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Perché l’Etiopia? Origini e cause della guerra coloniale italiana
Il Corno d’Africa diventa ben presto, per la giovane monarchia italiana, l’unico spazio di manovra in campo coloniale, in un momento in cui l’imperialismo sta toccando il suo apice e l’Africa è quasi del tutto spartita fra le varie Potenze europee, con Francia e Gran Bretagna a fare la parte del leone.
Nel 1869 l’Italia acquista la baia di Assab, lungo la costa meridionale del Mar Rosso, ma ne entra in possesso solo nel 1882, mentre risale al 1889 l’avvio di una penetrazione in Somalia. Inevitabilmente, la presenza italiana in Africa orientale non può che entrare in contrasto con la resistenza dell’Impero d’Etiopia noto anche come Abissinia (dal nome del gruppo etnico dominante degli Habesha), retto allora dal negus neghesti (“re dei re”) Giovanni IV.
Alla morte di questi, nel 1889, prende però il potere Menelik II, più interessato a trovare un accordo con gli italiani, raggiunto attraverso il trattato di Uccialli, firmato tra l’Italia e l’Etiopia il 2 maggio 1889. Tale accordo genera ben presto un grave fraintendimento fra le due parti: l’Italia è infatti convinta di avere sopra l’Etiopia una sorta di protettorato, fatto che Menelik non è disposto ad accettare (1).
Nel 1895, Francesco Crispi, deciso una volta per tutte a stabilire il dominio italiano sull’Abissinia, dà inizio a una guerra coloniale che sfocia però in due disastri: il primo nella battaglia dell’Amba Alagi (7 dicembre 1895) il secondo, di proporzioni ben più vaste, nella battaglia di Adua (1 marzo 1896). Per l’Italia, Adua si trasforma ben presto in una catastrofe: Crispi si dimette, mettendo termine alla sua parabola politica, e nell’ottobre successivo viene firmato ad Addis Abeba un trattato con cui l’Italia riconosce l’indipendenza dell’Etiopia, rinunciando a ogni interferenza negli affari abissini, in cambio del riconoscimento del proprio dominio sull’Eritrea.
Negli anni successivi si assiste quindi a un progressivo disinteresse per le questioni coloniali in Africa orientale, specie da parte dell’opinione pubblica, mentre Menelik estende ulteriormente i suoi domini. Fino agli anni ’20 i rapporti tra Roma e Addis Abeba rimangono corretti ma pur sempre ambigui: i confini tra i domini italiani e quelli abissini non sono infatti ben definiti, mentre l’Italia continua l’opera di infiltrazione economica e commerciale nel paese africano.
Con l’ascesa del fascismo l’interesse per l’Etiopia rimane vivo, ma non viene intrapresa alcuna operazione concreta. Nonostante la retorica mussoliniana, che insiste a più riprese sulla necessità per l’Italia di ritagliarsi un “posto al sole” come presupposto per la rinascita di un nuovo impero “romano” e fascista, il regime opera in sostanziale continuità con i precedenti governi liberali e non interrompe la politica di amicizia con l’Abissinia. Nel 1923 essa viene ammessa alla Società delle Nazioni (SDN), proprio su insistenza italiana e contro il parere negativo della Gran Bretagna.
Solo a partire dagli anni ’30, dopo aver intrapreso e completato la riconquista della Tripolitania e della Cirenaica, Mussolini decide di risolvere definitivamente anche la questione abissina e inizia ad adoperarsi in tal senso.
Spesso la decisione di muovere guerra all’Etiopia (unico stato sovrano e indipendente in un’Africa interamente colonizzata) è stata letta, giustamente, come una scelta obbligata, non essendovi altri territori ancora “liberi”, e motivata da ragioni di carattere economico: l’Italia in sostanza ha bisogno di una grande colonia di popolamento, per dare sfogo alla sua emigrazione, e da cui ricavare ingenti risorse agricole e minerarie.
In realtà la scelta di aggredire l’Etiopia, un paese arido e povero, va letta più nell’ottica della politica di potenza di cui l’Italia fascista vuole farsi interprete, in un momento in cui si assiste alla rinascita della Germania e alla sostanziale inerzia di Francia e Gran Bretagna (2). È proprio in funzione antitedesca che Londra e Parigi cercano un’intesa con Roma: Benito Mussolini e Adolf Hitler non sono infatti in buoni rapporti, tutt’altro.
Nel 1934, quando il nuovo cancelliere tedesco dà il via a un colpo di stato nella vicina Austria, nel tentativo di annetterla alla Germania ( il cosiddetto Anschluss, che avverrà infine nel 1938), il Duce reagisce inviando diverse divisioni al Brennero, per scongiurare tale prospettiva. Nel frattempo la preparazione italiana in vista di un conflitto in Africa si fa sempre più massiccia e gli scontri di confine con gli etiopici sono sempre più frequenti, insieme alle dichiarazioni belliciste e ostili di Mussolini, mentre gli appelli del nuovo negus Hailé Selassié alla SDN cadono nel vuoto.
Tra il 1934 e il 1935, infatti, Italia, Francia e Gran Bretagna sembrano aver quasi raggiunto un’intesa per contenere la Germania: nel gennaio 1935, Mussolini incontra il ministro degli Esteri francese Pierre Laval, con cui firma degli accordi (noti proprio come accordi Mussolini-Laval), garantendosi in sostanza le mani libere in Africa Orientale; alla Conferenza di Stresa (aprile 1935) e in una successiva visita di Anthony Eden a Roma (maggio 1935), Mussolini si assicura il disinteresse britannico per l’Etiopia. Certo di non incorrere nella reazione delle due principali potenze coloniali, Mussolini è pronto a scatenare la sua guerra contro l’Etiopia, manca solo un pretesto.
