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L’elezione di Giovanni Paolo II e la Ostpolitik della Santa Sede
Il 16 ottobre 1978 i cardinali della Chiesa cattolica – tornati a riunirsi in Conclave a soli due mesi dall’elezione di Giovanni Paolo I, morto dopo appena 33 giorni di pontificato – scelgono per la Cattedra di Pietro il polacco Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, che vorrà omaggiare il predecessore continuandone l’inedito nome pontificale e scegliendo quindi di chiamarsi Giovanni Paolo II.
L’elezione di Wojtyla presenta, fin dall’inizio, diversi caratteri di eccezionalità: innanzitutto si tratta di un religioso di nazionalità non italiana, il primo da 455 anni: per risalire ad un precedente è necessario arrivare, infatti, all’elezione dell’olandese Adriano VI nel 1522; in secondo luogo, con i suoi 58 anni il nuovo pontefice è sensibilmente più giovane dei suoi immediati predecessori all’età dell’elezione; da ultimo, ma non meno importante, il nuovo papa proviene dai cosidetti territori di “oltrecortina”, espressione con cui si faceva riferimento ai paesi del blocco sovietico di cui la Polonia faceva parte: una simile scelta, dunque, non può non avere significativi risvolti politici.
A quanto si apprende, la notizia dell’elezione dell’arcivescovo di Cracovia suscita sentimenti ambivalenti nelle classi dirigenti polacca e sovietica, ambivalenza che caratterizzerà in generale i rapporti tra Giovanni Paolo II e la galassia comunista: se da un lato i governanti polacchi non possono restare del tutto indifferenti ai possibili risvolti positivi in termini di prestigio e notorietà per la loro nazione, dall’altro è tanta la preoccupazione, espressa soprattutto da Mosca, che sotto la guida di un papa evidentemente interessato da questi problemi in modo molto diretto e personale la Santa Sede assuma un atteggiamento assai più intransigente ed ostile nei confronti dell’Unione sovietica e del socialismo reale.
Bisogna dire che nei decenni precedenti la politica della Santa Sede nei confronti dell’URSS e dei suoi Stati satelliti era andata verso una progressiva maggior apertura dai tempi dell’anticomunismo rigoroso e militante di Pio XII, che ancora nel secondo dopoguerra non escludeva del tutto – pur senza aver mai espresso alcun auspicio a riguardo – un confronto militare tra URSS e Occidente che paragonava allo scontro di civiltà tra mondo cristiano e mondo islamico che, secondo alcune letture, si sarebbe giocato durante la battaglia di Lepanto del 1532.
Giovanni XXIII, eletto al soglio di Pietro nel 1958, aveva optato per una linea più morbida che potesse sfruttare gli spazi esistenti di dialogo e mediazione, soprattutto per tutelare le comunità cristiane dei paesi del blocco orientale dalla repressione, a tratti sanguinosa e persecutoria, da parte dei regimi: il grande artefice di quest’azione diplomatica, che prende il nome di Ostpolitik (Politica rivolta a est) e che dopo la morte di Roncalli sarà di fatto portata avanti anche dal successore Paolo VI, è senz’altro il cardinale emiliano Agostino Casaroli, storico esponente della Curia romana e Segretario di Stato sia sotto Montini che sotto Wojtyla dal 1979 al 1990.
In generale si può dire che l’opera di dialogo con il mondo comunista si era, fino ad allora, dimostrata molto faticosa; in particolare, era evidente la netta separazione tra le interlocuzioni sulle grandi questioni di politica internazionale, cui i sovietici si dimostravano abbastanza disponibili, e quelle sulla politica religiosa all’interno dell’URSS, cui la dirigenza moscovita era rigidamente chiusa e che invece suscitava maggior interesse nei governi delle Repubbliche popolari dell’Europa dell’est (Polonia, Romania, Ungheria ecc.), pur con risultati nel complesso molto modesti.
In questo contesto avviene dunque l’elezione di Wojtyla, che tuttavia non rivoluziona l’atteggiamento della Santa Sede verso est come da molti immaginato: il nuovo pontefice infatti, consapevole della propria scarsa esperienza delle forme e delle prassi della diplomazia, conferma nel suo ruolo Casaroli, che può così proseguire la sua opera di contatti e mediazione istituzionale; essa viene affiancata, però, da una particolare diplomazia “personale” di Giovanni Paolo II, che ne riflette più direttamente gli orientamenti.
