CONTENUTO
1. Introduzione alla figura storica di Gesù
Su Gesù di Nazaret è stato detto tutto e il contrario di tutto. Quel che è certo, è che la sua figura è stata il cardine della storia. Scopo di questo articolo è tentare di fornire qualche spunto a chi volesse avvicinarsi alla sua figura da un punto di vista storico, rispondendo, in particolare, ad alcune domande che mi sono state poste da giovani amici.
Il primo problema, però, sta nel definire che cosa sia la storia, specie in merito alla questione “Gesù”. Anzitutto, va precisato che il termine “storia” deriva dal greco ἱστορία (historía) che significa ricerca, ed ha la stessa radice ιδ- del verbo ὁράω (orao, vedere, un verbo con tre radici: ὁρά-; ιδ-; ὄπ-). Il perfetto ὁίδα, òida, poi, significa letteralmente “ho visto”, ma, per estensione, “so”. Si riferisce, in pratica, all’osservare e, di conseguenza, al conoscere dopo aver sperimentato: medesimo senso che ritroviamo anche nella radice del verbo latino video (v-id-eo e nel termine di origine greca “idea”). Aggiungerei, inoltre, che un presupposto dell’indagine storica sia, oltre al senso critico, l’intelligenza, nel senso letterale del termine latino: intus lĕgĕre, ossia leggere dentro, andare in profondità, pur mantenendo la capacità di considerare l’insieme dei fatti e degli eventi.
Pertanto, fatta questa precisazione, come porsi, da un punto di vista della ricerca storica, nei confronti del “problema” Gesù di Nazaret? Jean Guitton[1], filosofo cattolico francese che ha dedicato la propria vita alla ricerca sulla figura del Nazareno, ha elaborato tre soluzioni possibili:
- Soluzione critica: Gesù di Nazaret è davvero esistito e l’origine del cristianesimo è un fenomeno storico, l’approccio al quale, tuttavia, deve rigettare tutti i prodigi e i fatti inspiegabili.
- Soluzione mitica: Gesù di Nazaret non è mai veramente esistito. Tutto ciò che è stato scritto e detto su di lui è l’invenzione di un gruppo di esaltati.
- Soluzione di fede: Gesù di Nazaret non solo è esistito, ma tutto quanto narrato nei vangeli e negli scritti canonici del Nuovo Testamento corrisponde a verità.
2. Tre semplici domande su Gesù
La prima domanda è: Gesù è esistito? A questo primo interrogativo si può già rispondere in maniera piuttosto netta: sì. Si può escludere, quindi, l’ipotesi mitica, ovvero che egli sia frutto dell’immaginazione di qualcuno, dato lo studio meticoloso intorno a lui e al suo tempo, specie negli anni più recenti, in termini di ermeneutica biblica, storiografia, archeologia, linguistica e filologia[2].
La seconda domanda: è stato davvero così importante? Senz’ombra di dubbio, tanto che la nostra epoca si calcola proprio a partire dalla sua nascita, “dopo Cristo”. D’altra parte, per molti, quasi per tutti coloro che ne hanno sentito parlare, persino per i più irriducibili avversari del cristianesimo e del culto a lui tributato dai suoi fedeli, il suo è un messaggio che non ha eguali nella storia.
“Dio in croce: si continua ancora a non comprendere lo spaventoso mondo di pensieri nascosto in questo simbolo? Tutto quanto soffre, tutto quanto è appeso alla croce, è divino… Noi tutti siamo appesi alla croce, quindi noi siamo divini[3]”. (Fiedrich Nietzsche)
“Se si guarda a un bambino come a un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona umana[4]”. (Richard Rorty)
“Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo[5]”. (Benedetto Croce)
Terza domanda: chi era davvero Gesù di Nazareth? Ardua risposta! Chi scrive può solo provare ad applicare i criteri di quella che è stata chiamata la Terza ricerca[6] (Third quest) sul “Gesù storico” e, da storico, limitarsi ad osservare e analizzare dei dati che dei veri e propri giganti in questo campo hanno già snocciolato in abbondanza nei loro monumentali libri sull’argomento, e mi riferisco agli italiani Giuseppe Ricciotti e Vittorio Messori, allo studioso israeliano (ebreo) David Flusser, al tedesco Joachim Jeremias e a un altro illustre tedesco, Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI.
Gli esponenti di questa Terza ricerca partono dal presupposto formulato da Albert Schweitzer: non si può rigettare ideologicamente tutto ciò che nei vangeli e nel Nuovo Testamento ha un carattere miracoloso, scartandolo perché non conforme ai canoni del razionalismo illuminista. In più, come aggiunge Benedetto XVI, nel suo libro Gesù di Nazaret[7], i limiti del metodo storico-critico consistono sostanzialmente nel “lasciare la parola nel passato”, senza poterla rendere “attuale, odierna”; nel “trattare le parole che ha di fronte come parole umane”; infine, nel “suddividere ulteriormente i libri della Scrittura secondo le loro fonti, ma l’unità di tutti questi scritti come Bibbia non gli risulta come un dato storico immediato”.
Potremmo quindi affermare che il presupposto di base della terza soluzione suggerita da Jean Guitton, quella della fede, non sia tanto il credere per forza, quanto il lasciare aperta la possibilità che quanto scritto nelle fonti stesse possa essere vero.
3. Dove è nato Gesù?
Poiché la Terza ricerca sul “Gesù storico” insiste molto sulla necessità di analizzare il contesto culturale, religioso e linguistico in cui questi è vissuto, è il caso di farvi appunto qualche accenno.
Di dov’era Gesù? Mi è capitato di sentir dire da alcuni che era “israeliano”; da altri, invece, che era “palestinese”. Nessuno dei due termini è giusto, in quanto gli israeliani sono i cittadini dello Stato odierno di Israele (e possono essere ebrei, arabi musulmani o cristiani, ecc.); i palestinesi, invece, sono i moderni abitanti di lingua araba della regione che oggi conosciamo come Palestina.
Gesù, dunque, non era israeliano (semmai israelita) ma neppure palestinese, dato che, nella sua epoca, la cosiddetta Palestina non era chiamata in questo modo. Tale nome le è stato attribuito dall’imperatore Adriano solamente a partire dal 135 d.C., dopo la fine della terza Guerra giudaica, quando l’ex provincia della Giudea, ormai spogliata dei suoi abitanti ebrei, è stata ribattezzata, per spregio nei confronti di questi ultimi, Syria Palæstina (la Palestina vera e propria era, fino a quel momento, una sottile striscia di terra, corrispondente più o meno all’odierna Striscia di Gaza, in cui si trovava l’antica Pentapoli filistea, un gruppo di cinque città-Stato abitate da una popolazione di lingua indoeuropea storicamente ostile agli ebrei: i filistei).
All’inizio del primo secolo della nostra era, dunque, quello che era stato l’antico Regno d’Israele, poi divisosi in due regni, quello di Israele e quello di Giuda, aveva ormai cessato di essere uno Stato indipendente ed era diviso tra la Giudea, roccaforte del giudaismo più ortodosso, immediatamente soggetta a Roma e governata da un praefectus, e le altre due regioni storiche, ossia la Galilea e la Samaria. Quest’ultima, un altopiano centrale di quella che è oggi conosciuta come Palestina, era abitata dai samaritani, discendenti di coloni asiatici importati dagli assiri nel V secolo a.C., all’epoca della conquista del Regno d’Israele.
I notabili di quella zona, infatti, furono deportati, mentre i proletari furono lasciati sul posto e si mescolarono dunque con i nuovi arrivati, dando origine a un culto dapprima sincretico ma che poi si raffinò divenendo monoteistico ma in contrasto con quello giudaico: se i giudei si ritenevano i legittimi discendenti dei patriarchi e depositari dell’Alleanza con Jahwé, della Legge e del culto professato nel Tempio di Gerusalemme, i samaritani ritenevano la stessa cosa di se stessi e avevano il proprio centro di culto in un tempio sul monte Garizim, nei pressi della città di Sichem-Sicar.