Il casus belli viene individuato nel cosiddetto incidente di Ual Ual, avvenuto nel dicembre 1934, in una zona in cui il confine tra la Somalia italiana e l’Etiopia non è ben delineato: mentre è accampato presso Ual Ual, un contingente italo-somalo (composto perlopiù da irregolari dubat, lett. “turbanti bianchi”) viene attaccato da truppe abissine, facilmente respinte, ma la questione è ripresa a posteriori e ingigantita fino all’inverosimile. Per tutto il 1935 i tentativi di mediazione della SDN e le proteste del negus rimangono inascoltati: difatti mentre a parole difendono l’indipendenza abissina, Londra e Parigi trattano con Mussolini e lo lasciano libero di agire.
“Ti saluto, vado in Abissinia”(3): la mobilitazione italiana
Come si è visto, solo a partire dagli anni ’30 il regime inizia a occuparsi concretamente dell’Etiopia e decide di rilanciare le ambizioni italiane in Africa. Nel 1932, l’ambasciatore Raffaele Guariglia redige una lunga “Relazione sull’Etiopia” in cui sostanzialmente propone di porre fine a ogni politica di amicizia e di rafforzare le truppe in Eritrea e in Somalia in vista di una futura campagna militare. Mussolini, che vuole una guerra rapida e aggressiva, ma soprattutto una guerra “fascista”, incarica l’allora ministro delle Colonie Emilio de Bono (4) di allestire un piano d’invasione.
De Bono è uno dei fedelissimi di Mussolini fin dalla Marcia su Roma, ma inizialmente si mostra cauto, preoccupato soprattutto delle possibili reazioni internazionali. Nonostante ciò, cede infine alle pressioni del Duce e allestisce un piano molto approssimativo e superficiale, improntato nell’ottica di una guerra coloniale, contro un nemico debole che viene infatti ampiamente sottovalutato.
De Bono prevede una campagna condotta da circa 35.000 soldati italiani e 60.000 eritrei, contro non più di 200.000 abissini male armati e scarsamente motivati. Sono minimizzati inoltre costi e rischi, oltre alle gravi difficoltà logistiche che una guerra di questo tipo avrebbe comportato, in particolare la scarsa ricettività del porto di Massaua in Eritrea, l’insufficiente rete stradale e l’assenza di qualsiasi tipo di infrastruttura in Somalia.
Unico punto su cui De Bono centra il segno è quello che riguarda le eventuali reazioni internazionali: c’è bisogno di un accordo (che come abbiamo visto verrà in qualche modo, tacitamente, raggiunto nel 1935) con Francia e Gran Bretagna, pena il fallimento della guerra.
E’ a questo punto che si intromette l’esercito, geloso della sua autonomia in sede di operazioni militari. Il maresciallo Badoglio, in qualità di capo di stato maggiore generale dell’esercito, insiste affinché quella in Etiopia sia condotta come una vera e propria guerra “nazionale”, facendo affidamento su un’approfondita preparazione e una larga mobilitazione di uomini, mezzi e risorse.
Nel 1934, poco prima del già citato incidente di Ual Ual, si raggiunge un’intesa di massima circa il piano di guerra: le truppe nazionali vengono portate da 60 a 80.000, sempre appoggiate da circa 30-50.000 eritrei, e le operazioni vengono impostate con cautela. Si provvede inoltre ad ampliare le infrastrutture eritree e somale, in particolare il porto di Massaua e la rete stradale che dall’Eritrea conduce all’altopiano etiopico. Viene quindi data una grande rilevanza all’aeronautica, per cui si allestiscono dal nulla aeroporti, campi di volo, officine, per permettere a circa 400 aeroplani di operare in Africa orientale.
Il 30 dicembre 1934 Mussolini dirama un promemoria segreto in cui stabilisce l’ottobre del 1935 come data di inizio delle operazioni. Per rendere la campagna militare ancor più incisiva, il Duce dispone inoltre che le forze a disposizione vengano addirittura triplicate, senza badare a spese. Ora non resta a Mussolini che convincere l’opinione pubblica e gli italiani della necessità della guerra contro l’Abissinia.
Dopo Ual Ual, mentre si susseguono incessanti gli incontri diplomatici con Londra e Parigi, il Duce calca la mano sulla necessità, per l’Italia, di rifondare un suo impero, di conquistare una grande colonia, vendicando al contempo la disfatta di Adua e la propaganda inizia a lavorare alacremente. Vengono interpellati antropologi ed esperti di Africa, che spiegano agli italiani come gli abissini siano un popolo inferiore, da conquistare e civilizzare.
Si insiste soprattutto sulla questione della schiavitù, ancora in vigore in Etiopia, e si giustifica la guerra come un atto di civiltà (5). Grande enfasi è data poi alle magnifiche, quanto inesistenti, ricchezze dell’Etiopia, tali da giustificarne l’occupazione, vista come salutare per l’economia italiana.
