica ad oltranza e rifiutare ad ogni costo l’ipotesi dello scontro armato contro Belgrado.
La strada dello scontro armato è rifiutata anche quando è proposta dal Presidente croato Tudjman, il quale invece è in guerra contro la Serbia e vorrebbe aprire un altro fronte di guerra contro la Serbia in Kosovo. Simbolo della scelta pacifista è il professore di letteratura Ibrahima Rugova che nel 1992 vince le elezioni clandestine a capo della Lega Democratica del Kosovo. Con mirabile ingegno e forza di volontà, nei successivi anni viene creato un vero e proprio “Stato ombra”, parallelo a quello ufficiale e dotato di tutte le strutture politiche, culturali, sociali, sanitarie e d’informazione necessarie alla vita quotidiana.
La strada per l’indipendenza secondo Rugova passa esclusivamente per “mezzi pacifici e politici” affiancandosi anche ad un evidente motivo strategico: l’enorme disparità di forze militari in campo. È necessario evitare lo scontro con i serbi i quali aspettano solo l’occasione giusta per massacrare la popolazione albanese. Secondo Rugova bisogna invece internazionalizzare la questione kosovara informando i paesi stranieri della violazione dei diritti umani con documentazioni sistematiche.
Sono inoltre boicottate dalla popolazione albanese le elezioni ufficiali tenutesi nella Provincia. Tali scelte però rivelano aspetti controproducenti: per esempio grazie al boicottaggio albanese delle elezioni, con i soli pochi voti serbi Milošević porta un gran numero di suoi deputati al Parlamento di Belgrado.
Evitare lo scontro armato, se è condivisibile dal punto di vista etico e realmente avrebbe messo di fronte due eserciti molto diversi per numero di soldati, qualità e quantità di armamenti, ha tuttavia permesso a Milošević di concentrare tutte le sue forze militari nel conflitto prima in Croazia e poi Bosnia-Erzegovina. E in generale la comunità internazionale è soddisfatta dell’apparente stato di pace e tranquillità che trasmette all’esterno il Kosovo e non sente il bisogno di intervenire con decisione.
Anche nel novembre del 1995, quando nella base militare americana di Dayton (Ohio) si tengono i colloqui di pace per porre fine alla sanguinosa guerra in Bosnia-Erzegovina, l’amministrazione americana decide di non occuparsi della situazione kosovara accettando la tesi proposta da Milošević secondo cui si tratta di un problema interno alla Jugoslavia su cui egli non è disposto a discutere a livello internazionale.
Lo scoppio del conflitto in Kosovo (1996)
Nel 1996 la decisione dell’Unione Europea, nell’ambito del riconoscimento della nuova[2] Repubblica federale di Jugoslavia, di non pretendere da Belgrado neanche il ripristino dell’autonomia nella Provincia del Kosovo rende evidente il fallimento della strategia di resistenza pacifica tenuta dagli albanesi negli ultimi anni.
L’anno successivo in una manifestazione di protesta di massa fanno per la prima volta apparizione pubblica dei guerrieri mascherati con simboli albanesi sulla divisa, fanno parte del “Movimento di liberazione nazionale del Kosovo” ispirato all’ IRA irlandese e presto conosciuto con l’acronimo Uçk.
Gli obbiettivi di tale Movimento sono i medesimi di Rugova, ma la strategia è opposta: durante il 1996 fanno esplodere bombe in almeno 5 campi di esuli serbi provenienti dalla Krajina croata (10-16 mila persone). La violenza dell’Uçk incrementa notevolmente il numero di serbi che fuggono dal Kosovo, fenomeno già preesistente e sempre fortemente contrastato da Belgrado.
L’ambasciatore Robert Gelbard, inviato speciale della Casa Bianca nella ex-Jugoslavia, definisce il movimento kosovaro come “gruppo terrorista” e autorizza implicitamente la repressione violenta delle autorità serbe: nell’offensiva vengono distrutti interi villaggi, fra il 28 e il 1° marzo 1997 sono uccise 29 persone nella città di Drenica, soprattutto vecchi, donne e bambini, fra il 4 e il 7 marzo a Prekaz le vittime sono almeno 58. Secondo l’ UNHCR (Alta commissione ONU per i Rifugiati) nell’ottobre del ’97 sono 420 mila le persone costrette a darsi alla fuga e a lasciare il Kosovo.
