CONTENUTO
Un ritratto di Giuseppe Garibaldi
Chi è veramente Giuseppe Garibaldi? È l’eroe dei due mondi, il generalissimo che con le sue campagne militari, animato da spirito patriottico fattosi azione di guerra, unificò la Penisola? Oppure è semplicemente un uomo fortunato che seppe cavalcare l’onda della notorietà per impossessarsi di un ruolo non suo?
E se fosse semplicemente un uomo? Sarà lui a raccontarcelo (almeno in parte), attraverso testi tratti da Vita e memorie di Giuseppe Garibaldi, scritte da lui medesimo (Livorno 1860, L’Editori Santi Seraglini e Compagni) e da Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1836 – 1882 (Milano, Alfredo Brigola e Comp.).
I genitori di Garibaldi
«Nacqui a Nizza il 22 luglio 1807 (…) Ma, prima di parlare di me stesso, mi sia permesso di dire qualche parola dei miei eccellenti genitori, il cui onorevole carattere ed il loro amore per me ebbero tanta influenza sopra la mia educazione e disposizioni fisiche. Domenico Garibaldi, mio padre, nato a Chiavari, era figlio di marinaio e marinaio lui stesso (…) La sua educazione marittima era stata formata non in una scuola speciale, ma sopra i bastimenti del mio nonno. In quanto a mia madre, Rosa, lo dichiaro con orgoglio, era il modello delle donne. (…) Dio solo conosce le angosce che gli ha recato la mia carriera tutta azzardosa, e ciò perché Dio solo conosce l’immensità e la tenerezza che aveva per me»[1].
La giovinezza di Garibaldi
«Trascorsi i primi anni della giovinezza (…) amico più dei piaceri che del lavoro, del divertimento che dello studio, del quale non profittai come avrei dovuto farlo se fossi stato più saggio. (…) Nulla di straordinario avvenne nella mia giovinezza. Ero dotato di buon cuore, dono ricevuto da Dio e da mia madre. La mia vacazione era quella di percorre i mari.
Mio padre erasi opposto tanto quanto aveva potuto; il desiderio del brav’uomo era quello che io seguissi una pacifica carriera scevra da pericoli, come quella del prete, avvocato, o medico, ma la mia insistenza la vinse, il suo amore dovette piegare dinnanzi la mia giovanile ostinazione e m’imbarcai sul brigantino denominato Costanza. (…) O bella Costanza! primo bastimento sul quale io percorsi il mare. I robusti tuoi fianchi, l’alberatura alta e leggiera, lo spazioso ponte e coverta, tutto, infino al busto femminile sporgente sulla prua, resteranno per sempre incisi nella mia incancellabile memoria»[2].
L’amore per Anita
«Era dunque una donna di cui sentivo bisogno; solo una donna poteva dunque guarirmi; una donna, vale a dire l’unico rifugio, il solo angelo consolatore, la stella della tempesta. Una donna! È questa la divinità che mai s’implora invano, quando si fa col cuore, e soprattutto quando s’implora nella sventura. Era con questo incessante pensiero, che dalla mia cameretta a bordo dell’Itaparika, volgevo lo sguardo verso la terra. Il monte della Barra era molto vicino e a bordo io vedevo delle belle giovani occupate in diverse opere domestiche; una tra queste attirava la mia particolare attenzione. Mi venne ordinato di sbarcare, e subito m’incamminavo verso la casa sulla quale il mio sguardo era da molto rivolto; il mio cuore palpitava, ma rientrava in sé, benché agitato, una di quelle risoluzioni che non falliscono mai. “Vergine; tu sarai mia”. “La mia Anita”»[3].
Gli italiani? Ermafrodita generazione
«Amatissima Consorte, (…) scrivimi subito, ho bisogno di sapere di te, mia carissima Anita, dimmi l’impressione sentita agli avvenimenti (…). Tu donna forte e generosa! Con che disprezzo non guarderai questa ermafrodita generazione d’Italiani, questi miei paesani, ch’io ho cercato di nobilitare tante volte, e che sì poco lo meritavano. (…) Impunemente si può disonorare un individuo, ma non si disonora impunemente una nazione. (…) Scrivimi, ti ripeto, ho bisogno di sapere di te, di mia madre e dei bimbi; per me non affliggerti, io sono più che mai robusto; e co’ miei mille dugento armati, mi sembra di essere invincibile. Roma prende un aspetto imponente, attorno ad essa si raduneranno i generosi e Dio ci aiuterà! Io ti amo tanto tanto! E ti supplico di non affliggerti. Un bacio per me ai ragazzi, a mia madre, che ti raccomando tanto»[4].