4. Il regno di Galilea all’epoca di Gesù
Quanto alla Galilea, questa era una zona a popolazione mista (lo è ancora nell’odierno Stato d’Israele: per metà araba e per metà ebraica): villaggi e città ebraici (come Nazaret, Cana) sorgevano accanto a città di cultura greco-romana, quindi pagana (ad esempio Sepphoris, Tiberiade, Cesarea di Filippi). La popolazione della regione, anche quando di fede e cultura ebraica, veniva stigmatizzata dagli abitanti della Giudea, i quali si vantavano di essere più puri e raffinati dei rozzi e litigiosi galilei (i quali, va detto anche in base a recenti scoperte archeologiche, non avevano nulla da invidiare in quanto a osservanza ai fratelli del sud).
Varie volte, a proposito di Gesù, si sente dire, come scritto nei vangeli, che “nulla può venire di buono da Nazaret o dalla Galilea”. Tra l’altro, ci dicono non solo i vangeli ma anche i pochi scritti rabbinici rimasti di quell’epoca, che i galilei erano canzonati anche per il modo in cui parlavano. L’ebraico e l’aramaico (lingua franca parlata in tutto il Medio Oriente del tempo, anche dagli israeliti in seguito alla deportazione a Babilonia iniziato nel 587 a.C., anno della conquista di Gerusalemme e della distruzione del primo tempio da parte di Nabucodonosor), come tutte le lingue semitiche, hanno molte lettere gutturali e suoni aspirati o laringali. E i galilei pronunciavano molte parole in maniera ritenuta divertente o volgare dai giudei. Ad esempio, il nome יְהוֹשֻׁעַ, Yehoshu‛a, lo pronunciavano Yeshu, da cui la trascrizione greca Ιησούς (Yesoús), poi passata al latino Jesus e all’italiano Gesù.
La Galilea, ad ogni modo, costituiva un regno vassallo a Roma ed era governata da Erode il Grande, un re di origine pagana messo letteralmente sul trono da Augusto, del quale era in pratica un tirapiedi. Erode, noto per la sua crudeltà ma anche per la sua astuzia, aveva fatto di tutto per conquistarsi le simpatie del popolo ebraico (e anche di tutto per estraniarselo) che non l’accettò mai, anche e soprattutto perché non era di sangue giudaico.
Tra le altre cose, egli aveva fatto ampliare e abbellire il Tempio di Gerusalemme che era stato ricostruito dal popolo d’Israele in seguito al ritorno dalla cattività babilonese. I lavori di completamento della struttura erano ancora in corso mentre Gesù era in vita e furono terminati solo pochi anni prima del 70 d.C., quando il santuario stesso venne raso al suolo nel corso della distruzione di Gerusalemme per opera dei romani condotti da Tito.
Accanto, più a nord-est, già dalle rive orientali del lago di Galilea, una confederazione di dieci città (la Decapoli) rappresentava invece un’isola culturale ellenizzata.
5. La terra e i “concittadini” di Gesù: le scuole giudaiche
Va ricordato a questo punto che, nell’Israele di allora, il giudaismo non costituiva per nulla un blocco uniforme. Le principali sette, o scuole, erano le seguenti:
- I sadducei (in ebraico: צַּדּוֹקִים, ṣaddōqīm): essi prendevano nome dal loro capostipite, ṣaddōq, e costituivano la classe sacerdotale e l’élite del tempo. Si trattava di ricchi funzionari religiosi, addetti al servizio nel tempio, che non credevano nella risurrezione dei morti né nell’esistenza di angeli, demoni e spiriti e ritenevano che l’unica legge da seguire fosse la Legge scritta, contenuta nella Torah (תוֹרָה), ovvero i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco).
- I farisei (in ebraico: פְּרוּשִׁים, perūšīm, che significa “separati”): erano pii osservanti della legge, soliti concentrarsi persino sulle minuzie della legge stessa, che per loro non era solo quella scritta (Torah), ma anche e soprattutto quella orale la halakhah (הֲלָכָה), che si estendeva alle più svariate azioni della vita civile e religiosa, e andava perciò dalle complicate norme per i sacrifici del culto fino alla lavanda delle stoviglie prima dei pasti. I farisei erano molto simili agli ebrei ultra ortodossi di oggi, di cui sono in pratica gli antesignani. Si definivano “separati” giacché si consideravano avversari di tutto quanto non puramente ebraico, ovvero loro stessi. Basti pensare che il popolino era da loro definito עַם הָאָרֶץ (‛am ha-areṣ, popolo della terra, in senso dispregiativo).
- Gli erodiani, il cui sensus fidei non è del tutto chiaro ma la cui fedeltà al re Erode era ben nota. Dovevano essere molto vicini anche ai sadducei, in quanto questi ultimi erano l’élite più prona al potere sia di Erode che dei romani, fermamente decisa a mantenere i privilegi derivanti dallo status quo.
- I dottori della legge, o scribi (in ebraico: סופרים, ṣōfarīm). Essi codificavano progressivamente tutto ciò su cui era possibile legiferare. Ad esempio, al tempo di Gesù l’oggetto più dibattuto, nelle due scuole rabbiniche principali dei grandi maestri Hillel e Shammai, era se fosse lecito mangiare un uovo fatto da una gallina di sabato.
- Gli zeloti (il cui nome italiano deriva dal greco ζηλωτής, zelotés, ma che in ebraico erano definiti קנאים, ovvero qana’īm: entrambi i termini, greco ed ebraico, significano “seguaci” e si riferiscono allo zelo con cui questo gruppo aderiva alla dottrina del giudaismo, anche in senso politico (tra i discepoli di Gesù ve n’è uno chiamato Simone il Cananeo, attributo che non si riferisce alla sua origine geografica, bensì all’appartenenza al gruppo dei qana’īm, cioè gli Zeloti). Erano chiamati dai romani sicarii, per via dei pugnali (sicæ) nascosti sotto il mantello con cui uccidevano chi veniva scoperto a infrangere i precetti della legge ebraica.
- Gli esseni, mai menzionati nelle Scritture ebraiche o cristiane ma di cui parlano Flavio Giuseppe, Filone, Plinio e altri. Essi costituivano una vera e propria associazione religiosa, concentrata in particolare intorno al Mar Morto, nei pressi dell’oasi di En Gedi (la già menzionata Qumran, da essi chiamata Yaḥad, cioè comunità). Vivevano nel celibato, rigidamente separati dal resto del mondo, e rigettavano come ormai impuro il culto del Tempio e le altre sette giudaiche. Per farne parte, occorreva svolgere un noviziato, cui seguiva l’affiliazione vera e propria. Erano letteralmente fanatici della purità rituale (numerosi i bagni rituali presenti a Qumran), nonché avversi alle donne. Fra loro non esisteva la proprietà privata ed era proibito tenere delle armi. È stato ipotizzato che sia Gesù che Giovanni Battista fossero esseni, ma ciò si scontra con l’universalità del loro messaggio (aperto, tra l’altro anche alle donne, cosa, dicevamo, inammissibile per gli esseni stessi).
Questi, dunque, i grandi gruppi in cui era diviso il giudaismo dell’epoca di Gesù. In seguito alla grande catastrofe del 70 d.C. e del 132 d.C., gli unici a sopravvivere, da un punto di vista dottrinale, furono proprio i farisei, da cui discende l’ebraismo moderno.
Va detto altresì che il popolo, la gente comune, pur simpatizzando in gran parte per i farisei, era da questi ultimi considerato, come abbiamo evidenziato, esecrabile. È proprio a quel popolo irriso da tutta la casta sacerdotale, spirituale e intellettuale d’Israele che si volgeranno Giovanni Battista prima e Gesù poi. E sarà proprio quel popolo a credere per primo al messaggio del Nazareno, contro il quale invece si uniranno i farisei, gli scribi e i sadducei che pur erano nemici fra loro.