La violenza esplosa nel Kosovo ha vasto eco nei media occidentali e suscita notevole apprensione a Washington dove si teme che il conflitto possa presto allargarsi alla Macedonia, appena riconosciuta dalla comunità internazionale e dove vive una corposa minoranza albanese. Nel successivo dibattito alla Casa Bianca la Segretaria di Stato Madeleine Albright (primo Segretario di Stato donna in USA) riesce a convincere il Ministro della Difesa William Sebastian Cohen e lo stesso Presidente Clinton riguardo l’opportunità di un intervento militare americano nel Kosovo tramite l’utilizzo della NATO.
Gli obiettivi e i motivi di questo intervento sono molteplici: in politica interna dimostrare alla maggioranza repubblicana del Congresso di avere ancora leadership e superare gli annosi scontri fra Casa Bianca e Campidoglio; in politica estera proiettare l’America come la grande, e adesso anche unica grande potenza mondiale e reinventare per l’Alleanza Atlantica un nuovo ruolo all’interno del nuovo panorama internazionale notevolmente cambiato negli ultimi dieci anni.
Il ruolo della Nato
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel dicembre del 1991, la NATO (North Atlantic Treaty Organization), nata con il Patto Atlantico nel 1949, ha perso il suo principale “avversario” e secondo la Segretaria di Stato Albright rischia di perdere ruolo e funzione nella nuova complessa realtà internazionale nata dopo la caduta del muro di Berlino. La trasformazione della NATO, necessaria secondo la Albright, è spiegata efficacemente da Ivo H. Daalder, consigliere della Casa Bianca per i Balcani:
“La NATO era una alleanza militare con basi politiche […] a tenere insieme l’Alleanza restano ora solo i principi politici […]. Ciò suggerisce l’opportunità di rovesciare le priorità: la NATO deve trasformarsi in un’alleanza politica su basi militari”[3].
Un intervento militare vittorioso in Kosovo, senza “gli impacci” dell’ONU, imporrebbe gli Stati Uniti come unica grande potenza rimasta nella scena internazionale e restituirebbe ruolo e funzioni nuove all’Alleanza, inoltre rappresenterebbe anche una ottima opportunità per far accettare la “dottrina unipolare” anche agli alleati europei, spesso insofferenti verso questo nuovo concetto strategico dell’Alleanza.
Il recente intervento in Bosnia-Erzegovina è un ottimo esempio di tale progetto ed è stato possibile abolendo il meccanismo della “doppia chiave” che rendeva necessaria l’approvazione dell’ONU per ogni intervento militare dell’Alleanza.
In Kosovo il bersaglio dell’intervento militare è Milošević e la Jugoslavia. A metà luglio il portavoce del Dipartimento di Stato americano James Rubin, riferendosi alle tensioni esplose in Kosovo, dichiara che la loro “radicalizzazione è da mettere in conto unicamente a Milošević”[4]. Anche Robert Gelbard, diplomatico americano, che ad inizio anno definiva l’Uçk un “gruppo terrorista”, in estate si corregge e, durante una visita in Kosovo, afferma che un’organizzazione che aveva tra le proprie fila alcuni colpevoli di atti terroristici “non era necessariamente un organizzazione terrorista”[5].
Secondo l’ UNHCR entro la fine del mese di agosto fuggono dalle aree coinvolte nello scontro 160 mila persone, mentre le vittime saranno 1500 fra gli albanesi e 100 fra i serbi. I tentativi diplomatici per trovare almeno una soluzione temporanea che fermi la tragedia in atto sono respinti sia da Milošević e dalla gran parte dell’opinione pubblica serba, sia da parte albanese dove l’Uçk, da sempre critico verso la politica attendista di Rugova, non intende aprire trattative con i serbi o accettare compromessi che non siano l’indipendenza del Kosovo.
