CONTENUTO
di Ilenia Luongo
Origini e diffusione della fama di Giulia De Marco a Napoli
Roma, 12 luglio 1615, Santa Maria sopra Minerva: Giulia De Marco e i suoi due confessori spirituali, Giuseppe De Vicariis e Aniello Arciero, abiurano in seguito a numerose torture. Le accuse a cui è sottoposto il terzetto sono: eresia, finzione di santità e “disordine sessuale”.
La storia di Giulia De Marco, dimenticata a lungo, è stata riscoperta nell’ultimo Ottocento dallo storico Luigi Amabile, che ne parla nell’opera Il Sant’Officio della Inquisizione in Napoli. Tuttavia, il suo caso è stato banalizzato e ridotto per molto tempo a mera impostura, e la sua cricca di adepti descritta alla stregua di un lupanare. Solo studi recenti, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, hanno cercato di interpretare l’avvenimento in modo oggettivo.
Giulia nasce a Sepino, tra 1574 e 1575, in una famiglia decisamente umile. Il padre, bracciante, muore poco dopo; la madre è una schiava turca al servizio di una nobildonna spagnola, Beatriz de Tovar y Castro. Sin dai primi anni dell’adolescenza, Giulia lavora come domestica presso un mercante di Campobasso, ma alla morte dell’uomo si trasferisce a Napoli, dove prende l’abito di terziaria francescana.
È Napoli il luogo in cui ha inizio la sua ascesa. Apprezzata dai ceti più umili per le sue opere caritative e assistenziali, Giulia emerge come donna pia e carismatica, ma non solo: in poco tempo si propaga la voce delle sue eccezionali doti mistiche. Ha visioni, capacità profetiche e sperimenta fenomeni di estasi; la sua fama di santità cresce rapidamente presso tutti gli strati sociali, dal popolo, ai mercanti, ai vertici amministrativi.
La spiritualità femminile
Quello di Giulia De Marco non è né il primo, né l’ultimo caso di donne reputate sante quando ancora in vita, intorno alle quali si sviluppano culti locali. Già nel corso del Medioevo si erano distinte molte donne, perlopiù beghine e terziarie, per le loro doti mistiche.
La tradizione delle “sante vive”, invece, nasce presso le corti del tardo Quattrocento, quando principi e signori si dotano ciascuno della propria profetessa personale. La presenza di queste donne era funzionale alla protezione della città, a prevedere guerre e pestilenze e ad accrescere l’influenza interna dell’autorità, dato l’enorme seguito di cui tali sante godevano presso la popolazione locale.
Tale stagione, piuttosto rosea, termina con il Concilio di Trento (1545-1563) e la Controriforma. Il papato, indebolito dalla Riforma protestante, cerca di rinforzare il proprio controllo politico e culturale sul territorio, anche vietando qualsiasi forma di culto non autorizzato.
L’obiettivo è il controllo delle coscienze dei fedeli per sradicare l’eterodossia: la propaganda e la confessione ne diventano i principali strumenti. Le esperienze femminili di santità e misticismo vengono sottoposte allo stretto controllo di confessori e inquisitori.
Come già dal tardo medioevo, in questo controllo era centrale la pratica di discernimento degli spiriti (discretio spirituum), per valutare l’origine diabolica o divina dei fenomeni mistici, ma con differenze sostanziali rispetto al passato: la voce dei teologi e degli esorcisti, un tempo predominante, viene ora subordinata al giudizio di inquisitori e protomedici, nel tentativo di allontanare antiche credenze superstiziose ritenute deleterie.
In tale ottica diviene fondamentale il controllo del corpo femminile, in quanto il disordine sessuale era spesso ricollegato a priori all’eresia. La vita sessuale di una donna, a partire dalla fase prematrimoniale, è sottoposta a rigido disciplinamento.
“Pietà carnale” e anti-romanità
La descrizione sommaria del contesto sociale nell’Italia della Controriforma è utile per comprendere il modo in cui si è mossa la Chiesa nei confronti di Giulia De Marco. Ma cosa aveva di particolare la sua “falsa dottrina” (come poi è stata definita dalla propaganda teatina)?
Gli storici che si sono dedicati all’approfondimento di questa figura, oggi convengono quasi all’unanimità che le caratteristiche dell’eresia di suor Giulia avrebbero avuto una certa funzionalità rispetto agli interessi di membri-chiave dell’amministrazione che ne erano seguaci.