6. L’attesa di un messia
L’insieme complesso dell’antico Israele è il calderone in cui ribolle un’attesa molto particolare e devota. L’attesa di chi? Di un liberatore, di un unto dal Dio onnipotente che, come aveva fatto per Mosè, Dio stesso avrebbe suscitato per liberare il suo popolo dalla schiavitù e dal dominio straniero. Questa volta, tuttavia, così si credeva, il suo regno non avrebbe avuto fine, giacché questo Messia (מָשִׁיחַ, Mašīaḥ in ebraico e Χριστός, Christós in greco: entrambi i termini significano “unto”, in quanto unto dal Signore come i re a partire da Saul e il suo successore Davide) non sarebbe stato solo un profeta, bensì, come evidenziato nei rotoli del Mar Morto e nelle aspettative degli Esseni di Qumran, un re-pastore e un sacerdote.
Quest’attesa si fa, negli anni immediatamente precedenti alla nascita del Nazareno, sempre più trepidante: fioriscono ovunque presunti messia e, con loro, rivolte sistematicamente represse nel sangue (da ricordare quella di Giuda il Galileo, negli anni 6-7 a.C.); ma fioriscono pure pie comunità che, in virtù di una profezia molto precisa, aspettano l’avvento di un liberatore. Sappiamo, comunque, che in quell’epoca di grande stabilità per l’Impero Romano, ma di fervente attesa per il popolo d’Israele, l’attenzione di tutti, in quel piccolo angolo di mondo, era concentrata sull’arrivo imminente di un liberatore: era sempre stato così?
In realtà, l’attesa di un dominatore del mondo durava ormai da diversi secoli. Il primo accenno è addirittura al libro di Genesi[8]. Nel tempo, dunque, l’idea di un unto del Signore che avrebbe governato su Israele si va intensificando e diviene sempre più precisa: quest’unto, questo Messia, sarebbe stato discendente di Giuda, attraverso il re Davide.
Tuttavia, nel 587 a.C., ha luogo la prima, grande delusione: la presa di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, il quale distrugge il tempio, depreda gli arredi sacri, deporta la popolazione della Giudea a Babilonia e pone fine alla dinastia dei re discendenti di Davide. Ecco che, però, un profeta di nome Daniele, l’ultimo profeta dell’Antico Testamento, profetizza che il Messia arriverà eccome. Anzi, la sua è definita Magna Prophetia: in essa (cap. 2) si proclama che “Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto e non sarà trasmesso ad altro popolo: stritolerà e annienterà tutti gli altri regni, mentre esso durerà per sempre”.
Non solo: al capitolo 7 si precisa che colui che deve venire sarà “come Figlio d’uomo” (nel Vangelo di Matteo, il vangelo destinato alle comunità ebraiche in Palestina, Gesù utilizza circa 30 volte un’espressione simile, “figlio dell’Uomo”, usata in precedenza solo ed esclusivamente da Daniele).
Al capitolo 9, poi, la profezia si concretizza anche in termini temporali:
“Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi. Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane.”
Come vediamo, la profezia appena citata è estremamente precisa. Tuttavia, la traduzione esatta in italiano del termine ebraico שָׁבֻעִ֨ים (šavū‛īm, “šavū‛” ad indicare il numero 7 e “īm” come desinenza maschile plurale) non dovrebbe essere “settimane” (che è invece שבועות, cioè šavū‛ōt, dove “ōt” sta per la desinenza plurale femminile), bensì “settenari”: in pratica, settanta volte sette anni.
Gli ebrei contemporanei di Gesù hanno inteso il brano nel modo corretto, tuttavia gli studiosi contemporanei non riuscivano a comprendere l’esatto compito dei tempi di Daniele: da quando iniziava il conteggio dei settanta settenari? Ebbene, scoperte recenti a Qumran hanno consentito di dimostrare a studiosi come Hugh Schonfield, grande specialista dello studio dei rotoli del Mar Morto, che non solo le scritture ebraiche erano già perfettamente formate nel I secolo della nostra era e identiche a quelle che leggiamo oggi, ma anche che gli esseni, come molti altri loro contemporanei, avevano calcolato i tempi della Magna Prophetia.
Per loro, i settanta settenari (490 anni) partivano nel 586 a.C., anno dell’inizio dell’esilio a Babilonia e culminavano nel 26 a.C., inizio dell’era messianica. Tant’è che, da quella data, si riscontra, attraverso scavi archeologici, un incremento nell’attività abitativa e edilizia a Qumran.
Non erano, però, solo gli ebrei in terra d’Israele a covare letteralmente un’attesa che li riempiva di speranza e di fermento. Anche Tacito e Svetonio, il primo nelle Historiæ e il secondo nella Vita di Vespasiano, riferiscono che molti, in Oriente, aspettavano secondo le loro scritture, un dominatore che sarebbe venuto dalla Giudea.
7. Una stella in Oriente? La famosa “cometa”
È proprio l’Oriente a fornirci un altro elemento utile per comprendere come mai l’attesa messianica fosse così fervente a cavallo tra le due ere: il fatto, cioè, che anche in altre culture fosse atteso l’avvento di quel “dominatore” di cui si era sentito parlare persino a Roma. Gli astrologi babilonesi e persiani, infatti, lo aspettavano intorno al 7 o 6 a.C[9].
Perché proprio in quell’intervallo? Per il sorgere di una stella, sappiamo dal vangelo di Matteo (capitolo 2). Ma sarà davvero sorta una stella? A questo interrogativo pare rispondere in un primo momento l’astronomo Keplero, il quale, nel 1603, osservò un fenomeno luminosissimo: non una cometa, bensì l’avvicinamento, o congiunzione, dei pianeti Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Keplero effettuò poi alcuni calcoli e stabilì che la stessa congiunzione si sarebbe verificata nel 7 a.C. Rinviene, poi, un antico commentario rabbinico, nel quale si sottolineava come la venuta del Messia sarebbe dovuta coincidere proprio con il momento in cui fosse avvenuta quella medesima congiunzione astrale.
Nessuno, tuttavia, diede credito, all’epoca, all’intuizione di Keplero, anche perché allora si pensava ancora che Gesù fosse nato nell’anno zero. Solamente nel XVIII secolo un altro studioso, Friederich Christian Münter, luterano e massone, decifrò un commento al libro di Daniele, lo stesso dei “settanta settenari”, in cui si confermava da un’altra fonte la credenza giudaica già portata alla luce da Keplero.
Occorre, però, attendere il XIX secolo per avere conferma del fenomeno astronomico osservato da Keplero, prima da parte degli astronomi del XIX secolo, poi grazie alla pubblicazione di due importanti documenti: la Tavola planetaria, nel 1902, un papiro egizio in cui sono registrati con esattezza i movimenti planetari e in particolare, per osservazione diretta, la congiunzione Giove-Saturno nella costellazione dei Pesci, che si rileva essere stata molto brillante; il Calendario stellare di Sippar, una tavola di terracotta scritta in caratteri cuneiformi, di origine babilonese, ove si segnalano i moti degli astri proprio nell’anno 7 a.C., anno in cui, secondo gli astronomi babilonesi, tale congiunzione si sarebbe verificata ben tre volte (29 maggio, 1 ottobre e 5 dicembre), mentre il medesimo evento avviene di norma una volta ogni 794 anni.
Poiché, dunque, nella simbologia dei babilonesi Giove rappresentava il pianeta dei dominatori del mondo, Saturno il pianeta protettore d’Israele e la costellazione dei Pesci era il segno della fine dei tempi, non è poi così assurdo pensare che dei magi[10] da Oriente si aspettassero, avendo avuto la possibilità di prevederne con straordinaria precisione, l’avvento di qualcosa di particolare proprio in Giudea.
8. Nomen omen: le origini di Gesù
Il nostro viaggio nel racconto dell’uomo Gesù non può ovviamente che partire dal suo nome, dato che nomen omen, soprattutto nel mondo da cui Gesù stesso proviene, quello dell’antico Israele. In ebraico, i due nomi Gesù e Giosuè sono identici nella pronuncia e nella scrittura: יְהוֹשֻׁעַ, ovvero Yehoshu’a. Il significato di tale nome è “Dio salva”.
