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Generazione Nam: arruolamento, ferma e ritorno a casa del soldato americano nella Guerra del Vietnam
Combattere e morire a 13.000 chilometri da casa
Dalla California del sud al Vietnam, ma potrebbe essere da qualunque luogo degli Stati Uniti. Questo è il viaggio verso la guerra che tanti ragazzi americani compiono abbandonando la tavola da surf per imbracciare un fucile d’assalto M16. E non è certamente una consolazione che a Da Nang ci sia una spiaggia chiamata China Beach dove possono continuare a surfare tra un’operazione e un’altra; e neanche, come hanno notato i cartografi militari, che le coste del Vietnam sembrano quelle della California, seppur al contrario.
No, niente di tutto questo è una consolazione! Perché come sentenzia il tenente colonnello Kilgore in Apocalypse Now, “Charlie don’t surf!”
Charlie – nome con cui venivano identificati i Vietcong – infatti non surfa ma, nelle parole di un generale americano che è voluto rimanere nell’anonimato, c’è la sua quintessenza: “É il miglior nemico che ci sia toccato affrontare in tutta la nostra storia.”
Con queste premesse, ecco la generazione che finisce a combattere e morire in Vietnam dal 1965 ai primi anni Settanta, formata da molti, moltissimi ragazzi maschi della cosiddetta società del benessere e del boom economico, che guarda i cartoni animati di Hanna e Barbera, legge i primi fumetti della Marvel e ascolta i Creedence Clearwater Revival, i quali suonano Fortunate son, una canzone che racconta dei giovani della worker class che più di altri vengono arruolati per la guerra.
Arruolamento e leva obbligatoria
A un anno dallo scoppio del conflitto, nel novembre del 1966, i soldati americani in Vietnam ammontano già a 385. 000 unità, un anno dopo crescono fino a 500. 000, mentre nel 1968 il capo delle forze militari in Vietnam, generale William Westmoreland, richiede altri 206.000 uomini. Solo dall’anno successivo cominciano progressivamente a scendere. Dunque, il totale dei militari americani che prestano servizio nel territorio del Vietnam dal 1965 e il 1975, nei dieci anni di durata del conflitto, è di 2.594.000 di cui 648.500 provenienti dalla coscrizione obbligatoria.
Ma qual è l’iter che porta in Vietnam?
Esclusi i militari di carriera e coloro che hanno scelto l’arruolamento volontario per un periodo di ferma di tre anni, che sono pronti all’evenienza, anche il percorso del coscritto parte dalla Universal Military Training and Service Act, ossia la legge che prevede che tutti i cittadini americani al compimento del 18° anno si debbano registrare per una prima visita chiamata Draft Board. Qui si riceve la Draft Card, cioè il certificato che attesta la classe di leva, in attesa di una possibile chiamata alle armi, almeno sino al compimento del 27° anno di età.
Il sistema di arruolamento si completa a partire dal 1969 con la Draft lottery, una crudele e imprecisa lotteria _ con tanto di palline all’interno di un’urna di vetro _ attraverso la quale la chiamata alle armi avviene per mezzo dell’estrazione della data di nascita o delle iniziali dei coscritti. Sorteggio che viene fatto una volta all’anno e trasmesso in diretta su tutte le reti televisive, registrando l’indice di ascolto più alto. Così, in pochi minuti, il giovane americano passa da l’Ed Sullivan Show al conoscere il proprio destino legato al Vietnam. Tutto questo fino all’abolizione della leva obbligatoria nel 1973.
Dunque, già a partire dai primi anni del conflitto, la possibilità di partire per il Sud Est asiatico è estremamente concreta, sia per quanto riguarda i quadri regolari, sia per chi ha deciso la ferma di tre anni, sia per chi non ha nessuna intenzione di andare in guerra.
Certamente esistono delle esenzioni per i giovani coscritti: svolgere lavori socialmente utili (medici, insegnanti, forze dell’ordine); essere sposati; richiedere il rinvio per motivi di studio, al termine del quale, tuttavia, se non si è superato il 27° anno di età, le probabilità di andare a combattere restano comunque alte. Altrimenti, l’unica possibilità che rimane per evitare il proprio turno in Vietnam, è emigrare all’estero, soprattutto in Canada e Messico dove non vige l’estradizione.
Nel caso in cui il coscritto è dichiarato abile, viene convocato per l’Order to Report for Armed Forces Physical Examination, una visita attitudinale per l’assegnazione ai diversi corpi delle forze armate e immediatamente dopo arriva l’Order to Report for Induction, ossia l’invito a presentarsi al centro di arruolamento di zona, l’Armed Forces Induction Station per il giuramento. Nel giro di non più di 48 ore avviene la partenza per uno dei sette grandi centri di addestramento degli Stati Uniti. Pochi mesi ancora e, il passo da Fort Benning, come da Fort Dix, Fort Jackson, Fort Riley…. all’inferno del Vietnam è brevissimo.