All’inizio dell’estate del 1998 il progetto “interventista” della Albright è appoggiato anche dalla Casa Bianca, ma non convince i paesi europei, in primis la Gran Bretagna, la quale, nel giugno del 1998, sicura del fatto che in sede di Consiglio di Sicurezza ONU Cina e Russia avrebbero votato contro e bloccato il progetto, propone lei stessa un progetto al Consiglio di Sicurezza con una bozza di risoluzione destinata a non essere approvata.
Tale manovra suscita notevole irritazione a Washington ed è necessario l’intervento del Primo Ministro inglese Tony Blair per ricomporre l’incidente secondo i voleri americani ovvero dimostrare che la catastrofe umanitaria in atto nel Kosovo è una base legale sufficiente per l’intervento militare della Nato, anche senza l’autorizzazione dell’ONU.
A settembre i tragici numeri delle vittime della guerra in Kosovo convincono anche i paesi europei della necessità di un intervento forte. Sul campo di battaglia a metà agosto i serbi conquistano Junik, l’ultimo caposaldo del Movimento di liberazione e costringono la popolazione albanese a fuggire nei boschi circostanti; secondo i dati della Croce Rossa si tratta di circa 160 mila persone.
Tali avvenimenti, ampliamente pubblicizzati in Occidente, spingono il comando NATO a lanciare l’ennesimo monito all’indirizzo del regime di Belgrado. Contrari all’intervento militare restano quindi la Cina e la Russia, ma con differenze di posizione sostanziali: il Ministro degli Esteri russo Igor Ivanov afferma che in caso di intervento militare della NATO senza il consenso dell’ONU “noi faremo solo un grande strepito”[6].
Il fallimento della diplomazia
L’ennesima Risoluzione ONU del 23 settembre 1998, la numero 1199, che chiede il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo e la ripresa dei colloqui diplomatici fra le parti, cade completamente nel vuoto e conferma l’incapacità delle Nazioni Unite nel riuscire ad elaborare una linea di condotta comune ed essere ferma e decisa nel farla poi rispettare.
La diplomazia americana, con alla testa la Segretaria di Stato Albright, è ormai decisa a dare inizio ai raid aerei, sotto la bandiera NATO, contro la Jugoslavia. Milošević è ora considerato il problema da risolvere e non più l’interlocutore con cui dialogare. ‘L’uomo di pace’ di Dayton è ora paragonato ad Hitler e le democrazie occidentali questa volta non possono commettere gli stessi errori del 1938. Da parte dei paesi europei la soluzione militare è ormai accettata, ma non senza malumori, soprattutto dovuti alla mancata autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU.
Nonostante la contrarietà americana viene deciso però di fare un ultimo tentativo diplomatico con lo scopo di fermare gli scontri armati e dare inizio a una discussione diplomatica che porti ad una soluzione negoziata della crisi. La sede scelta per le trattative è il castello di caccia di Rambouillet, una delle residenze dei Re di Francia nei dintorni di Parigi, ed è presente anche la delegazione albanese che ha superato le divisioni interne. La delegazione serba, composta da politici di secondo rango, è invece priva di comando poiché Milošević è assente per paura di essere raggiunto da un ordine di cattura del Tribunale dell’Aia.
Le posizioni di partenza delle due parti sono radicalmente opposte e ciò rende fin da subito molto difficili i negoziati. Il documento proposto dalla diplomazia occidentale alle parti in lotta prevede l’amministrazione NATO del Kosovo come provincia autonoma all’interno della Jugoslavia e una forza internazionale di 30.000 soldati con diritto di passaggio illimitato sul territorio jugoslavo per mantenere l’ordine e la pace nel paese.