Gesù era un ebreo, per la precisione un giudeo: era parte della tribù di Giuda, pur avendo abitato gran parte della sua vita in Galilea, e, secondo quanto riferiscono i vangeli, discendeva dal re Davide attraverso il padre Giuseppe, una paternità che, per i cristiani, è putativa, in quanto per questi ultimi Gesù è nato da una vergine chiamata Maria, rimasta incinta per opera dello Spirito Santo (per i cristiani Dio è uno ma anche trino, e questa Trinità è formata da tre persone della stessa sostanza: Padre, Figlio e Spirito Santo) in seguito all’annuncio di un angelo, mentre era già promessa sposa a Giuseppe.
9. A Betlemme di Giudea: la nascita di Gesù
Betlemme è oggi una città della Cisgiordania e non ha niente di bucolico o di somigliante a un presepe. Duemila anni fa, invece, era davvero un piccolo borgo di poche centinaia di anime. È proprio qui che sarebbe nato Gesù, malgrado la sua famiglia vivesse a Nazaret?
Accenneremo più avanti al censimento indetto da Cesare Augusto, che è una delle risposte a questa domanda. In più, a Betlemme, piccola ma nota per essere la patria del re Davide, sarebbe dovuto nascere, il messia atteso dal popolo d’Israele[11]. Oltre al tempo, dunque, sia gli israeliti sia i loro vicini d’Oriente conoscevano anche il luogo in cui il “liberatore” del popolo ebraico sarebbe venuto al mondo.
È curioso notare come il nome di questa località, composto da due diversi termini ebraici, significhi: “casa del pane” in ebraico (בֵּֽית = bayt o beṯ: casa; לֶ֣חֶם = leḥem: pane); “casa della carne” in arabo (ﺑﻴﺖ = bayt o beyt, casa; لَحْمٍ = laḥm, carne); “casa del pesce” nelle antiche lingue sud-arabiche. Tutte le lingue citate sono di origine semitica e, in questi idiomi, da una stessa radice di tre lettere, è possibile ricavare tantissime parole ricollegate al significato originario della radice di provenienza. Nel nostro caso, quello del nome composto di Betlemme, abbiamo due radici: b-y-t che dà origine a Bayt o Beth; l-ḥ-m che dà origine a Leḥem o Laḥm. In tutti i casi Bayt/Beth vuol dire casa, ma Laḥm/Leḥem cambia significato in base alla lingua.
La risposta va ricercata nella provenienza delle popolazioni cui tali lingue appartengono. Gli ebrei, come gli aramei e le altre popolazioni semitiche nord-occidentali, vivevano nella cosiddetta Mezzaluna fertile, ovvero una vasta area tra la Palestina e la Mesopotamia in cui è possibile praticare l’agricoltura e, di conseguenza, erano un popolo sedentarizzato. La loro principale fonte di sostentamento era, dunque, il pane, insieme ai frutti del lavoro della terra.
Gli arabi erano una popolazione nomade o seminomade della parte settentrionale e centrale della penisola arabica, prevalentemente desertica. Essi, dunque, traevano dalla caccia e dall’allevamento il loro principale sostegno, il che faceva della carne il loro cibo per eccellenza. I sudarabici, infine, vivevano sulle coste meridionali della penisola arabica e il loro alimento principale era costituito dal pesce. Da ciò possiamo comprendere come mai la stessa parola, in tre lingue semitiche diverse, abbia come significato tre alimenti diversi.
Di conseguenza, si può notare come Betlemme abbia, per popoli distinti, un significato apparente distinto ma in realtà univoco, giacché indicherebbe non tanto la casa del pane, della carne o del pesce, bensì la casa del vero cibo, quello di cui non si può fare a meno, quello da cui dipende la sussistenza stessa, quello senza il quale non è possibile vivere.
Curiosamente, Gesù, parlando di se stesso, ha detto: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6, 51-58). Tale comparazione linguistica è un esempio di come la filologia possa dare un notevole contributo all’approccio alla figura del “Gesù storico” e nel comprenderne la collocazione nel suo contesto culturale.
Veniamo, però, a un altro punto: al di là dalle speculazioni filologiche ed esegetiche, Gesù è davvero nato a Betlemme?
La storia ci ha trasmesso che, già a metà del II secolo, Giustino, originario della Palestina, scriveva a proposito della grotta/stalla di Betlemme, la cui memoria si tramandava già da qualche generazione di padre in figlio. Anche Origene, autore del III secolo, conferma che nella stessa Betlemme cristiani e non cristiani conoscevano il luogo della medesima grotta.
Ma perché si parla della “memoria”? Perché l’imperatore Adriano, con il proposito di cancellare dalla memoria i luoghi ebraici ed ebraico-cristiani della nuova provincia di Palestina, dopo le Guerre Giudaiche, volle far costruire, dal 132 in poi, templi pagani esattamente sopra il luogo in cui sorgevano quelli dell’antica fede della regione[12]. Ce lo confermano Girolamo[13], autore della prima traduzione in lingua latina dell’intera Bibbia, la Vulgata (Girolamo visse 40 anni a Betlemme), e Cirillo di Gerusalemme[14].
Come a Gerusalemme, sul luogo ove erano localizzati i santuari per onorare la morte e risurrezione di Gesù, Adriano fece innalzare statue di Giove e di Venere (Gerusalemme era nel frattempo stata ricostruita con il nome di Aelia Capitolina), a Betlemme era stato piantato un bosco sacro a Tammuz, cioè Adone. Fu, tuttavia, proprio grazie allo stratagemma della damnatio memoriæ di Adriano che i simboli pagani divennero degli indizi per ritrovare le tracce dei siti sepolti, la cui memoria si era sempre conservata.
Così, il primo imperatore cristiano, Costantino, e sua madre Elena riuscirono a rinvenire i punti esatti in cui sorgevano le primitive domus ecclesiæ[15], successivamente divenute chiesette, ove si veneravano e custodivano le memorie e reliquie della vita di Gesù di Nazaret.
10. Cronologia della vita di Gesù
Per una conoscenza approfondita della vita di Gesù, rimando ovviamente ai vangeli e ai libri che citiamo in bibliografia. Fornirò qui qualche spunto biografico, a partire dalla nascita del Nazareno.
Natale: ha senso quanto narrato nei vangeli?
Dal vangelo di Luca (cap. 2) sappiamo che la nascita di Gesù coincise con un censimento indetto su tutta la terra da Cesare Augusto:
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.
Che cosa sappiamo a proposito? Da quanto si legge nella VII, nell’VIII e nella X riga della trascrizione delle Res gestae di Augusto collocata presso l’Ara Pacis, a Roma, apprendiamo che Cesare Ottaviano Augusto censì per tre volte, negli anni 28 a.C., 8 a.C. e 14 d.C., l’intera popolazione romana.
In epoca antica, indire un censimento di tutta la terra doveva richiedere ovviamente un certo tempo perché il procedimento fosse effettivamente portato a termine. Ed ecco che un’altra precisazione dell’evangelista Luca ci fornisce un indizio: Quirinio era il governatore della Siria quando fu fatto questo “primo” censimento. Ebbene, P. Sulpicio Quirinio fu governatore della Siria probabilmente dall’anno 6-7 d.C. Su tale questione vi sono pareri discordanti degli storici: alcuni ipotizzano, infatti, che Quirinio stesso abbia avuto un precedente mandato[16] negli anni 8-6 a.C.; altri, invece, traducono il termine “primo” (che in latino e greco, essendo neutro, può avere anche valore avverbiale), con “prima che Quirinio fosse governatore della Siria”.
Entrambe le ipotesi sono ammissibili, quindi è verosimile quanto narrato nei vangeli a proposito del censimento che ha avuto luogo nel tempo della nascita di Gesù[17]. Aggiungiamo, poi, che la prassi di quei censimenti prevedeva che ci si recasse, per la registrazione, nel villaggio d’origine, e non nel luogo in cui si viveva (una sorta di antesignana distinzione tra residenza e domicilio): è plausibile, allora, che Giuseppe sia partito per Betlemme per farsi censire.