Si tratta in fondo della solita retorica imperialista adottata dagli europei a partire dalle prime scoperte ed esplorazioni, ma la singolarità di questa linea di condotta sta nel fatto che nel 1935 essa è decisamente anacronistica e ipocrita: l’imperialismo è difatti in crisi, Francia e Gran Bretagna affrontano rivolte continue nei loro possedimenti, e l’Italia fascista, che ha sempre criticato aspramente l’imperialismo anglo-francese, ripropone ora lo stesso schema.
In realtà, Mussolini intraprese la guerra più per ragioni di prestigio, sia interno che estero, che non per fantomatiche quanto inverosimili spinte economiche o militari. Grazie al lavoro martellante della propaganda, che in quegli anni sforna decine di opere, riviste, canzoni, libri, sostanzialmente vi riesce. A guerra vinta il “genio” del Duce, sarà esaltato fino a raggiungere una sorta di apoteosi: nel maggio 1936, Mussolini raccoglierà il massimo del consenso fra gli italiani, come dimostrano non solo le acclamazioni delle folle festanti, ma anche gli elogi di tanti intellettuali.
Giovanni Gentile, ideologo del fascismo, afferma che il Duce 《ha creato una nuova Italia》, gli fanno eco Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi e Amintore Fanfani, futuro leader della Democrazia cristiana (DC) e capo del primo governo di centrosinistra, ma allora ancora convinto sostenitore del fascismo e dell’impero. Indro Montanelli, riferendosi al Duce dirà che egli è 《più di Cesare e più di Dio》, ma il più grande estimatore del Duce sarà Gabriele d’Annunzio, fin da subito in campo per sostenere l’impresa africana, il quale scrive a Mussolini una lettera colma di emozione in cui si dice certo della vittoria.
Il 18 dicembre 1935, per la cosiddetta “Giornata della Fede“, organizzata per raccogliere “oro per la Patria”, le cui finanze subiscono i colpi delle sanzioni, D’Annunzio arriva a donare le sue medaglie, fra cui la Military Cross ricevuta durante la Prima guerra mondiale e conia un motto “Teneo te Africa” divenuto poi il titolo della sua ultima grande opera letteraria prima della morte nel 1938 (6).
La mobilitazione del Paese in vista della guerra in Africa orientale e l’esaltazione del Duce, “ri-fondatore” dell’impero, rappresentano forse il più grande successo della propaganda fascista. Difatti questa non è più una guerra coloniale, ma una guerra nazionale, italiana e fascista e lo dimostra il fatto che il grosso delle truppe è costituito da soldati italiani a scapito degli àscari eritrei e somali, oltre alla massiccia partecipazione di volontari della MVSN (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), le celeberrime “camicie nere”. Il pretesto di Ual Ual viene ripreso e trasformato in un casus belli; Francia e Gran Bretagna vegetano, mentre le truppe italiane giungono ormai a migliaia in Eritrea e Somalia. Nell’ottobre del 1935 è ormai tutto pronto.
Guerra d’Etiopia: offensive e controffensive, da De Bono a Badoglio
De Bono giunge ad Asmara, in qualità di nuovo governatore dell’Eritrea nel gennaio 1935. In ottobre sotto il suo comando si trova un esercito imponente: 12.000 ufficiali e sottoufficiali, 100.000 militari italiani, oltre 50.000 àscari (dall’arabo “askari“, lett. “soldato”), 35.000 quadrupedi, 4200 mitragliatrici, 580 pezzi d’artiglieria di diverso calibro, 400 carri leggeri e oltre 3000 automezzi. A questi vanno aggiunti altri 25.000 italiani e 30.000 coloniali schierati in Somalia al comando del generale Rodolfo Graziani, governatore della Somalia (7). Nel frattempo altre truppe stavano arrivando.
Dall’altra parte il negus Hailé Selassié poteva contare su circa 250.000 uomini (secondo le stime italiane) armate di fucili moderni solo per un quarto e con scarsa preparazione militare, affiancati da 200 cannoni anticarro e antiaerei di piccolo calibro, fra cui 30 donati dalla Germania, come vendetta per l’invio delle truppe italiane al Brennero l’anno precedente. I vecchi capi militari abissini, i cosiddetti ras, non hanno alcuna preparazione militare, con rare eccezioni.
Lo stesso negus, nonostante la sua formazione moderna ed europea, è costretto a combattere una guerra sul modello tradizionale etiopico, ovvero basata su scontri campali, alla ricerca di battaglie risolutive. Unica unità moderna del suo esercito è la Guardia imperiale, costituita da alcuni battaglioni addestrati da ufficiali belgi (8).
Il 3 ottobre 1935, senza una dichiarazione di guerra formale, De Bono ordina ai tre corpi d’armata schierati lungo il confine con l’Etiopia di avanzare: sul fianco destro il II Corpo d’armata muove verso Adua, al centro il Corpo d’armata indigeno muove verso Enticciò, mentre a sinistra il I Corpo d’armata punta su Adigrat. Tutte le località vengono raggiunte in poco tempo senza incontrare resistenza da parte abissina, dal momento che Selassié ha previsto di lasciare agli italiani l’iniziativa e poi semmai contrattaccare. A questo punto però, De Bono decide di sospendere l’avanzata e consolidare le sue posizioni, scatenando l’ira del Duce che vuole subito un’avanzata rapida e incisiva.
Nel frattempo, il 10 ottobre, in sede internazionale, la Società delle Nazioni approva tutta una serie di sanzioni economiche contro l’Italia, condannata in qualità di stato aggressore. Si tratta in sostanza di un embargo su armi e munizioni (ma non sul petrolio o prodotti affini), oltre ad alcuni divieti di natura commerciale e finanziaria atti a penalizzare l’Italia, ma che nei fatti risultano ininfluenti.