É divenuto famoso come “Allegato B” ed è definito da Henry Kissinger, ex politico e diplomatico americano, come “una mera scusa per iniziare i bombardamenti”[7] e tale ipotesi non è da scartare se pensiamo che, mentre si svolgono i colloqui diplomatici in Francia, la Albright incontra il Ministro degli Esteri russi Ivanov per assicurarsi che la Russia sia sempre ‘accondiscendente’ all’ipotesi di usare la forza in Jugoslavia nell’ipotesi di un fallimento del tentativo diplomatico.
Da parte serba l’Allegato B è difficilmente accettabile poiché Milošević ha strettamente legato il suo potere alla riaffermazione della supremazia serba nella Provincia e non può consentire che questa diventi un Protettorato della NATO. Gli albanesi invece non intendono trattare riguardo l’indipendenza del Kosovo che, per volere russo, nel documento presentato non è neanche citata.
Durante le prime due settimane di colloqui entrambi le parti mostrano un atteggiamento ben poco disposto a collaborare per raggiungere un accordo. Una parziale svolta ai colloqui arriva dalla stessa Albright che, allo scopo di rendere necessari i bombardamenti NATO e rendere evidente chi debba essere la vittima di tale attacco, ovvero la Jugoslavia di Milošević, forza la delegazione albanese ad accettare l’Allegato B per mettere in cattiva luce i serbi che, invece, tale documento non lo avrebbero mai accettato.
Il piano della Albright si compie il 23 febbraio 1999 quando la delegazione albanese decide di accettare il documento che manda in Kosovo una forza militare neutrale denominata KFOR con la possibile collaborazione delle forze dei paesi NATO oltre che della Russia. Dal punto di vista americano si è cosi raggiunto il punto di non ritorno: se Milošević, durante la pausa delle trattative, che ricominceranno a metà marzo, non accetta il documento presentatogli, diventa l’unico ostacolo al raggiungimento della pace e perciò tutti i paesi dell’Alleanza concorderanno nella necessità di un intervento militare.
Già durante i colloqui a Rambouillet l’Armata jugoslava aveva rafforzato le proprie truppe in Kosovo con carri armati e artiglieria pesante e l’8 marzo Milošević conferma di non essere disposto ad accettare la presenza di forze internazionali nel Kosovo, pur conoscendo le intenzioni bellicose della NATO.
Alla ripresa dei colloqui a metà marzo la situazione è ormai compromessa: Milošević è convinto che l’Occidente non effettuerà la difficile scelta di intervenire militarmente in difesa degli albanesi-kosovari. A suo parere i venticinque “avvertimenti finali” che ha ricevuto negli ultimi anni sono la prova di questo. La propaganda del regime ha pubblicizzato questi accordi come una minaccia al popolo serbo e perciò i serbi devono essere pronti ad opporsi ai propri nemici con tutti i mezzi.
Secondo gli ambienti belgradesi ostili al regime si tratta di un semplice calcolo: se Milošević è costretto a perdere il Kosovo, per restare al potere lo deve perdere “in maniera eroica con una battaglia degna di questo nome, assicurandosi cosi la gloria del martirio e il sostegno del proprio popolo”[8].
Da parte dei paesi NATO dietro alla motivazione umanitaria di facciata si nascondono motivazioni soggettive per ogni paese: ci sono le motivazioni geopolitiche americane, ma anche i paesi europei hanno precise motivazioni per appoggiare l’intervento militare della NATO come, per esempio, prevenire una nuova ondata di profughi verso l’Occidente e non ripetere gli errori commessi in Bosnia-Erzegovina quattro anni prima.
La guerra per salvare la NATO
Il 24 marzo 1999 inizia l’Operazione “Allied Force”. Nelle intenzioni dei paesi occidentali sarebbe dovuta durare i pochi giorni necessari per far capitolare la Serbia e costringere Milošević ad accettare le condizioni di pace; nella realtà dei fatti le operazioni belliche dureranno oltre due mesi, provocando la morte di oltre mille persone fra soldati e civili, danni materiali alla Serbia per 35-40 miliardi di dollari; inoltre già agli inizi di aprile i fuggiaschi dal Kosovo sono 262.000.[9]
Quello dell’esodo dei kosovari è una delle critiche mosse alla NATO e all’operazione militare che, da questo punto di vista, ha soltanto peggiorato una situazione già molto grave. Se nella prima fase dell’operazione i bombardamenti sono concentrati esclusivamente su obbiettivi militari, già in aprile la strenua resistenza dell’esercito serbo mette in difficoltà la NATO e alimenta i dubbi riguardo l’operazione militare soprattutto da parte dei paesi europei.