11. Il giorno di Natale
Abbiamo altri indizi temporali? Sì, la morte di Erode il Grande, nel 4 a.C., dato che questi morì in quell’epoca e, da quanto narrato nei vangeli, dovette trascorrere più o meno un biennio tra la nascita di Gesù e la morte del re, il che coinciderebbe appunto con il 6 a.C.
Per quanto riguarda il dies natalis, cioè il vero e proprio giorno del Natale di Gesù, per molto tempo si è ipotizzato che questo fosse stato fissato al 25 dicembre in epoca successiva, per farlo coincidere con il dies Solis Invicti, festività di origine pagana (probabilmente associabile al culto di Mitra), e quindi rimpiazzare la commemorazione pagana con una cristiana.
Recenti scoperte, dalla solita Qumran, hanno permesso di stabilire che, tuttavia, potrebbe non essere andata proprio così e che abbiamo motivo di festeggiare il Natale proprio il 25 dicembre.
Sappiamo, infatti, sempre dall’evangelista Luca (il più ricco di dettagli nella narrazione su come avvenne la nascita di Gesù) che Maria rimase incinta quando sua cugina Elisabetta era già al sesto mese. I cristiani d’Occidente celebrano da sempre l’Annunciazione di Maria il 25 marzo, ovvero nove mesi prima del Natale. Quelli d’Oriente, dal canto loro, celebrano pure l’Annunciazione a Zaccaria (padre di Giovanni Battista e marito di Elisabetta) il 23 settembre.
Luca scende ancor più nei particolari nel dirci che, nel momento in cui Zaccaria seppe che sua moglie, già in età avanzata come lui, sarebbe rimasta incinta, stava prestando servizio nel Tempio, essendo egli di casta sacerdotale, secondo la classe di Abia.
Tuttavia lo stesso Luca, scrivendo in un’epoca in cui il Tempio era ancora in funzione e le classi sacerdotali seguivano le loro turnazioni perenni, non fornisce, dandolo per assodato, il tempo in cui la classe di Abia si trovava a prestare servizio. Ebbene, numerosi frammenti del Libro dei Giubilei, ritrovati proprio a Qumran, hanno permesso a studiosi come la francese Annie Jaubert e l’israeliano Shemarjahu Talmon, di ricostruire con precisione che il turno di Abia aveva luogo due volte l’anno: la prima dall’8 al 14 del terzo mese del calendario ebraico, la seconda dal 24 al 30 dell’ottavo mese dello stesso calendario, corrispondente quindi all’ultima decade di settembre, in perfetta sintonia con la festa orientale del 23 settembre e a sei mesi di distanza dal 25 marzo, il che porterebbe a supporre che la nascita di Gesù sia effettivamente avvenuta nell’ultima decade di dicembre: forse non proprio il 25, ma giù di lì.
12. I primi anni di vita di Gesù e l’inizio della predicazione
Proseguiamo l’excursus nella vita di Gesù di Nazaret. Abbiamo visto che, all’incirca nel 6 a.C., rimasero incinte sia Elisabetta, moglie del sacerdote Zaccaria della classe di Abia, sia sua cugina Maria, la quale, secondo le scritture cristiane, era vergine e promessa a un uomo del casato di Davide chiamato Giuseppe.
Giuseppe, a causa del censimento indetto dall’imperatore Augusto (nel quale si richiedeva che gli uomini tornassero alle città d’origine del proprio casato per farsi registrare), si recò nella città di Davide, Betlemme, e lì sua moglie Maria diede alla luce un figlio che chiamò Gesù.
I vangeli raccontano poi che dei magi vennero da Oriente dopo aver visto una stella per adorare il nuovo dominatore del mondo, preannunciato dalle antiche scritture, e che il re Erode, avendo saputo che la profezia riguardante il messia, nuovo re d’Israele, stava per compiersi, decise di uccidere tutti i bambini maschi dai due anni in giù (episodio di cui troviamo qualche traccia in Flavio Giuseppe ma di cui nessun altro racconta; d’altra parte, come fa notare Giuseppe Ricciotti, in un contesto come quello di Betlemme e dei dintorni, relativamente poco popolato, e soprattutto in un’epoca in cui la vita di un bambino aveva ben poco valore, riesce difficile immaginare che qualcuno si disturbasse ad annotare la morte violenta di qualche infante povero e figlio di nessuno).
Venuti a conoscere in qualche modo le intenzioni di Erode (il vangelo di Matteo parla di un angelo che avverte in sogno di Giuseppe), la madre, il padre e il figlio appena nato fuggono in Egitto, ove rimangono qualche anno, fino alla morte di Erode (dunque dopo il 4 a.C.).
Salvo il riferimento di Luca a Gesù che, a dodici anni, durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, fu smarrito dai genitori che lo ritrovarono poi dopo tre giorni a trattare questioni dottrinali con i dottori del Tempio, null’altro si sa sull’infanzia e sulla vita giovanile del Nazareno fino alla sua effettiva entrata nella scena pubblica d’Israele, che si può situare intorno all’anno 27-28 d.C., quando doveva avere all’incirca trentatré anni, preceduto di poco da Giovanni Battista, il quale dovette iniziare il suo ministero qualche mese, o un anno prima, all’incirca.
Possiamo risalire all’epoca d’inizio della predicazione di Gesù grazie a un’indicazione contenuta nel Vangelo di Giovanni (il più esatto e accurato, da un punto di vista cronologico, storico e geografico): disputando con Gesù nel Tempio, i notabili giudei obiettano: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Se calcoliamo che Erode il Grande incominciò i lavori di rimaneggiamento del Tempio nel 20-19 a.C. e consideriamo i quarantasei anni della frase evangelica, ci troviamo proprio nell’anno 27-28 a.C.
Ad ogni modo, il ministero di Giovanni Battista precedeva di poco quello di Gesù e, secondo gli evangelisti, Giovanni non rappresentava altro che il precursore dell’uomo di Galilea, il vero messia d’Israele. Giovanni, del quale si pensa possa essere stato, in un primo momento della sua vita, un Esseno, certamente si distaccò, come evidenziato prima, dalla rigida dottrina elitaria della setta di Qumran.
Egli predicava un battesimo di penitenza, per immersione nel Giordano (in una zona non lontana dalla stessa Qumran), proprio per disporsi all’avvento del liberatore, del re messia. Di se stesso diceva: “Io sono voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore” (vangelo di Giovanni 1, 23). Fu, tuttavia, ucciso ben presto da Erode Antipa[18], tetrarca della Galilea e figlio di Erode il Grande.
La morte di Giovanni non impedì a Gesù di proseguire il suo ministero. L’uomo di Nazaret predicava la pace, l’amore per i nemici e l’avvento di una nuova era di giustizia e di pace, il Regno di Dio, che tuttavia non sarebbe stato come l’attendevano i giudei suoi contemporanei (e come anticipato dalle stesse profezie sul messia), ossia un regno terreno in cui Israele si sarebbe liberato dai suoi oppressori e avrebbe dominato le altre nazioni, i gentili, bensì un regno per i poveri, gli umili e i miti.
La predicazione di Gesù, su cui torneremo un po’ più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, in un primo momento sembrò riscuotere un grande successo, soprattutto perché, ci dicono i vangeli, accompagnata da un gran numero di segni prodigiosi (moltiplicazione di pani e pesci per migliaia di persone; guarigioni di lebbrosi, storpi, ciechi e sordi; risurrezioni di morti; trasformazione di acqua in vino). Ebbe, tuttavia, delle battute d’arresto, o comunque s’imbatté in notevoli difficoltà, quando lo stesso Gesù cominciò a lasciar intendere di essere ben più di un uomo, o si proclamò figlio di Dio.
Inoltre, egli si poneva come avversario dell’élite religiosa del tempo (i farisei e gli scribi, che non aveva remore a definire “vipere” e “avvoltoi”) nel proclamare che l’uomo fosse più importante del sabato e del riposo sabbatico (e, nella concezione farisaica, il sabato era quasi più importante di Dio) e che egli stesso fosse, addirittura, più importante del Tempio stesso. Era inviso, altresì, ai sadducei, con i quali non era meno duro e che, per parte loro, insieme agli erodiani, erano i suoi più grandi avversari, giacché Gesù era amato dalle folle ed essi temevano che il popolo si sollevasse contro di loro e contro i romani.