Gl’Italiani? Patrioti
«Quando l’idea della Patria era in Italia la dote di pochi, si cospirava e si moriva. Ora si combatte, e si vince. I patrioti sono abbastanza numerosi da formare degli eserciti. (…) Io vi trovai pronti a seguirmi, ed ora vi chiamo a me tutti; affrettatevi alla generale rassegna di quell’esercito che esser deve la Nazione armata, per far libera ed una l’Italia; piaccia o no ai potenti della terra. (…). Italiani, il momento è supremo. Già nostri fratelli combattono lo straniero nel cuore d’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare assieme sulle venete terre».[5]
Pio IX? Ringraziamo la Provvidenza
«Le lodi (…), il fremito col quale l’Italia accoglie la convocazione dei deputati e vi applaude, le saggie concessioni accordate alla stampa, l’istituzione della guardia civile, l’impulso dato alla istruzione popolare ed all’industria, senza contare le innumerevoli cure, tutte dirette al miglioramento, al benessere delle classi povere ed alla formazione d’una nuova amministrazione, tutto infine ci convinse essere finalmente uscito dal seno della nostra Patria l’uomo, il quale, comprendendo i bisogni del suo secolo, aveva saputo, giusta i dettami della nostra augusta religione, sempre nuovi, sempre immortali, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi all’esigenza dei tempi. (…).
Noi che scriviamo, siamo coloro che sempre animati dalla stessa idea che ci fece affrontare l’esilio, abbiamo preso le armi a Montevideo, per una causa che ci sembrava giusta (…) noi dunque ed i nostri compagni (…) ci chiameremo felici se ci sarà dato di venire in aiuto dell’opera redentrice di Pio IX, e non crederemo di pagarla troppo cara versando tutto il nostro sangue. (…) Intanto noi ringraziamo la Provvidenza d’aver preservato Sua Santità dalle macchinazioni dei tristi e facciamo ardenti voti perché ella le accordi molti anni per la felicità del cristianesimo e dell’Italia»[6].
Pio IX? Il gran satana di Roma
«Il gran martire del Golgota è in protesta continua contro il gran satana di Roma. Il Vangelo di Cristo non ha nulla di comune col (…) papa»[7].
Un bilancio sulla figura di Garibaldi
Si è scritto tantissimo su Giuseppe Garibaldi. L’impresa più famosa del Generale, la Spedizione dei Mille, è raccontata con tanta retorica (troppa!). In fondo, non fu una vera guerra (l’Esercito borbonico, tranne sporadici casi, non oppose una vera e propria resistenza). L’impegno nella Seconda e nella Terza guerra d’indipendenza, invece, mostra realmente il suo valore militare: esse, infatti, furono veri e propri conflitti, combattuti contro un esercito organizzato, forte, composto di soldati stranieri (gli italiani del Veneto, infatti, venivano impiegati su altri fronti europei e mai contro i fratelli di lingua, per scongiurare il rischio della diserzione, cosa che fecero le guardie di finanza asburgiche dislocate sul confine lombardo, le quali passarono con i garibaldini). Esercito che aveva tutto l’interesse a combattere l’Armata sarda, poi italiana, in nome dell’Imperatore.
Ma ancor più interessante risulta il Garibaldi uomo: figlio, marito innamorato della sua Anita (un amore totale: «io ti amo tanto tanto! e ti supplico di non affliggerti») e politico. Con le sue fragilità, il suo essere contradittorio, come nel caso del giudizio su Pio IX, prima definito come uomo della Provvidenza (è grazie all’elezione al trono pontificio di Papa Mastai Ferretti e delle sue idee riformatrici che Garibaldi decide di rientrare in Italia da Montevideo), poi «gran satana di Roma»; come nel giudizio sugli italiani, considerati, prima, «ermafrodita generazione», poi, «patrioti»: perché, in fondo, anche gli uomini che vengono messi sugli altari (siano essi religiosi o laici) sono semplicemente tali, con pregi e difetti.
È questo che affascina di Giuseppe Garibaldi (padre della Patria unita, protagonista indiscusso del Risorgimento al pari di Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Pio IX) e che esce dalle sue memorie, dal suo epistolario: un uomo che si può anche non amare, addirittura osteggiare, ma che fu certamente coraggioso, valoroso, pure fortunato, e che visse sempre per l’ideale romantico della redenzione dei popoli, in primis quello italiano. Riuscendoci, almeno in parte.
Note:
[1] Vita e memorie di Giuseppe Garibaldi, scritte da lui medesimo (Livorno 1860, L’Editori Santi Seraglini e Compagni).
[2] Vita e memorie di Giuseppe Garibaldi, scritte da lui medesimo (Livorno 1860, L’Editori Santi Seraglini e Compagni).
[3] Vita e memorie di Giuseppe Garibaldi, scritte da lui medesimo (Livorno 1860, L’Editori Santi Seraglini e Compagni).
[4] Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1836 – 1882 (Milano, Alfredo Brigola e Comp.) pagine 28, 29 e 30, lettera alla moglie Anita, datata Subiaco, 19 aprile 1949.
[5] Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1836 – 1882 (Milano, Alfredo Brigola e Comp.) pagine 130 e 131, Proclama indirizzato ai Volontari, datato Napoli, 19 settembre 1860.
[6] Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1836 – 1882 (Milano, Alfredo Brigola e Comp.) pagine 10, 11 e 12, Lettera indirizzata al nunzio papale a Montevideo monsignor Bedini, datata Montevideo, 12 ottobre 1847.
[7] Epistolario di Giuseppe Garibaldi 1836 – 1882 (Milano, Alfredo Brigola e Comp.) pagine 266 e 267, Lettera indirizzata all’avvocato Santoni di Chieti, datata Caprera, 15 agosto 1865.
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- Giuseppe Garibaldi, Memorie autobiografiche, Giunti Editore, 2011.