La visione dei fenomeni internazionali del papa polacco, infatti, si distingue per una speciale attenzione riservata ai popoli e, in forma più articolata, alle Nazioni anche a scapito del ruolo attribuito agli Stati sovrani e ai governi, cui pure non manca di riconoscere cruciale importanza.
Un altro elemento, poi, connota di particolarità l’approccio di Wojtyla ai problemi globali: a differenza di molti osservatori dell’epoca, nonché del suo predecessore Paolo VI e di diversi esponenti della Segreteria di Stato, egli non ritiene immutabile l’ordine internazionale fondato sul bipolarismo USA-URSS e, avendone sperimentato dall’interno le debolezze e le contraddizioni, non esclude affatto un collasso del sistema sovietico in tempi relativamente brevi che possa imprimere un andamento radicalmente diverso al corso della storia mondiale.
Lungi dal voler semplicemente perseguire un modus vivendi che cerchi di adattarsi ad uno status quo impossibile da scalfire, dunque, Wojtyla ritiene che sia possibile e necessario agire per alterare l’equilibrio del blocco sovietico, sfruttarne le fragilità e aprire la strada a nuove prospettive.
Componente particolarmente rilevante dell’opera di Giovanni Paolo II in questo senso – vista anche la natura della sua carica, che è senz’altro politica ma anzitutto spirituale – è l’enfasi posta sulla necessità di risvegliare e motivare le energie ideali, civili e religiose che, seppur sottotraccia, non avevano smesso di percorrere le società dell’est europeo neanche sotto l’autoritarismo comunista.
L’esperienza polacca era in questo di grande esempio: la Chiesa cattolica, sotto la guida del carismatico primate Stefan Wyszyński (figura centrale nella formazione dello stesso Wojtyla), era sempre stata una presenza forte e attiva nel paese, poteva contare su un amplissimo radicamento nella popolazione e si era accreditata come interlocutore “obbligato” nei confronti del governo socialista, che pure contrastava con un vigore ancora maggiore rispetto alla Santa Sede contribuendo a differenziare parzialmente la posizione di Wyszyński da quella di Casaroli.
In ogni caso, la sottovalutazione della valenza del sentimento religioso da parte delle autorità sovietiche è un elemento degno di nota: influenzati anche dalla visione materialista del marxismo, infatti, i governanti del patto di Varsavia ritenevano la religione un elemento puramente rituale, legato al culto, alla tradizione e tutt’al più politicamente reazionario, senz’altro incapace di produrre spinte in direzione di un’inquietudine sociale o di un vero e proprio rinnovamento.
La consapevolezza della vitalità di idee e spirito che, nonostante l’autoritarismo politico-ideologico, caratterizzava le società dell’Europa orientale non mancava invece a Wojtyla, che l’aveva sperimentata e sostenuta in prima persona durante il suo ministero in Polonia e intendeva ora cercare di massimizzarne gli effetti dalla sua nuova posizione alla guida della Chiesa universale.
Giovanni Paolo II e il comunismo: i viaggi in Polonia
Esemplificativo del costante perseguimento di quest’obiettivo da parte di Giovanni Paolo II è quanto da lui detto nel suo primo viaggio papale in Polonia nel giugno 1979, l’anno dopo la sua elezione. Nelle diverse tappe dei dieci giorni di visita nella sua terra natale, che rappresenta un momento di grande valenza storica, Wojtyla tiene diversi discorsi in cui insiste sull’importanza dell’identità, delle tradizioni, del patrimonio di cultura, valori e ideali di un popolo anche al di là dell’organizzazione statale, nonché sulla necessità per ciascuno di riflettere su sé stesso, sull’uomo in generale e sulla società in cui vive.