Tutto ciò durò all’incirca tre anni (sono tre le pasque ebraiche menzionate, a proposito del racconto della vita di Gesù, dall’evangelista Giovanni, come dicevamo il più preciso nel tornare sulle imprecisioni degli altri tre evangelisti e nel puntualizzare dettagli trascurati, anche da un punto di vista cronologico), dopodiché il Nazareno salì per l’ultima volta a Gerusalemme proprio per festeggiare la Pasqua[19]. Qui lo attendevano, oltre a una folla festante, farisei, scribi, sadducei ed erodiani, i quali congiurarono per farlo morire, lo fecero arrestare approfittando del tradimento di uno dei suoi discepoli (Giuda Iscariota) e lo consegnarono ai romani. Dopo un processo sommario, il procuratore, o praefectus, Ponzio Pilato, se ne lavò le mani e lo fece crocifiggere.
13. La morte di Gesù sulla croce
Tutti gli evangelisti sono concordi nel fissare la morte in croce di Gesù in un venerdì (la parasceve) all’interno delle festività pasquali. Giuseppe Ricciotti, elencando una serie di possibilità tutte analizzate dagli studiosi, giunge alla conclusione che la data esatta di tale evento, nel calendario ebraico, sia il 14 del mese lunare di Nisan (venerdì 7 aprile) del 30 d.C.. Se quindi Gesù era nato un biennio prima della morte di Erode[20], aveva circa trent’anni (plausibilmente trentadue o trentatré) all’inizio della sua vita pubblica, doveva avere più o meno 35 anni quando morì.
Ci raccontano i vangeli che Gesù subì la morte più atroce, quella riservata agli schiavi, agli assassini, ai ladri e a chi non era cittadino romano: la crocifissione, e tra l’altro dopo aver subito una tortura altrettanto terribile che, nel costume romano, precedeva proprio la crocifissione: la flagellazione (descritta da Orazio come horribile flagellum), inflitta con il terribile strumento chiamato flagrum, una frusta munita di palline di metallo e strumenti d’osso che laceravano la pelle e strappavano via brandelli di carne.
La croce utilizzata poteva essere di due tipi: crux commissa, a forma di T, o la crux immissa, a forma di pugnale[21]. Da quel che leggiamo nei vangeli, una volta condannato, Gesù fu costretto a portare la croce (più probabilmente la trave trasversale della crux immissa, il patibulum) fino a un’altura poco fuori le mura di Gerusalemme (il Golgota, esattamente dove oggi si trova la Basilica del Santo Sepolcro), ove, secondo la procedura romana, fu spogliato.
Altri particolari della pena possiamo conoscerli proprio dall’uso romano di crocifiggere i condannati a morte: questi venivano legati o inchiodati con le braccia tese al patibulum e innalzati sul palo verticale già fissato. I piedi erano legati o inchiodati, invece, al palo verticale, su cui sporgeva, all’altezza delle natiche, una sorta di sedile di sostegno.
La morte era lenta, molto lenta, e accompagnata da sofferenze atroci: la vittima, innalzata da terra non più di mezzo metro, era completamente nuda e poteva rimanere appesa per ore, se non per giorni, scossa da crampi tetanici, conati e impossibilità di respirare correttamente, dato che il sangue non poteva affluire alle membra tese fino allo stremo, così come al cuore e ai polmoni che non potevano schiudersi correttamente.
Sappiamo dagli autori cristiani, tuttavia, che l’agonia di Gesù non durò più di qualche ora (dall’ora sesta all’ora nona), probabilmente per l’ingente perdita di sangue (shock ipovolemico) dovuta alla flagellazione e che, dopo la morte, fu posto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia proprio nei pressi del luogo della crocifissione (a pochi metri di distanza).
Qui, ovviamente, termina il racconto sulla vita del “Gesù storico” e inizia quello del “Cristo della fede”, dato che, come narrano poi gli evangelisti, dopo tre giorni Gesù di Nazaret risuscitò da morte, apparendo, di volta in volta, in primis a delle donne (cosa inaudita, a quell’epoca in cui la testimonianza di una donna non valeva nulla), a sua madre, ai discepoli e poi, prima di ascendere al cielo alla destra di Dio, a più di cinquecento persone, ancora vive, precisa Paolo di Tarso, al momento in cui (verso il 50) Paolo stesso scriveva le sue lettere.
14. Il messaggio di Gesù: il kèrygma
La storia del “Gesù storico” è la storia di un fallimento, almeno apparente: forse, anzi, il più grande fallimento della storia. A differenza di altri personaggi che hanno segnato il corso del tempo e sono rimasti impressi nella memoria dei posteri, Gesù non ha fatto praticamente nulla di eccezionale, da un punto di vista meramente umano, o meglio macrostorico: non ha condotto armate alla conquista di nuovi territori, non ha sconfitto orde di nemici, accumulato quantità di bottini e donne, schiavi e servitori, non ha scritto opere letterarie, non ha dipinto né scolpito nulla.
Considerando, poi, il modo in cui terminò la sua esistenza terrena, nello scherno, nel ludibrio, nella morte violenta e nella sepoltura anonima, come ha fatto, dunque, per citare un amico che mi ha posto proprio tale domanda, un “brigante ammazzato dai romani” a divenire la pietra angolare della storia? Si direbbe proprio che ciò che dissero di lui, “la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo” (Atti 4, 11), si sia avverato. Non è un paradosso?
Se consideriamo il corso degli eventi della sua vita da un punto di vista “microstorico”, invece, cioè per quanto concerne l’influsso che ebbe sulle persone intorno a lui, su quelle che avrebbe guarito, commosso, colpito, cambiato, allora ci riesce più facile credere in un’altra cosa che egli stesso avrebbe detto ai suoi: “farete cose ancor più grandi”. Di fatto, sono stati i suoi discepoli e apostoli a iniziare l’opera missionaria e a spargere il suo messaggio per tutto il mondo. Quando Gesù era in vita il messaggio stesso, il “vangelo”, la buona novella, non aveva varcato i confini della Palestina e anzi, per com’era terminata la sua esistenza, sembrava destinata a morire anch’essa.
Tuttavia, una forza nuova e inarrestabile, e allo stesso tempo piccola e nascosta, iniziò a fermentare come lievito da quel piccolo angolo d’Oriente, in modo, lo ribadisco, del tutto inspiegabile, dato che, nella stessa testimonianza di Paolo di Tarso, la difficoltà, nella propagazione dell’evangelo, stava non soltanto nel paradosso in esso contenuto, ossia nel proclamare – cosa inaudita fino a quel tempo – beati i piccoli, gli umili, i bambini e gli ignoranti, ma nel dover identificare il vangelo stesso con una persona che era morta nell’ignominia più assoluta e che poi si affermava essere risorta. Paolo, infatti, definisce tale annuncio, la croce, scandalo per i giudei, che chiedono segni, e stoltezza per i greci, che invece cercano la sapienza (prima Lettera ai Corinzi 1, 21-22).
Come già anticipato, non è questa la sede per trattare tale argomento, poiché l’obiettivo di questo lavoro è semplicemente uno sguardo al “Gesù storico” e non al “Cristo della fede”. Tuttavia, è ormai assodato come l’uno non sia comprensibile senza l’altro, dunque fornirò solo alcuni spunti su ciò che è stato, appunto, il punto focale del messaggio di Gesù di Nazaret, il cuore del vangelo (εὐαγγέλιον, euanghélion, letteralmente buona novella, o buon annuncio), ossia il kèrygma.