Gli Stati Uniti ad esempio, non facendo parte della SDN, sono liberissimi di ignorare tali disposizioni, mentre Londra e Parigi, pur approvando le sanzioni in sede societaria, non fanno nulla per renderle effettivamente incisive. Unico risultato delle sanzioni fu quindi quello di dare a Mussolini un pretesto per scatenare una feroce battaglia propagandistica contro Francia e Gran Bretagna, e in generale contro la SDN, accusandole di mettere sotto assedio l’Italia e di volerle negare il suo posto al sole.
In Etiopia intanto, De Bono ha ripreso lentamente la sua offensiva: l’8 novembre gli italiani prendono Macallè (200 km dal confine eritreo) allungando di molto il fianco sinistro dello schieramento, mentre gli etiopici continuano a ripiegare. L’11 novembre Mussolini insiste affinché l’avanzata continui, ma De Bono si ferma ancora, non volendo esporre il fianco a eventuali contrattacchi. Il Duce non ne può più. Il 14 novembre il generale De Bono viene sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio (9), che già da tempo tramava per prendere il posto dell’ex quadrumviro.
Sostituire De Bono, che a differenza di Badoglio non riscuote grande successo fra gli ufficiali e i soldati, diventa anche una questione di prestigio. De Bono è difatti l’uomo di Mussolini e del partito e i suoi insuccessi sono gli insuccessi del fascismo, Badoglio, al contrario, è un uomo dell’esercito e della monarchia e in caso di fallimento è facilmente sacrificabile come capro espiatorio.
Assunto il comando in qualità di nuovo governatore dell’Eritrea, Badoglio è consapevole di non poter fare di più rispetto a quanto fatto dal suo predecessore e ordina di rinforzare il fronte e assicurare le linee di rifornimento. A differenza di De Bono, il maresciallo gode della fiducia dell’esercito, il che basta a frenare le assidue richieste di Mussolini per un’avanzata rapida e immediata.
Nel frattempo il negus decide che è il momento di lanciare un’imponente controffensiva nel Tembien. Il 14 dicembre, ras Immirù, cugino dell’imperatore, forse il miglior comandante abissino, passa con 20.000 uomini il Tacazzè, dove si è assestata l’avanzata italiana, e si lancia sul fianco destro dello schieramento nemico, il più debole e sguarnito, posto a difesa dell’impervia regione del Tembien. Dinnanzi ha alcuni battaglioni di Camicie Nere che vengono colti alla sprovvista e circondati.
I rinforzi inviati da Badoglio sono ben presto costretti a ripiegare sul campo trincerato di Adua-Axum, mentre le truppe di Immirù dilagano e riconquistano il Tembien meridionale, nonostante i copiosi bombardamenti portati avanti dall’aviazione italiana che sgancia sugli abissini anche bombe all’iprite.
Anche al centro dello schieramento gli italiani e gli eritrei sono costretti a ripiegare prima su Abbi Addi poi sul passo di Uarieu, dove riescono a trincerarsi. Nelle settimane successive l’inziativa rimane tutta nelle mani degli abissini che premono fortemente sulle linee italiane e Badoglio deve limitarsi a chiedere continui bombardamenti sul nemico.
Fiaccate dai bombardamenti (quelli col gas influiscono pesantemente sul morale) e prive di rifornimenti, le pur valorose truppe abissine iniziano però ben presto a dare segni di cedimento, mentre in sede internazionale Hailé Selassié viene abbandonato sia dalla Francia, la quale rallenta notevolmente l’afflusso di armi e materiali dal porto di Gibuti (collegato all’Etiopia dall’unica linea ferroviaria esistente nel paese), sia dall’Inghilterra che non chiude il canale di Suez, permettendo alle navi italiane, cariche di rinforzi, di giungere rapidamente in Africa Orientale attraverso il mar Rosso.
Le battaglie dell’Amba Aradam e del Tembien
Sul finire di gennaio, mentre gli attacchi etiopi contro le linee italiane si fanno più intensi, quasi disperati, Badoglio ordina una massiccia offensiva nel Tembien, ma già il 24 gennaio 1936, quella che è ricordata come la prima battaglia del Tembien si conclude con un nulla di fatto, con gli abissini che sono però ora costretti sulla difensiva.
Consolidate le linee logistiche, dopo aver concentrato un gran numero di forze a Macallè, il 10 febbraio 1936 Badoglio dà l’assalto al massiccio dell’Amba Aradam, un vasto altopiano su cui sono concentrati circa 40.000 abissini agli ordini di ras Mulughietà. Ben presto il I e il III Corpo d’armata (guidati dai generali Santini e Bastico) iniziano a manovrare intorno all’altopiano e danno inizio a un martellante bombardamento d’artiglieria (con oltre 20.000 colpi sparati, molti dei quali caricati con l’arsina, un altro aggressivo chimico).
Gli assalti con sciabole e moschetti degli abissini, sono tanto eroici quanto inutili, venendo facilmente respinti dal fuoco delle mitragliatrici italiane. Il 15 febbraio, nonostante l’ardua resistenza degli etiopici, i due corpi d’armata completano l’accerchiamento e si ricongiungono oltre l’Amba Aradam. L’armata abissina è in rotta e viene bersagliata dagli aerei italiani e dalle bande degli Azebo Galla, tribù passata al soldo degli invasori.