Tali temi, affrontati in modo abbastanza diretto e anche con alcuni riferimenti (assai misurati) di natura politica, ricorrono in diversi momenti nel corso della visita. Nell’incontro con i membri del governo polacco il pontefice valorizza il ruolo della cultura cattolica nella storia del paese, sostenendo che:
Stabilendo un contatto religioso con l’uomo, la Chiesa lo consolida nei suoi naturali legami sociali. La storia della Polonia ha confermato in modo eminente che la Chiesa nella nostra Patria ha sempre cercato, per varie vie, di educare figli e figlie validi per la nazione, buoni cittadini e lavoratori utili e creativi nei diversi campi della vita sociale, professionale, culturale. E ciò deriva dalla fondamentale missione della Chiesa che dappertutto e sempre ambisce a rendere l’uomo migliore, più cosciente della sua dignità, più dedito nella sua vita agli impegni familiari, sociali, professionali, patriottici. A rendere l’uomo più fiducioso, più coraggioso, consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri, socialmente responsabile, creativo ed utile.
In altre occasioni Wojtyla si rivolge direttamente ai cittadini, cui viene eccezionalmente concesso di riunirsi in eventi di piazza, veicolando un messaggio più netto con il velato invito ad andare oltre la rappresentazione socialista del mondo, dell’uomo e della società e valorizzando – come tipico del pensiero di Giovanni Paolo II – la Nazione quale entità spirituale. Simili riferimenti si possono trovare nell’omelia pronunciata il 2 giugno a Varsavia e poi nel discorso rivolto agli studenti universitari di Cracovia:
Se è giusto capire la storia della nazione attraverso l’uomo, ogni uomo di questa nazione, allora contemporaneamente non si può comprendere l’uomo al di fuori di questa comunità che è la nazione. È naturale che essa non sia l’unica comunità, tuttavia è una comunità particolare, forse la più intimamente legata alla famiglia, la più importante per la storia spirituale dell’uomo. Non è quindi possibile capire senza Cristo la storia della Nazione polacca – di questa grande millenaria comunità – che così profondamente decide di me e di ognuno di noi. Se rifiutiamo questa chiave alla comprensione della nostra Nazione, ci esponiamo ad un equivoco sostanziale. Non comprendiamo più noi stessi.
(Santa Messa nella piazza della Vittoria di Varsavia, 2 giugno 1979)[…] la Croce per noi è diventata suprema Cattedra della verità di Dio e dell’uomo. Tutti dobbiamo essere alunni – “in corso o fuori corso” – di questa Cattedra. Allora comprenderemo che la Croce è anche la culla dell’uomo nuovo. Coloro che sono suoi allievi guardano così la vita, così la percepiscono. E così insegnano agli altri. […]. Tante volte si è affermato – come sostenevano per esempio i seguaci di Epicuro nei tempi antichi e come fanno nella nostra epoca per altri motivi alcuni seguaci di Marx – che tale concetto della vita distoglie l’uomo dalla realtà temporale, che in un certo modo la annulla. La verità è ben altra. Solo tale concezione della vita dà la piena importanza a tutti i problemi della realtà temporale. Essa apre la possibilità della loro piena collocazione nell’esistenza dell’uomo. E una cosa è sicura: tale concezione della vita non permette di chiudere l’uomo nelle cose temporali, non permette di subordinarlo completamente ad esse. Decide della sua libertà.
(Discorso agli studenti universitari di Cracovia, 8 giugno 1979)
Pur senza espliciti rimandi alla politica nazionale e men che meno inviti ad opporsi al governo, è abbastanza evidente che si tratta di esternazioni forti e che propongono una visione nel complesso assai divergente dal marxismo di regime.
Dopo il 1979 Giovanni Paolo II visita la Polonia in due altre occasioni prima della crisi del blocco orientale, nel 1983 e nel 1987. Famoso è il discorso che durante il viaggio dell’83 – che si svolge in un momento di alta tensione nel paese, sotto la dittatura militare di Wojciech Jaruzelski – egli rivolge ad una folla di giovani parlando dalla finestra dell’Arcivescovado di Cracovia, da cui emergono toni di critica politica più marcati rispetto a sei anni prima.
In particolare, il papa esprime «una enorme preoccupazione» per i giovani polacchi, che dovrebbero avere le stesse opportunità dei loro coetanei in altre parti del mondo di vivere la «dimensione dell’umanità» della loro gioventù esprimendosi «per mezzo della verità e dell’amore»; durante la stessa visita Wojtyla rivolge un appello per la nazione polacca presso il santuario della Madonna di Czestochowa, cui è molto devoto, da cui traspare ulteriormente la sua inquietudine per la situazione socio-politica della sua terra natìa.