Anzitutto, il tratto più marcatamente anti-romano (ossia contrario alle politiche della Chiesa di Roma) della sua predicazione. Questo emerge dal protagonismo che, nel suo pensiero, assume il singolo fedele nel rapporto con Dio: un rapporto scevro da mediazioni ecclesiastiche e dunque libero, indipendente e diretto.
Nel contesto generale di un “braccio di ferro” tra il papato e tutti gli altri Stati e regni italici, sui quali il primo cercava di imporre la sua influenza, l’anti-romanità di Giulia diviene appetibile agli occhi dei viceré di Napoli, insofferente rispetto alle continue ingerenze di Roma. Nella fattispecie, ad amministrare il Regno di Napoli nel momento in cui la fama della De Marco raggiunge l’apice è lo spagnolo Conte di Lemos (1610-1616), autore di una serie di riforme interne, tanto finanziarie quanto culturali.
Lo spirito delle sue riforme culturali era strettamente condiviso anche dai Gesuiti, oltre che da un’importante fazione interna all’amministrazione; non sorprende, quindi, che tra gli accoliti di Giulia figurassero anche gli appartenenti all’Ordine fondato da Ignazio di Loyola.
Un secondo importante aspetto che caratterizza la dottrina di Giulia risiede nella centralità dell’atto sessuale, la cosiddetta deificazione, esaltata in quanto mezzo più autentico per raggiungere il divino. Da ciò derivano le descrizioni oscene degli incontri della setta eretica ad opera dei Teatini, i massimi detrattori della donna.
I Teatini, infatti, oltre ad essere impegnati in una strenua competizione con i Gesuiti per il controllo della vita religiosa a Napoli, si proponevano come autentici esecutori delle politiche controriformistiche della Chiesa di Roma: era doveroso, per loro, intervenire per sradicare il culto della De Marco, sempre più popolare e insidioso.
Studi come quelli condotti da Giovanni Romeo hanno smorzato l’enfasi posta sull’oscenità dell’eresia di suor Giulia, dimostrando come, da un lato, quello del disordine sessuale fosse un tratto proprio di molte eresie seicentesche e come, d’altro lato, la Chiesa codificasse una sociologia della devianza di cui la promiscuità era un elemento immancabile.
Il primo processo (1607-1608) a Giulia De Marco
Tra 1607 e 1608 viene eseguito il primo processo a carico della donna, con l’accusa di devianza religiosa. A spingere in questa direzione è il ministro delegato del Sant’Uffizio a Napoli, monsignor Deodato Gentile. Era cosciente di tutti i limiti del caso: il grande appoggio dei Gesuiti e dei regnanti la rendeva quasi intoccabile.
L’unica conseguenza reale del processo è la separazione di Giulia da Aniello Arciero, all’epoca suo unico confessore spirituale, per evitare la circolazione di voci scandalose sul loro ambiguo rapporto. Entrambi vengono risparmiati, ma, mentre Giulia è costretta alla clausura nel monastero di S. Antonio da Padova a Napoli, l’Arciero viene trattenuto a Roma, presso il convento della Maddalena.
All’isolamento della donna, breve e inutile, segue il suo spostamento prima nel monastero di Cerreto Sannita nel 1610, poi in quello di S. Chiara di Nocera, finché nel 1611 il Santo Uffizio le concede di rientrare a Napoli, dove viene accolta con grandi festeggiamenti.
Un manoscritto di un teatino ignoto dell’epoca, prima fonte sulla vicenda, Istoria di suor G. di M. e della falsa dottrina insegnata da lei, dal p. Aniello Arciero e da Giuseppe de Vicariis , riporta che “era tanto divulgata la sua santità che quando si partì da Nocera furono in questa città sonate le campane e tutto il popolo se l’ingenocchiava per pigliare la sua benedizione, conforme si fa al papa in Roma”.
Al rientro in città, la sua fama raggiunge l’apice. Trascorre una prima fase presso il monastero di Donna Regina, dove intrattiene scambi con personalità della corte del viceré; riceve visite da parte della viceregina due volte al mese e viene omaggiata di doni munifici.