Proprio questo scontro pare essere l’origine un curioso episodio “linguistico”: dopo la guerra, infatti, la battaglia dell’Amba Aradam è stata ricordata dai reduci come caratterizzata da una grande confusione, provocata presumibilmente dai massicci bombardamenti e dai tradimenti di alcuni contingenti, che passarono più volte da uno schieramento all’altro. Amba Aradam, diventato “ambaradan” in seguito alla crasi delle due parole, nella lingua italiana ha quindi assunto il significato di “caos” o “gran confusione” (10).
La sconfitta dell’Amba Aradam costringe Selassié a muoversi dal suo quartier generale e a raggiungere Quoram dove inizia a raccogliere una grande armata in vista di uno scontro imponente. Badoglio a questo punto decide di spingere e passare all’offensiva su tutto il fronte: d’altro canto ha a disposizione quasi 300.000 uomini, ben riforniti ed equipaggiati, cui si oppone un esercito sull’orlo della catastrofe.
Va quindi in scena una seconda battaglia del Tembien in cui gli italiani, forti della loro superiorità, tentano di riproporre un’altra manovra a tenaglia per distruggere le armate dei ras Cassa e Sejum schierate sull’Amba Alagi. Il 29 febbraio 1936 anche questa battaglia ha termine, con buona parte delle due armate abissine rinchiuse in una sacca.
Nel frattempo, il II e il IV Corpo d’armata muovono nello Scirè, all’estrema destra dello schieramento, contro ras Immirù, che pochi mesi prima è dilagato fin quasi in Eritrea. Intuita la prospettiva di un ennesimo accerchiamento, Immirù ripiega, ma la sua armata è bersagliata dall’aviazione italiana che riversa sugli inermi abissini tonnellate di bombe esplosive, incendiarie e all’iprite. Lo Scirè è ben presto occupato, le armate dei ras sconfitte o decimate, a Badoglio ora non resta che battere il negus e vincere la guerra.
Il fronte somalo, Graziani in cerca di gloria
Scopo dell’armata schierata in Somalia agli ordini del generale Rodolfo Graziani è quello di fungere da diversivo, mentre il grosso delle operazioni si svolgono nel nord dell’Etiopia. Inoltre le aride distese quasi desertiche che si estendono tra Etiopia e Somalia, non si prestano ad essere attraversate senza un’adeguata componente meccanizzata, che garantisca rapidità nei movimenti e nei rifornimenti.
Nel novembre 1935 però, mentre a nord De Bono tentenna, Graziani decide di tentare alcune sortite offensive, risoltesi in un nulla di fatto, nonostante i proclami del generale. L’unico risultato di rilievo viene raggiunto fra il dicembre 1935 e il gennaio 1936, con la battaglia del Grande Doria, conclusa il 22 gennaio con la presa di Neghelli (oltre 300 km dal confine somalo) e la distruzione delle armate nemiche.
Seppur ben condotta e nonostante le esagerate manifestazioni di giubilo che tale vittoria provocò in Italia, essa si rivela strategicamente inutile, dal momento che il vero obiettivo di Graziani è Harar, all’estremità opposta del fronte.
Anche in Somalia l’aviazione gioca un ruolo di rilievo: i bombardamenti sono continui e decisivi, specie quelli condotti con bombe cariche di aggressivi chimici. I continui attacchi sferrati dal cielo durante l’intera campagna d’Etiopia provocano la reazione indignata della comunità internazionale, specie quando questi colpiscono in maniera indiscriminata i civili e le installazioni della Croce Rossa gestite dagli europei (perlopiù belgi, inglesi e svedesi) accorsi in Etiopia per dare manforte agli aggrediti, pur restando ufficialmente neutrali.
Gli attacchi sono così efferati che Mussolini deve correre ai ripari, invitando Graziani, che il 30 dicembre ha bombardato un ospedale da campo svedese, ad astenersi in futuro da altre azioni simili (11). La propaganda fascista al contrario spettacolarizza le azioni aeree dei piloti italiani in Africa orientale, fra cui si annoverano molti nomi noti e in vista del regime, in primis Galeazzo Ciano, genero del Duce, Alessandro Pavolini, importante gerarca, e i figli di Mussolini, membri della squadriglia aerea nota come “La Disperata“.
Solo a fine marzo, mentre nel nord sono ormai in corso le fasi finali del conflitto, Graziani riceve i tanto agognati mezzi motorizzati (si tratta di un centinaio di trattori con rimorchio, acquistati negli Stati Uniti) per lanciarsi all’attacco e andare in cerca di un successo considerevole: a metà aprile, spinto ad avanzare dal Duce stesso, Graziani lancia una grande offensiva aerea nell’Ogaden, seguita dall’avanzata di circa 40.000 uomini su colonne quasi completamente motorizzate.
Nonostante numerosi scontri, l’unico vero ostacolo che incontrano gli italiani è rappresentato dalla pioggia, mentre i circa 20.000 nemici vengono sbaragliati. Solo il 6 maggio, quando ormai Addis Abeba è già caduta, Harar viene raggiunta e occupata, mentre l’obiettivo finale dell’offensiva, Dire Daua (oltre 800 km dal confine somalo), cade l’8 maggio, poco prima dell’arrivo delle truppe inviate da nord da Badoglio.