Viene quindi deciso di ampliare il raggio d’azione e colpire anche obiettivi civili e infrastrutture come ponti e industrie in tutta la Serbia. A fare le spese di questo cambio di strategia sono gli inermi civili serbi colpiti dagli ‘effetti collaterali’ dei bombardamenti o da bombardamenti completamente sbagliati; uno di questi, ad esempio, colpisce l’ambasciata cinese a Belgrado uccidendo tre giornalisti cinesi e ferendone venti. Anche il raggio d’azione dell’operazione è aumentato e i bombardamenti raggiungono anche il nord del paese dove molti civili erano fuggiti pensando di essere al sicuro.
A maggio il Presidente russo El’Cin decide di destituire il Primo Ministro Evgenij Maksimovič Primakov, da tempo critico e ostile alla politica estera americana e della NATO e manda poi a Belgrado Viktor Černomyrdin, politico e ex Primo Ministro russo, con il compito di convincere Milošević ad ammorbidire le proprie posizioni. Legati da ottimi rapporti Černomyrdin e il Vice Presidente americano Al Gore, alla ripresa dei colloqui il 19 maggio, minacciano Milošević di una imminente invasione americana del Kosovo appoggiata, in seno al Consiglio di Sicurezza anche dalla Russia.
Alla fine del mese, dopo giorni di estenuanti colloqui diplomatici, Milošević accetta il Piano redatto da Černomyrdin. Questo nuovo documento riprende l’Allegato B redatto a Rambouillet, cambiandolo solo in alcuni punti riguardanti l’azione delle forze internazionali in Kosovo e il ruolo centrale dell’ONU nel governo della Provincia. Viene garantita la sovranità e l’integrità della Repubblica federale jugoslava, si annuncia la smilitarizzazione dell’Uçk e viene tralasciato ogni riferimento all’indipendenza del Kosovo.
Secondo la testimonianza del diplomatico finlandese Ahtisaari[10] presente durante gli ultimi giorni di colloqui, a convincere Milošević ad accettare il piano non è tanto la minaccia di invasione americana, quanto gli accordi segreti presi con i capi dell’esercito russo con cui aveva rapporti già dai tempi dei regimi comunisti, per un futuro colpo di mano delle truppe russe che avrebbero occupato Pristina e la parte nordoccidentale del Kosovo dove sarebbe stata concentrata la popolazione serba. Tale regione sarebbe stata poi annessa alla madrepatria Serbia e tale spartizione avrebbe garantito alla Serbia, oltre ai santuari più importanti del Kosovo, anche le miniere più ricche del paese.
É evidente come tale piano non sia mai andato in porto e, sempre secondo Ahtisaari, Milošević resistendo qualche altro giorno avrebbe ottenuto dall’Occidente condizioni molto più favorevoli. Altri probabili motivi per cui Milošević decide, piuttosto rapidamente, di accettare l’accordo sono un drastico calo di consensi in Serbia dovuto agli estenuanti bombardamenti e l’inaspettata compattezza della NATO nel sostenere e compiere i bombardamenti. Infatti non si oppone neanche la Grecia, nonostante gli ottimi rapporti con la Serbia.
Il 10 giugno 1999, dopo 79 giorni, terminano i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia. Milošević annuncia entusiasta, in un discorso televisivo, il raggiungimento della pace e definisce i serbi un popolo eroico che si è opposto alla tirannia del “nuovo ordine mondiale” e ha resistito alla NATO.