È significativo riportare che nell’autorevole biografia di Giovanni Paolo II scritta da Andrea Riccardi viene riportata una certa preoccupazione del cardinale Casaroli rispetto a queste esternazioni; mentre il papa parlava ai giovani a Cracovia, infatti, il Segretario di Stato avrebbe sussurrato a chi si trovava vicino a lui: «Ma cosa vuole? Uno spargimento di sangue? O vuole la guerra? Oppure vuole rovesciare il governo? Ogni giorno io devo spiegare alle autorità che non è così»[1].
Questo episodio, del resto, fa il paio con quanto lo stesso Casaroli avrebbe detto al Segretario di Stato statunitense George Schultz in un incontro tenutosi nel 1982: in quell’occasione, riportando agli americani le posizioni del pontefice nei confronti del blocco comunista egli effettivamente afferma che «la Polonia […] può rappresentare un banco di prova di rilevanza storica, per portare un’incrinatura nel sistema di dominazione sovietica»[2].
Il sindacato Solidarność e il percorso verso la disgregazione del blocco sovietico
L’influenza che l’elezione e la predicazione di Giovanni Paolo II hanno avuto sulla società polacca è senz’altro tra gli elementi che portano alla nascita, il 14 agosto 1980, del primo sindacato libero del paese, che prende il nome di Solidarność (Solidarietà).
La costituzione di un’organizzazione dei lavoratori indipendente dal Partito Comunista prende le mosse dalle proteste operaie ai cantieri navali di Danzica, per poi evolversi in forma di protesta più generalizzata contro il regime sotto la guida di Lech Walesa, che dopo la democratizzazione del paese verrà eletto Presidente della Repubblica nel 1990.
L’orientamento cattolico del movimento è evidente, così come il ruolo di ispiratore attribuito a Wojtyla: le manifestazioni di Solidarność si caratterizzano infatti per la non violenza, e si sostanziano in particolare di occupazioni delle fabbriche in cui viene impedito l’accesso alle autorità e sui cui cancelli vengono appese immagini religiose, mentre vengono diffuse le immagini della massiccia partecipazione degli operai alla celebrazione della messa nei locali occupati.
Tale comportamento rende peraltro difficile alle autorità intervenire con la violenza, in assenza di veri e propri disordini pubblici, e si riesce anche ad evitare un ventilato intervento diretto da Mosca; dopo un periodo di negoziato il governo riconosce dunque come legittima associazione Solidarność, che tuttavia torna ad operare in clandestinità l’anno successivo quando nel dicembre 1981 in Polonia viene imposta le legge marziale con il colpo di Stato che porta al potere Wojciech Jaruzelski.
Il movimento continua comunque ad avere grande presa sulle masse, sfruttando in particolare quel diffuso sostrato sociale di solida fede cattolica che lo stesso Giovanni Paolo II considerava di primaria importanza nel disgregare dall’interno la cortina di ferro. Non stupisce, dunque, il pubblico appoggio del pontefice a Solidarność: nel 1981 il papa riceve in Vaticano una delegazione dell’organizzazione guidata da Walesa, esprimendo la propria gioia per l’esito delle «memorabili settimane dell’agosto» (riferendosi evidentemente alle manifestazioni di Danzica dell’agosto 1980) che ha portato alla nascita e al pubblico riconoscimento del sindacato libero, che può quindi dedicarsi all’«attività che le spetta» di difesa e promozione della dignità della persona umana e del bene comune attraverso gli strumenti del lavoro.
Pur in presenza di diversi passaggi che hanno il chiaro intento di mitigare la portata politica dell’incontro («lo sforzo delle settimane di autunno non fu rivolto contro nessuno»; «l’attività dei sindacati non ha carattere politico»), anche in quest’occasione emerge con chiarezza la sollecitazione di Wojtyla a costruire e coltivare una visione del mondo differente da quella attorno alla quale era irreggimentata la vita pubblica in Polonia. Al di là dell’appoggio morale, Solidarność ha poi certamente beneficiato di un concreto supporto materiale ed organizzativo dal Vaticano tramite le molte attività caritative che l’episcopato polacco conduceva nel paese.