Mai Ceu, la sconfitta del negus
Hailé Selassié (nato Tafari Maconnén) divenuto negus neghesti, ossia imperatore d’Etiopia, nel 1930, ha avviato fin dai tempi della sua reggenza negli anni ‘20, un profondo processo di modernizzazione e accentramento del potere imperiale, scontrandosi con il particolarismo dei ras e dei degiasmac (equiparabili a duchi e conti europei), oltre che con la pesante influenza del clero copto.
Consapevole che per poter sopravvivere in un’Africa interamente colonizzata dagli europei (con l’eccezione della sola Liberia, la quale ha però una storia particolare) bisogna rafforzarsi e legittimarsi agli occhi del mondo, il negus cerca in ogni modo di coltivare buoni rapporti con le Potenze europee e di non inimicarsi troppo l’Italia. Il paese è però ancora fortemente feudale e arretrato (lo testimonia la persistenza della schiavitù) e legato ai modelli tradizionali quando viene invaso dagli italiani nel 1935.
L’arretratezza dell’Etiopia e il suo carattere “barbaro” e “incivile” sono d’altronde usati come pretesto morale da parte del regime fascista per giustificare l’invasione del paese africano. Selassié, nonostante fosse un modernizzatore, diventa quindi bersaglio della più becera propaganda, specie in una serie di canzoni caratterizzate da una forte impronta razzista (12).
Aldilà degli insulti e della propaganda, è vero che questo forte attaccamento alla tradizione impone al negus di affidare la gestione della guerra alla nobiltà abissina, per poi scendere in campo egli stesso alla ricerca di uno scontro finale e risolutivo, anche quando altre scelte, magari meno eroiche, appaiono a posteriori più sensate. Perse le battaglie del Tembien, dell’Amba Aradam e dello Scirè, Hailé Selassié è costretto quindi a mettersi alla testa di un’armata e a lanciarsi contro gli italiani per cercare una vittoria o la morte sul campo di battaglia.
L’imperatore in persona organizza un grosso attacco per il 31 marzo 1936, giorno di San Giorgio, nella valle di Mai Ceu (100 km circa a sud di Macallé), potendo contare su circa 35.000 soldati. Dinnanzi ha circa 40.000 italo-eritrei verso i quali continuano però ad affluire sempre più rinforzi. Sul versante italiano, apprese le intenzioni del negus, Badoglio si sente sollevato: può finalmente distruggere l’ultima grande armata nemica e porre fine alla guerra. Come dichiara al Duce, è ormai certo della vittoria (13).
Nonostante la sicurezza del maresciallo Badoglio, quando all’alba del 31 marzo a Mai Ceu parte l’attacco abissino, in prima linea si trovano solo una divisione alpina (la “Pusteria”) e due divisioni eritree, messe ben presto a dura prova. Divise in tre scaglioni, le truppe etiopiche si lanciano all’assalto ripetutamente e vengono respinte a fatica. Il 1° aprile, mentre Achille Starace, il segretario del PNF entra a Gondar (500 km più a ovest), si ripete lo stesso copione, ma gli italiani resistono e nei giorni seguenti, giunti i rinforzi, possono passare al contrattacco.
Selassié si ritira, lasciando sul campo migliaia di caduti, ma la sua si trasforma ben presto in una rotta verso il lago Ascianghi (50 km più a sud) dove le lunghe colonne di dispersi abissini diventano un facile bersaglio per gli aerei italiani che compiono una vera carneficina. Il 15 aprile, mentre il negus è in fuga verso Addis Abeba, gli italiani entrano a Dessiè (200 km più a sud), praticamente a metà strada fra l’Eritrea e la capitale etiopica.
Le fasi finali della guerra d’Etiopia: la “marcia della ferrea volontà” e la conquista di Addis Abeba
Il 24 aprile, raccolti 20.000 uomini (10.000 nazionali e 10.000 eritrei), una squadra di carri L-3 e quasi 2.000 automezzi, Badoglio dirama l’ordine del giorno n. 572, con cui dispone una rapida avanzata in tre colonne su Addis Abeba, distante ben 400 km. Il nemico è stato ormai sbaragliato e l’unico ostacolo effettivo è rappresentato dall’assenza di una vera propria strada per raggiungere la capitale: vi è infatti solo una pista che si inerpica fra valichi e montagne alte fino a 3.000 m.
Mentre gli àscari vengono mandati in avanscoperta la colonna si arresta presso il passo del Termabér (meno di 200 km da Addis Abeba) dove gli etiopici hanno fatto saltare in aria la pista, creando una gigantesca voragine. Il 2 maggio Selassié abbandona in treno la capitale, diretto verso il Gibuti, dove si imbarcherà su incrociatore inglese che lo condurrà in esilio a Londra. Frattanto è ripresa la marcia italiana e il 4 maggio Badoglio giunge nell’antica capitale di Debre Berhan (130 km da Addis Abeba).
La capitale abissina è intanto sprofondata nel caos: il governo francese chiede a Mussolini di occuparla il prima possibile, dal momento che molti europei sono assediati da folle di rivoltosi presso la Legazione francese in città. Per la Francia, in prima linea nel votare le sanzioni, invocare ora l’aiuto degli italiani è un’umiliazione, e implicitamente dà ragione alla retorica razzista che dipinge gli abissini come un popolo di barbari.