Il termine è di origine greca (κήρυγμα, dal verbo κηρύσσω, kēryssō, ossia gridare, urlare come un banditore, spargere un annuncio). E l’annuncio è questo: la proclamazione della vita, morte, risurrezione e ritorno glorioso di Gesù di Nazaret, detto il Cristo, per opera dello Spirito Santo. Tale opera costituisce, secondo i cristiani, un intervento diretto di Dio nella storia: Dio che s’incarna in un uomo, che si abbassa al livello delle creature per elevarle alla dignità di figli, per liberarle dalla schiavitù del peccato (una nuova Pasqua) e della morte e per donar loro la vita eterna, in virtù proprio del sacrificio del suo Figlio unigenito.
Tale processo di abbassamento di Dio verso l’uomo è stato definito κένωσις (kénōsis), anche questa una parola greca che indica letteralmente uno “svuotamento”: Dio si abbassa e si svuota, si spoglia, in pratica, delle proprie prerogative e dei propri attributi divini per donarli, per condividerli con l’uomo, in un movimento tra cielo e terra che presuppone, in seguito a una discesa, anche un’ascesa, dalla terra al cielo: la théosis (θέοσις), l’elevazione della natura umana che diviene divina perché, nella dottrina cristiana, l’uomo battezzato è Cristo stesso[22]. In pratica, l’abbassamento di Dio conduce all’apoteosi dell’uomo.
Il concetto di kèrygma costituisce, da un punto di vista storico, un dato preziosissimo per comprendere come, fin dall’inizio del cristianesimo, tale annuncio e tale identificazione di Gesù di Nazaret con Dio fosse presente nelle parole e negli scritti dei suoi discepoli e apostoli, costituendo essa, tra l’altro, il motivo stesso della sua condanna a morte da parte di parte dei notabili del giudaismo dell’epoca.
Se ne trova traccia, infatti, non solo nei vangeli tutti, ma anche e soprattutto nelle lettere paoline (di redazione ancora più antica: la prima Lettera ai Tessalonicesi, risale addirittura al 52 d.C[23].): in esse, Paolo di Tarso scrive quanto riferisce di aver appreso egli stesso in precedenza, che cioè Gesù di Nazaret è nato, morto e risorto per i peccati del mondo, secondo le scritture.
Non c’è dubbio, quindi, che l’identificazione del “Gesù storico” con il “Cristo della fede” non sia affatto tardiva, bensì immediata e derivante dalle stesse parole utilizzate da Gesù di Nazaret per definire se stesso e per attribuire alla sua persona le profezie e le immagini messianiche di tutta la storia del popolo d’Israele.
Altro aspetto interessante è il metodo, la pedagogia del Nazareno: egli “educa” (etimologicamente termine latino educĕre presuppone il condurre da un luogo all’altro e, per estensione, trarre fuori) come un maestro. Infatti, dall’analisi delle sue parole, dei suoi gesti, dei suoi atti, Gesù pare quasi non voler solo compiere un’opera da sé, ma desiderare che chi decide di seguirlo la compia con lui, impari ad agire come lui, lo segua nell’ascesa verso Dio, in un dialogo costante che si concretizza nei simboli utilizzati, nei luoghi, nei contenuti delle scritture. Egli sembra quasi voler dire, anzi, lo dice: “Imparate da me”. La frase appena citata è contenuta, tra l’altro, in un brano del vangelo di Matteo in cui Gesù invita i suoi seguaci a essere simili a lui nella mitezza e nella mansuetudine, nel farsi piccoli e umili (cap. 11, 29).
Nella mitezza, nella mansuetudine, nel non reagire con la violenza o con la mancanza di rispetto, la sua figura rimane coerente anche da un punto di vista letterario, non solamente intellettuale: ferma, costante fino alla morte, mai in contraddizione. Gesù insegna ai suoi non solo a non uccidere, ma a dare la vita per gli altri; non solo a non rubare, ma a spogliarsi per gli altri; non solo a voler bene agli amici, ma ad amare anche i nemici; non solo a essere brave persone, ma a diventare come Dio. E nel farlo, non indica un modello astratto, qualcuno che sia lontano nel tempo e nello spazio o una divinità sperduta nell’alto dei cieli: indica se stesso, appunto. Dice: “Fate come me!”.
Curiosamente, anche il suo peregrinare in terra d’Israele pare espressione della sua missione che incomincia, con il battesimo nel fiume Giordano da parte di Giovanni Battista, nel punto più basso della Terra (le rive del Giordano intorno a Gerico) e culmina in quello che era ritenuto, immaginario collettivo del popolo ebraico, il punto più elevato: Gerusalemme. Gesù scende, come il Giordano (il cui nome ebraico ירדן, Yarden, significa proprio “colui che scende”) verso il Mar Morto, luogo deserto, spoglio e basso, per condurre verso l’alto, ove sarebbe stato “elevato” da terra e “attirato tutti a sé” (Giovanni 12, 32), ma in senso del tutto diverso da come ci si sarebbe aspettati da lui.
È un peregrinare che trova il suo senso nell’idea stessa del pellegrinaggio ebraico verso la Città santa, che si compiva nelle festività maggiori cantando i “canti delle ascensioni” mentre si saliva dalla pianura di Esdraelon oppure, più frequentemente, dalla strada di Gerico per i monti della Giudea. Per estensione, quest’idea di pellegrinaggio, di “ascensione”, la si ritrova nel concetto moderno di עלייה )‘aliyah), emigrazione o pellegrinaggio in Israele da parte degli ebrei (ma anche dei cristiani) che si recano in Israele per visitare il Paese o viverci (e si definiscono עולים, ‘ōlīm – dalla stessa radice ‘al – cioè ‘coloro che salgono’). Addirittura, il nome della compagnia di bandiera israeliana El Al (אל על), vuol dire “verso l’alto” (e con un doppio senso: alto è il cielo, ma “alta” è anche la Terra d’Israele, e Gerusalemme in particolare.
Infine, il capovolgimento dell’idea stessa di “dominatore del mondo”, che i suoi contemporanei si attendevano, si realizza nel cosiddetto Discorso della montagna, il discorso programmatico della missione di Gesù di Nazaret: sono beati, e quindi felici, non i ricchi, ma i poveri in spirito; non i forti, ma i deboli; non i potenti, ma gli umili; non coloro che fanno la guerra, ma gli operatori di pace.
E poi, non ultimo, il grande messaggio di consolazione all’umanità: Dio è padre. Non, però, un padre collettivo, nel senso di protettore di questo o di quel popolo contro altri, bensì un padre tenero, un “papà” (Gesù lo chiama proprio così in aramaico: אבא, abba) per ogni uomo, come esprime il biblista Jean Carmignac[24]:
Per Gesù, Dio è essenzialmente Padre, proprio come è Amore (1 Giovanni 4, 8). Gesù è innanzitutto “Figlio” di Dio in un modo che nessuno poteva immaginare prima di lui, e così Dio è per lui “il Padre” nel senso più rigoroso del termine. Questa paternità del Padre e questa filiazione del Figlio comportano altresì la partecipazione dell’unica natura divina. [—]
Questo tema occupa un posto così centrale nella predicazione di Gesù che l’incarnazione del Figlio ha per scopo quello di dare agli uomini “il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1, 12) e che si potrebbe definire il suo messaggio come una rivelazione del Padre (Giovanni 1, 18), al fine di insegnare agli uomini che sono figli di Dio (1 Giovanni 3, 1).
Questa verità assume, per bocca di Gesù, una tale importanza da divenire la base del suo insegnamento: le opere buone hanno per scopo la gloria del Padre (Matteo 5, 16), ognuno perdoni agli altri come il Padre gli perdona (Matteo 6, 14-15; Marco 11, 25-26), l’entrata nel regno dei cieli è riservata a coloro che fanno la volontà del Padre (Matteo 7, 21), la pienezza della vita morale consiste nell’essere misericordiosi come il Padre è misericordioso (Luca 6, 36) e perfetti come il Padre è perfetto (Matteo 5, 48). [—]
Da questa paternità di Dio deriva una conseguenza evidente: avendo lo stesso “Padre”, gli uomini sono in realtà dei fratelli che devono amarsi e trattarsi come tali. In ciò sta un principio fondamentale che ispira tutta la morale e tutta la spiritualità del cristianesimo e che il Vangelo si era già occupato di annunciare esplicitamente: “Voi siete tutti fratelli [—] perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Matteo 23, 8-9).