Anche l’Alleanza Atlantica considera l’intervento militare perfettamente riuscito, con perdite assai ridotte (sono solo due i mezzi persi in battaglia) e senza il sacrificio di vite umane. Dietro gli annunci di vittoria c’è però un intervento militare costato 7 miliardi di dollari che ha inferto alla Armata jugoslava danni inferiori alle previsioni; il nucleo dell’esercito e della Polizia speciale serba è infatti rimasto intatto e da questo punto di vista il vožd ha qualche ragione in più per cantare vittoria. Inoltre l’obiettivo militare di isolare il Kosovo e non permettere alla Serbia di svolgere operazioni militari nella Provincia non è stato raggiunto, dato che i massacri e le pulizie etniche sono continuate durante tutto il conflitto.
Gli americani, da parte loro, hanno potuto testare nuove efficaci armi, come i Tomahawk, e nuove strategie militari. Non si sono fatti problemi nemmeno nell’utilizzare armi non convenzionali o addirittura vietate da Trattati internazionali (di cui essi non erano però firmatari) come le 355 bombe a frammentazione o le bombe ad uranio impoverito.
Le prime, in parte non esplose al contatto con il suolo, hanno lasciato sul terreno frammenti paragonabili a mine antiuomo (secondo il “Times” sono circa 14 mila i resti di bombe a frammentazione inesplosi al termine del conflitto). Le seconde hanno rilasciato radiazioni i cui effetti sono stati riscontrati anche nei militari della NATO impegnati nella missione di pace che si sono ammalati di leucemia e di altre gravi malattie. A questo vanno aggiunti i danni ambientali causati dai bombardamenti su industrie chimiche e raffinerie che hanno sprigionato gas tossici e altamente inquinanti, soprattutto per le acque del vicino Danubio.
Il sogno americano di dare alla NATO un nuovo ruolo geopolitico e utilizzare l’Alleanza Atlantica per risolvere le future crisi internazionali si mostra irrealizzabile subito dopo la sua prima missione nella nuova veste. Il perdurare del conflitto oltre le aspettative ha messo in evidenza le tensioni interne fra l’America e i paesi europei. Lo stesso 10 giugno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite approva, con la sola astensione della Cina, la Risoluzione 1244 che legittima ex post l’intervento militare e autorizza l’invio delle truppe internazionali in Kosovo, circa 50 mila uomini sotto il comando di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, per portare e mantenere la pace.
La Cina per la sua astensione chiede di inserire nella Risoluzione una unica frase che sottolinei il ruolo molto particolare avuto dalle Nazioni Unite nella risoluzione della crisi. Tale velata, ma precisa critica agli Stati Uniti viene accolta favorevolmente dai paesi europei e apre ufficialmente la discussione, mai veramente conclusasi, riguardo l’effettiva legittimità di tale operazione militare.
Pochi anni prima in Bosnia-Erzegovina l’intervento militare della NATO, sebbene sempre senza l’approvazione dell’ONU, si era ‘limitato’ a bombardare le postazioni militari serbe nella zona del conflitto e indurre questi ultimi a cessare il fuoco; nel caso del Kosovo, invece, i bombardamenti colpiscono tutta la Serbia senza grandi distinzioni fra obiettivi militari e civili e senza nessun riguardo per il tipo di armi utilizzate. Gli obbiettivi militari prestabiliti sono raggiunti in minima parte, i danni al paese e ai civili sono incalcolabili, si è poi raggiunto l’obiettivo della pace, ma non si possono sottovalutare i costi pagati in termini di vite umane e danni materiali.
Sebbene la costante incapacità delle Nazioni Unite a prendere decisioni univoche e metterle in atto con coerenza e determinazione faciliti e renda in qualche modo anche comprensibile la decisione della NATO di agire per conto proprio, con l’operazione “Allied Force” essa viola oltre che la Charta ONU, la quale giustificava l’uso della forza solo in caso di autodifesa o previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, anche la sua stessa Costituzione, in cui si autodefinisce “a scopo difensivo”.