Reparti eritrei giungono per primi fuori città, ma solo il 5 maggio, le truppe italiane entrano nella capitale in preda a devastazioni e saccheggi. La “marcia della ferrea volontà”, come l’aveva soprannominata Badoglio, è conclusa; la guerra è vinta, o almeno così vogliono far credere gli italiani. Badoglio telegrafa immediatamente al Duce comunicandogli il suo ingresso ad Addis Abeba, poi annota:
Questa grande impresa non ha precedenti nella storia militare coloniale […] la guerra è stata vinta rapidamente, per la nostra immensa superiorità morale, spirituale e culturale, per la schiacciante superiorità degli armamenti e di ogni altro mezzo (14).
Sulla superiorità militare schiacciante dimostrata nel corso della guerra Badoglio ha ragione. Le altre affermazioni invece, si commentano da sole: gli italiani non hanno lesinato ad usare i mezzi più brutali e abietti per battere un nemico sicuramente inferiore, ma che si è comunque battuto con valore. Il 7 maggio il Duce informa Badoglio di averlo appena nominato viceré della nuova Etiopia italiana, mentre Graziani, che nel frattempo ha raggiunto Harar e Dire Daua viene nominato “marchese di Neghelli”.
Il 9 maggio Mussolini proclama la riapparizione dell’impero sui “colli fatali” di Roma (15), un impero che Mussolini stesso definisce di “civiltà” e di “umanità”, mentre dà ordine di riportare l’ordine ad Addis Abeba attraverso rastrellamenti e fucilazioni sommarie, anticipando quello che sarebbe accaduto negli anni a seguire. La capitale è nel frattempo è sotto assedio: in attesa dei rinforzi, i 20.000 uomini giunti in città non bastano a tenerla sotto controllo.
D’altrocanto, nonostante le dichiarazioni ufficiali, la quasi totalità dell’Etiopia deve essere ancora conquistata e la guerra difatti non finisce nel maggio 1936, ma proseguirà ininterrottamente fino alla conquista inglese nel 1941. Ciò non impedisce a Badoglio di lasciare la città e tornare ad Asmara e poi in Italia, dove verrà accolto trionfalmente.
A succedergli, come governatore della nuova colonia sarà Rodolfo Graziani, il quale dimostrerà di essersi meritato il soprannome di “macellaio del Fezzan“, ottenuto in seguito alle feroci repressioni operate in Libia negli anni precedenti.
Conseguenze e costi della guerra d’Etiopia
Al momento dell’ingresso italiano ad Addis Abeba, con la proclamazione dell’impero il regime tocca l’apice del successo, ma è un successo pagato a caro prezzo. Le conseguenze sia nel breve che nel lungo periodo sono infatti pesantissime e il ritorno in termini economici, politici e militari è pressoché nullo.
Innanzitutto, sul piano internazionale, l’Italia guadagna l’ostilità (ormai manifesta) di Francia e Inghilterra, cosa che di lì a breve porterà Mussolini ad avvicinarsi sempre di più a Hitler; tutto questo nonostante l’inefficacia delle sanzioni che vengono difatti revocate nel luglio del 1936. Per non parlare poi del danno d’immagine provocato dall’uso dei gas asfissianti e dai bombardamenti sui civili e sulla Croce Rossa.
Sul versante politico ed economico, l’Etiopia non vale la quantità di uomini, mezzi, risorse e denaro investiti: è un paese sconfinato, estremamente povero, privo di qualsivoglia infrastruttura, impossibile da pacificare e da controllare interamente, insomma un gigantesco “boomerang”, specie se si considera la voragine finanziaria causata dalla guerra.
Da un punto di vista strettamente militare, infine, il conflitto lascia due strascichi importanti: da una parte svuota le riserve e i magazzini delle forze armate di materiali che poi non saranno reintegrati (contribuendo alle note carenze del Regio esercito durante l’incipiente guerra mondiale); in secondo luogo, la facile vittoria, ottenuta contro un nemico inferiore, male armato, privo di armi moderne, illude gli alti comandi italiani circa l’efficacia delle forze armate, che in fondo non necessitano di ulteriori modernizzazioni o adeguamenti. Lo stesso copione si ripeterà di lì a breve in Spagna, dove l’Italia interviene al fianco di Francisco Franco.
In conclusione, se è stato possibile battere gli abissini, lo si deve a un largo dispendio di uomini, risorse e denaro, ma all’immane sforzo bellico non corrisponde alcun risultato tangibile, mentre in patria si iniziano a sentire gli effetti dell’inflazione, causata dall’indebitamento e dalle sanzioni. L’opinione pubblica mondiale condanna l’Italia, che si ritrova isolata, mentre l’impero si rivela ben presto un artificio retorico privo di ogni utilità.
L’Africa orientale italiana (AOI) diventa ben presto un ginepraio, con rivolte ininterrotte che impediscono qualunque iniziativa concreta. Di contro gli italiani rispondono con feroci repressioni, massacri e deportazioni, fino al termine dell’avventura africana nel 1941, quando l’invasione britannica e i partigiani abissini liberano Addis Abeba permettendo il ritorno trionfale del negus Hailé Selassié che rimarrà sul trono fino al colpo di stato del 1974.
Italiani, brava gente: gas asfissianti e repressioni in Etiopia
Sull’impiego degli aggressivi chimici durante la guerra in Abissinia, in realtà, va fatta chiarezza: sul piano strettamente militare, l’uso di bombe caricate ad arsina o iprite, ha un effetto scarso quando non deleterio. Il loro impatto è invece politicamente e moralmente rilevante, poiché mette in evidenza tutto il disprezzo che gli italiani (e molti europei in generale) mostrano per un popolo africano, ritenuto inferiore di natura.