Si conclude così il nostro viaggio alla ricerca del “Gesù storico”, con la consapevolezza che, per credenti e non credenti, la sua figura rimarrà per sempre il più grande e affascinante mistero della storia.
P.S.: Ringrazio Mirko Muccilli per avermi spinto a scrivere questo articolo e l’amico Raffaele Patin, con il suo gruppo di colleghi liceali “storici in erba”, per le domande che mi hanno posto sul tema.
Articoli consultati:
- Réné Latourelle, “Storicità dei Vangeli”, in R. Latourelle, R. Fisichella (ed.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, 1990, pagg. 1405-1431
- Pierluigi Guiducci, “La storicità di Gesù nei documenti non cristiani”, in storiain.net/storia/la-storicita-di-gesu-nei-documenti-non-cristiani/ (consultato nel dicembre 2020).
Note:
[1] Jean Guitton ha elaborato le sue tre “soluzioni” riflettendo sulle tre fasi della ricerca storiografica su Gesù di Nazaret: la Prima, la Seconda e la Terza ricerca. Ritorneremo su tale questione nel prossimo articolo.
[2] Qualche esempio di progresso in merito alle scoperte sul “Gesù storico”, progressivamente separato dal “Cristo della fede” a partire dal XVII secolo, sarà fornito in un articolo dedicato alla ricerca storiografica, alla metodologia e alle fonti su Gesù.
[3] Friedrich Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, 1977, p. 73.
[4] Richard Rorty, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers, Cambridge, 1991.
[5] Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, Centro Pannunzio, Torino, 2008 (pag. 14).
[6] La Terza ricerca, che quindi segue una Prima e una Seconda, è il metodo storico-critico prevalente oggigiorno. Si avvale dell’analisi e dell’ermeneutica del testo per avvicinarsi il più possibile alla forma originale delle fonti considerate (in questo caso quelle su Gesù) e fanno parte studiosi come appunto David Flusser (1917-2000), autore di scritti fondamentali sull’antico giudaismo e convinto, come molti altri ebrei israeliani contemporanei, che i vangeli e gli scritti paolini rappresentino la fonte più ricca e più attendibile per lo studio del giudaismo del Secondo Tempio, data la perdita di altri materiali contemporanei per via della distruzione provocata delle Guerre Giudaiche (tra il 70 e il 132 d.c.).
[7] Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Doubleday, 2017 (pagg. 12-13)
[8] Lo scettro non sarà tolto da Giuda, né il bastone del comando di tra i suoi piedi, finché non venga colui al quale appartiene e a lui andrà l’obbedienza dei popoli.
[9] È ormai quasi universalmente accettato dagli studiosi che l’anno di nascita di Gesù sia il 6 a.C., per un errore commesso del monaco Dionigi il Piccolo, il quale, nel 533, calcolò l’inizio dell’era volgare a partire dalla nascita di Cristo ma la posticipò di circa sei anni
[10] In greco sono definiti μάγοι, mágoi, termine a sua volta derivante dal persiano antico magūsh, titolo riservato ai sacerdoti della religione zoroastriana.
[11] “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli starà là e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiteranno sicuri perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra” (Michea, capitolo 5).
[12] A quell’epoca la distinzione tra ebraismo e cristianesimo non era ancora piuttosto netta. Specialmente tra i pagani, ma anche tra i giudeo-cristiani, si tendeva a considerare cristiani ed ebrei sette della stessa religione.
[13] San Girolamo, Lettere, 58 (Ad Paulinum presbyterum), 3.
[14] San Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 12, 20: «Fino a pochi anni fa il luogo era coperto da un bosco».
[15] Una domus ecclesia è letteralmente una casa/chiesa: i primi luoghi cristiani erano, di fatto, delle case sorte o esistenti in precedenza ove si trovavano luoghi ritenuti sacri (ad esempio la casa di Maria a Nazareth; la casa di Pietro a Cafarnao, ecc.). Le primitive comunità cristiane vi si riunivano per celebrare i loro riti. Le case si trasformarono via via in piccole chiese, ampliandosi, fino a divenire, in alcuni casi, vere e proprie basiliche. Questo particolare processo si può osservare alla perfezione a Cafarnao, ove archeologi francescani e israeliani hanno portato alla luce quella che è universalmente nota come la “casa di Pietro”, una stanza quadrangolare, di circa otto metri di lato, il cui pavimento di terra era stato rivestito di calce alla fine del I secolo e con una pavimentazione policroma prima del V secolo. Sopra, poi, era stato costruito un edificio a pianta ottagonale che poggiava proprio sulla stanza del I secolo. Tale procedimento di indagine archeologica è identico a quello utilizzato a Roma per gli scavi presso la Necropoli Vaticana, sotto l’attuale Basilica di S. Pietro, oppure alle Catacombe di S. Sebastiano, ecc.
[16] Quest’ipotesi sarebbe suffragata dalla Lapide di Tivoli (in latino Lapis o Titulus Tiburtinus)
[17] Ved. nota 9 su Dionigi il Piccolo.
[18] Leggiamo in Flavio Giuseppe (Ant. 18, 109-119): “Erode, infatti, aveva ucciso Giovanni soprannominato battista, quest’uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo. [—] Ma quando altri si unirono alla folla, poiché erano cresciuti in grandissimo numero al sentire le sue parole, Erode cominciò a temere che l’effetto di una tale eloquenza sugli uomini portasse a qualche sollevazione, dato che sembrava che essi facessero qualunque cosa per decisione di lui. Ritenne perciò molto meglio prendere l’iniziativa e sbarazzarsene, prima che da parte sue si provocasse qualche subbuglio, piuttosto che, creatasi una sollevazione e trovandosi in un brutto affare, doversene poi pentire. Perciò (Giovanni), per il sospetto di Erode, fu inviato in catene a Macheronte, la fortezza di cui abbiamo già parlato, e là fu ucciso”. Altro esempio di fonte non cristiana che conferma quanto narrato nei vangeli.
[19] La Pasqua ebraica (פֶּסַח, pesaḥ, “passaggio”, in ebraico) celebra la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio dalla schiavitù alla libertà
[20] Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, 1994 (pag. 177).
[21] Quella che conosciamo oggi, cosa probabile dato che, come sappiamo dal vangelo di Matteo, sopra la testa di Gesù fu affisso un titulum, un titolo recante la motivazione della condanna
[22] Nella prefazione del Libro V dell’opera Adversus haereses (Contro le Eresie), Ireneo di Lione parla di “Cristo che, a causa del suo amore sovrabbondante, diventò ciò che noi siamo per fare di noi ciò che Egli è”.
[23] La vicinanza delle fonti scritte rinvenute su Gesù è un argomento che impressiona gli storici, dato che i più antichi papiri contenenti il Nuovo Testamento risalgono all’inizio III secolo, mentre, ad esempio, il più antico manoscritto completo dell’Iliade risale al X secolo.
[24] Jean Carmignac, Ascoltando il Padre Nostro. La preghiera del Signore come può averla pronunciata Gesù, Amazon Publishing, 2020, pag. 10. Traduzione dal francese e adattamento in italiano di Gerardo Ferrara.
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- Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Mondadori, 1994.
- Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, UTET, 2018.
- Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, Ed. Ares, 2019.
- Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, 1992.
- Joachim Jeremias, Jerusalem in the time of Jesus, Fortress Press, 1969.
- David Flusser, Jesus, Morcelliana, 1997.
- Jean Guitton, Le problème de Jésus, Aubier, 1992.
- Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Doubleday, 2017.
- Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, Pannunzio, Torino, 2008.
- Jean Carmignac, Ascoltando il Padre Nostro. La preghiera del Signore come può averla pronunciata Gesù, Amazon Publishing, 2020.
- Olivier Durand, Introduzione alle lingue semitiche, Paideia, 1994.
- Jean Daniélou, I manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, Arkeios, 1990.
- Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB, 2002.
- Pierluigi Baima Bollone, Sindone. Storia e scienza, Priuli & Verlucca, 2010.