Infine i motivi soggettivi e totalmente egoistici di ogni singolo stato dell’Alleanza per appoggiare l’intervento militare rendono ancora più difficile la sua comprensione. Il titolo del paragrafo “la guerra per salvare la NATO” rende perfettamente l’idea degli interessi ben nascosti dietro lo scopo umanitario.
Le truppe NATO iniziano ad arrivare in Kosovo il 12 giugno e nei giorni successivi fino alla fine del mese circa 300 mila albanesi faranno ritorno in Kosovo dai paesi vicini dove erano fuggiti durante la guerra, dando vita al più grande contro-esodo della storia. Nello stesso periodo di tempo fuggono dal Kosovo almeno 165 mila serbi e circa 70 mila rom, tutto ciò in una atmosfera caotica con violenze, vendette, saccheggi, incendi e altre atrocità.
Kosovo dal 1999 ad oggi
Il Kosovo rimane Provincia autonoma all’interno della Federazione Jugoslava, insieme a Serbia e Montenegro, fino al 2007, quando dopo il definitivo scioglimento della Federazione Jugoslava, Ahtisaari propone ai leader di Belgrado e Pristina una bozza di risoluzione per l’avvio di un processo graduale di indipendenza e riconoscimento globale del Kosovo.
Questo progetto, sostenuto dagli Stati Uniti, viene bloccato in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dal veto della Russia che non appoggia una risoluzione che non sia accettabile sia per Belgrado sia per gli albanesi del Kosovo. L’anno successivo, non vedendo miglioramenti nei negoziati il neo eletto Presidente del Kosovo, ex capo dell’Uçk, Hashim Thaçi proclama unilateralmente l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia.
Tale dichiarazione è approvata dall’Assemblea del Kosovo con il voto di tutti i partecipanti, esclusi i serbi che boicottano il voto abbandonando l’aula. Il documento d’indipendenza segue la bozza di risoluzione di Ahtissari e prevede che il Kosovo non possa unirsi a nessun altro Stato, abbia capacità militare limitata, garantisca e protegga tutte le minoranze etniche e sia governato sotto la supervisione internazionale.
Attualmente il Kosovo è riconosciuto come Stato indipendente da 113 paesi dei 193 totali, non fa parte nè dell’ONU nè della NATO, a cui però ha fatto richiesta di adesione nel marzo del 2022 a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Fra i paesi che non hanno riconosciuto il Kosovo, oltre alla Serbia, c’è la Spagna la quale con questo riconoscimento teme di incoraggiare e indirettamente riconoscere anche le realtà indipendentiste presenti nel suo territorio (paesi baschi e Catalogna).
NOTE:
[1] Commissione arbitrale istituita dal Consiglio dei Ministri della Comunità Europea nel 1991 all’interno della
Conferenza per la ex-Jugoslavia.
[2] Per nuova si intende la Repubblica federale di Jugoslavia (non più Socialista come era quella del Maresciallo Tito) che comprende Serbia, Montenegro e Kosovo, nata formalmente alla fine del 1995 con gli accordi di Dayton, ma nella realtà dei fatti esistente già dal 1991 dopo l’indipendenza prima di Slovenia e Croazia.
[3] Cit. di Ivo H. Daalder, Consigliere della Casa Bianca per i Balcani, in “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, pp. 570-571.
[4] Cit. di James Rubin in “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, p. 571.
[5] Cit. R. Gelbard in “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, p.572.
[6] Cit. di Igor Ivanov, Ministro degli affari esteri russo dal 1998 al 2004, in “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J.
Pirjevec, p. 571.
[7] Cit. di H. Kissinger in “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, p. 591
[8] “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, p. 600.
[9] “Le guerre Jugoslave 1991-1999”, J. Pirjevec, p. 609.
[10] Nel 2008 Martti Ahtisaari riceverà il Premio Nobel per la pace “per i suoi importanti sforzi, in diversi continenti e per più di tre decenni, per risolvere i conflitti internazionali”.
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- J. Pirjevec, “Le guerre jugoslave 1991-1999”, Einaudi, 2014
- N. Malcom, “La storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri”, Bompiani, 1999