Dopo il 1611 entra in contatto con un nobile decaduto, l’avvocato Giuseppe de Vicariis, che si unisce al duo De Marco-Arciero, ormai ricongiunti. In seguito, viene trasferita presso la dimora del reggente del Collaterale, Alfonso Suarez. Quella per la De Marco diventa una vera “ossessione religiosa”. La storica Elisa Novi Chavarria, nel saggio Monache e gentildonne, riporta che:
“Nel cenacolo, che quotidianamente si riuniva nella sua casa, Giulia predicava, dettava lettere e qualche breve trattato spirituale trascritti dai suoi collaboratori e collaboratrici, dispensava consigli, chiarimenti dottrinali e profezie. La stima accordatale dal Viceré era tale che si diceva fosse diventata sua assoluta padrona “.
Il secondo processo e la condanna (1614-1615) di Giulia De Marco
L’anno della svolta è il 1614, che segna l’inizio del declino di suor Giulia De Marco. Tre padri teatini (Andrea Castaldo, Benedetto Mandina e Marco Parascandolo) riescono ad infiltrarsi tra i suoi seguaci e ad ottenere informazioni utili da parte di tre ex penitenti della donna, grazie ai quali rafforzano le prove sottostanti all’accusa di eresia.
Sono i tre testimoni, infatti, a confessare le teorie antiromane e sessuali della donna. In tal modo i Teatini possono, con maggior forza rispetto al 1607, ad indire un nuovo processo e tacciare definitivamente di devianza il terzetto, oltre che smascherarne le pratiche oscene.
Ancora una volta, però, il maggiore ostacolo è rappresentato dal Lemos e dai protettori di suor Giulia, che ne frattempo vengono messi a conoscenza delle trame ordite dai Teatini. Il “partito del Lemos” cerca, quindi, di penetrare nel segreto dell’istruttoria per scoprire l’identità dei tre “traditori” ed esercitare pressioni contro di loro. Ha così inizio un gioco di reciproche paure, tensioni e accuse, un vero scontro di potere tra Teatini e Gesuiti, tra Roma e Regno di Napoli.
Fa capo ad ambo le parti il ricorso a scorrettezze e ad ambiguità procedurali, fino al punto di non ritorno: il Viceré si espone tanto da minacciare i Teatini di espulsione dal Regno. Proprio in quel momento, gli eventi precipitano a loro favore: Giuseppe de Vicariis e Aniello Arciero vengono arrestati; Giulia, invece, viene rapita una notte del settembre 1614 da alcuni banditi, prelevata dalla sua dimora e mandata sotto scorta a Roma, costretta a marciare a piedi.
Napoli non rimane inerme: segue una sollevazione generale. Molti devoti si recano personalmente a Roma per rivendicare l’autentica pietà della donna e finiscono per essere anch’essi imprigionati – salvo poi essere liberati, previo pagamento di 3000 scudi ciascuno.
La cattura definitiva di Giulia raffredda gli impulsi dei viceré; risulta ora troppo rischioso per la loro immagine spingersi oltre e contro un vero e proprio colpo di mano dell’Inquisizione, da cui erano state ricevute minacce. Eventuali scandali avrebbero severamente compromesso la viceregina e parte dell’aristocrazia napoletana. Ad influire è anche l’interessamento dello stesso papa, Paolo V (1605-1621), che aveva indotto il Lemos ed il suo entourage a desistere da qualsiasi tentativo ulteriore di intromissione. La faccenda viene così definitivamente rimessa al personale ecclesiastico.
Il processo si conclude con la sentenza di condanna a carico del terzetto, emessa il 9 luglio del 1615; il successivo 12 luglio i tre condannati pronunciano l’abiura a Roma, presso la chiesa di Santa Maria sopra Minerva. In seguito, vengono deportati e rinchiusi nelle carceri di Castel Sant’Angelo e costretti ad una vita di penitenza.
Al momento dell’abiura, Giulia aveva quarant’anni. Le ultime notizie di lei risalgono al 1652, anno in cui proseguiva la sua reclusione. Non se ne conosce la data precisa della morte.
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- Adelisa Malena, L’eresia dei perfetti: inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano, Edizioni di storia e letteratura, 2003.
- Marilena Modica, Infetta dottrina: inquisizione e quietismo nel Seicento, Viella, 2009.
- Elisa Novi Chavarria, Monache e gentildonne: un labile confine. Poteri politici e identità religiosa nei monasteri napoletani sec. XVI-XVII, FrancoAngeli, 2001.
- Giovanni Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Laterza, 2008.
- Paola Zito, Giulia e l’Inquisitore. Simulazione di santità e misticismo nella Napoli del primo Seicento, Arte tipografica, 2000.