Quel che è certo è che in una guerra europea, mai Mussolini avrebbe autorizzato l’impiego dell’arma chimica, neppure Hitler sarebbe forse giunto a tanto. Tutti gli eserciti europei (e non solo quello italiano) infatti, hanno reparti chimici efficienti con grandi scorte di queste munizioni, teoricamente vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1925, che non vennero però mai impiegate, neppure in seguito.
Quello che fa specie in questo caso è l’uso disinvolto che l’Italia fa di tali armi, nonostante la presenza in Etiopia di numerosi osservatori internazionali, sinonimo, assieme alle feroci repressioni operate contro gli abissini, del profondo anacronismo dell’impresa in atto, in un momento in cui l’imperialismo e i suoi metodi brutali sono ormai in crisi in tutto il mondo e oggetto di critiche feroci.
Anche il trattamento riservato agli indigeni (che non è né più né meno duro di quanto fatto da inglesi, belgi, tedeschi e francesi nelle rispettive colonie) va letto in quest’ottica: difatti Badoglio e Graziani hanno appena concluso, nei primi anni ’30, la riconquista della Tripolitania e della Cirenaica, dove non hanno di certo brillato per umanità o clemenza, anzi.
La scarsa durata del dominio coloniale italiano, unito all’esito del secondo conflitto mondiale e ad alcune distorsioni storiografiche e culturali, fanno infine sì che al termine della guerra si diffonda il mito secondo cui quello italiano fu un colonialismo “buono”, contrapposto a quello feroce che aveva caratterizzato Francia e Gran Bretagna e alla violenza nazista durante la guerra mondiale.
È il mito secondo cui gli italiani sono “brava gente”, non massacrano i civili, come fanno invece i tedeschi, non compiono razzie, non uccidono se non è strettamente necessario. Un mito tanto falso quanto diffuso. Come dimostrato ampiamente da Angelo Del Boca in un suo celebre libro (16) e da altri studi, gli italiani, sia in campo coloniale, in Libia e in Africa orientale, sia poi durante la seconda guerra mondiale, si comportano esattamente come gli altri eserciti occupanti, non lesinando esecuzioni sommarie, deportazioni, rastrellamenti, razzie e violenze di ogni genere, senza tuttavia giungere mai a quel livello sistematico di stermini e violenze portato avanti dalla Germania nazista.
Note
(1) A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. 1, Mondadori, Milano, 1992, p. 349.
(2) G. Bocca, L’Italia fascista, Mondadori, Milano, 1973, pp. 79-81
(3) Dal titolo della famosa canzone “Ti saluto! (Vado in Abissinia)” composta in occasione della guerra d’Etiopia nel 1935.
(4) Emilio De Bono (1866-1944) ufficiale di lungo corso, nel 1922 è tra i cosiddetti “quadrumviri” della Marcia su Roma. E’ considerato uno dei fedelissimi di Mussolini, fino al 25 luglio del 1943, quando appoggerà l’ordine del giorno Grandi e la destituzione del Duce. Sarà quindi fucilato dopo il processo di Verona nel 1944. Si veda https://www.treccani.it/enciclopedia/emilio-de-bono_%28Dizionario-Biografico%29/
(5) Il tema della schiavitù è centrale nella retorica anti-etiopica: il massimo esempio è rappresentato dalla canzone “Faccetta nera“, divenuta uno dei simboli del regime fascista.
(6) Per i riferimenti al fervore intellettuale in occasione della guerra d’Etiopia si veda A. Del Boca, La guerra di Etiopia, Longanesi Milano, 2010, pp. 52-59.
(7) si veda G. Rochat, Le guerre italiane (1935-1943). Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp. 43-47.
(8) si veda A. Frediani, Le guerre dell’Italia unita, Newton&Compton, Roma, 1998, p. 52.
(9) Pietro Badoglio (1871-1956) è all’epoca il militare più alto in grado del Regio Esercito, dal momento che ricopre il ruolo di capo di stato maggiore, pur non detenendo alcun effettivo comando. Uomo di punta dell’esercito e del re, verrà esautorato nel 1940 e nel luglio 1943 sarà chiamato da Vittorio Emanuele III a sostituire Mussolini alla guida del governo. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Etiopia chiederà invano una sua condanna per crimini di guerra. Si veda https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-badoglio_(Dizionario-Biografico)
(10) Si veda https://www.treccani.it/vocabolario/ambaradan/#:~:text=ambarad%C3%A0n%20s.%20m.%20%5Betimo%20incerto%2C%20ma,caotica%2C%20baraonda%3A%20che%20a.
(11) A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. 2, Mondadori, Milano, 2009, pp. 505-506.
(12) Oltre alla celebre “Faccetta Nera“, vanno ricordate alcune canzonette razziste come “L’abissino vincerai“, “C’era una volta il negus” o “Povero Selassié“, in cui il negus viene deriso attraverso numerosi stereotipi.
(13) A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, vol. 2 op. cit., p. 614.
(14) A. Del Boca, La guerra di Etiopia, op. cit., p. 15.
(15) https://youtu.be/MP–YCyJ1UE
(16) A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
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- Del Boca Angelo, La guerra di Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, Longanesi, Milano, 2010.
- Del Boca Angelo, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
- Rochat Giorgio, Le guerre italiane (1935-1943). Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005.
- Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2017.