In questo contesto di sommovimento sociale e religioso in Polonia sono da inserire i fattori sistemici che più notoriamente portano al collasso del blocco orientale prima e dell’Unione Sovietica stessa poi.
Nel 1985 Michail Gorbaciov viene eletto alla guida dell’URSS e, consapevole dell’indispensabilità di riforme radicali per la sopravvivenza stessa del socialismo reale, inaugura le politiche di perestroika (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza) a favore di una parziale liberalizzazione economica e sociopolitica.
Anche nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia il controllo si ammorbidisce e viene abbandonata la nota Dottrina Breznev: l’URSS si propone quindi di non intervenire più, né politicamente né tantomeno militarmente, negli affari interni degli Stati satelliti a garanzia dello status quo dei regimi autoritari, che anzi vengono invitati ad intraprendere anch’essi azioni riformiste.
La Polonia è tra i primi paesi ad avviare un percorso di liberalizzazione, che prevede anche il ripristino della piena legalità di Solidarność e l’indizione di elezioni parlamentari per il 4 giugno 1989, in cui il sindacato indipendente conquista la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e il Partito Comunista ottiene, invece, un pessimo risultato. Alla Polonia segue l’Ungheria, che riaprendo i suoi confini provoca un esodo di migranti verso la Germania ovest.
La ritrovata libertà di movimento e il tumultuoso susseguirsi di eventi in direzione di progressive aperture ha conseguenze a cascata in tutto il blocco orientale: dalle proteste popolari in Germania est ha inizio la celebre distruzione del muro di Berlino, simbolo dal 1961 dell’impenetrabilità dei due mondi, seguita negli anni successivi dalle dichiarazioni di indipendenza delle Repubbliche Baltiche e dalle complesse vicende politiche che recideranno completamente i vincoli del Patto di Varsavia e al termine delle quali il 26 dicembre 1991 verrà sancito l’ufficiale e definitivo tramonto dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Il maggior contributo di Wojtyla: la leva dello spirito e delle idee
Nel suo ultimo libro Memoria e identità, pubblicato nel 2005 pochi mesi prima della sua morte, Giovanni Paolo II scrive che «sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il Papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo»[3]. Il contributo del pontefice alla disgregazione del blocco sovietico, in effetti, si colloca senz’altro nella sfera politica e diplomatica tradizionale, ma anche (e forse soprattutto) in quella morale, che riguarda le idee e gli orizzonti di senso che ispirano l’azione degli individui e delle collettività e che si è rivelata essere tanto sottovalutata dalla classe dirigente comunista quanto, in realtà, efficace nel produrre effetti concreti.
Ben conscio sia di questo errore di valutazione sia del reale potenziale di spirito e identità insito nelle società dell’Europa orientale, Giovanni Paolo II ha dunque deciso di sfruttare questa leva per minare dall’interno un blocco solo all’apparenza monolitico e per orientare questo processo, che rischiava di essere sanguinoso, verso modalità pacifiche e non-violente, volendo anche accrescere l’attenzione e la sensibilità del resto del mondo verso i paesi “oltrecortina”.
Nel far questo non poteva che partire dalla sua Polonia: la Chiesa cattolica polacca, storicamente radicata nella società e con un grande seguito popolare, è stata fondamentale laboratorio per diffondere e coltivare sentimenti diversi dall’ortodossia di Stato e un pensiero critico nei confronti del regime, che si è diffuso ed ha acquistato rilevanza pubblica nonostante i tentativi di repressione e ha senz’altro contribuito in maniera rilevante ad accelerare una spirale discendente che ha condotto all’implosione del modello sovietico, a riprova dell’importanza che accanto agli interessi economici e ai grandi eventi rivestono i valori all’interno dei quali essi vengono inseriti e interpretati.
[1] G. Weigel, Il testimone della speranza, cit. in A. Riccardi, Giovanni Paolo II: la biografia, Edizioni SanPaolo, 2011, p. 32
[2] A. Riccardi, Giovanni Paolo II: la biografia, op.cit., p. 325
[3] Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, 2006, pp. 196-197
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- Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II: la biografia, Edizioni SanPaolo, 2011.
- Massimiliano Signifredi, Giovanni Paolo II e la fine del comunismo: la transizione in Polonia (1978-1989), Guerini&Associati, 2013.