Una guerra da incubo dove la prima linea è ovunque
In un epico discorso ai suoi uomini in partenza per il Vietnam nel 1965 – proprio a Fort Benning in Georgia – il tenente colonnello Hal Moore ci fornisce una epica e cruda anticipazione di quella che sarà la guerra:
“Stiamo andando nella valle dell’ombra e della morte, dove guarderete le spalle all’uomo più vicino a voi, mentre lui guarderà le vostre. E non vi curerete del colore della sua pelle e nemmeno del modo in cui egli chiama Dio. Stiamo andando a combattere un nemico duro e determinato. Non vi posso assicurare che vi riporterò tutti a casa vivi. Ma vi giuro! Quando atterreremo in battaglia sarò il primo a mettere il piede sul campo e sarò l’ultimo a lasciarlo. E non lascerò indietro nessuno, vivo o morto. Noi ritorneremo a casa assieme.”
Un aereo da carico C-141 dell’Air Force o una nave per il trasporto truppe sono i mezzi che traghettano al di là del Pacifico i soldati diretti al fronte. Ma in Vietnam non c’è un fronte, in Vietnam la guerra è dappertutto, senza una prima linea, contro un popolo abituato a combattere da secoli e dove il vietnamita che di giorno è amico, di notte si trasforma in Charlie. Una condizione terribile per la stragrande maggioranza dei ragazzi, volontari o coscritti che siano.
Come racconta il tenente dei Marines William Broyles, “Quella del Vietnam era una guerra da Incubo, la concretizzazione delle paure infantili più profonde.” Una guerra da incubo e una guerra insolita, durante la quale la media di giorni trascorsa in missioni di combattimento è la più alta di tutte le guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto e dove è frequente la tipica operazione di search and destroy, che consiste nell’aviotrasportare le truppe con gli elicotteri in un territorio ostile, attaccare e distruggere obiettivi nemici per poi ritirarsi.
Missioni “Zippo” sono chiamate, come gli accendini che i soldati utilizzano per accendersi le Camel e dare fuoco ai villaggi vietnamiti, talvolta con eccidi incontrollati della popolazione civile come nel massacro di My Lai.
Una guerra, quella che combattono i soldati americani, dove il successo militare è commisurato al conteggio dei morti, ma che i vietcong assorbono con un numero molto più alto di vittime, rispondendo con una tenacia che li porta a sacrificarsi senza remore: un esercito di contadini trasformati in letali e spietati guerriglieri, che già hanno respinto nei secoli ben undici invasioni cinesi e hanno sbaragliato i francesi poco più dieci anni prima a Dien Bien Phu.
“Potete anche uccidere dieci miei uomini mentre io ne uccido uno solo dei vostri” proclama Ho Chi Minh, “ma anche con questa disparità voi perderete e io vincerò.”
Il ritorno dall’Inferno
Finito l’anno in Vietnam il coscritto torna casa, come torna il volontario dal suo ultimo turno. Spesso è un ritorno repentino, ancora più rapido del viaggio d’andata: in poco più di 48 ore si passa dalla giungla alla propria camera da letto, tra i gagliardetti del college e il bastone da hockey appesi alla parete. Spesso si arriva fisicamente integri, spesso mutilati nel corpo e nell’anima.
Il soldato è a casa e inizia la sua vita da reduce _ sovente ha poco più di vent’anni _ in molti casi è afflitto dalla tossicodipendenza: in Vietnam i medici somministrano dexedrina a volontà per affrontare le missioni notturne e nel 1971 il 35% dei combattenti fa uso sistematico di eroina. Inoltre, al giovane reduce, è spesso diagnosticato un disturbo da stress post traumatico: ragazzi irriconoscibili, cambiati brutalmente per gli orrori visti lungo il Mekong e gli altipiani centrali, molti con la sensazione di essere stati ingannati da una guerra che li ha spinti a combattere perché i comunisti non arrivassero nelle fattorie del Midwest, ma che adesso gettano le loro medaglie rinnegando la guerra.
Dunque, eccoli che tornano in un paese che non gli accoglie come eroi, ma da perdenti, con la riprovazione di non aver vinto come avevano vinto i loro genitori e i loro nonni in Corea e durante la due guerre mondiali e con lo sdegno di aver ucciso troppi civili. Per molti veterani il reinserimento nella società deve fare i conti con il rifiuto della società stessa, che di fronte a questi ragazzi invecchiati precocemente _ organizzati nella Vietnam Veterans of America _ nel migliore dei casi si volta dall’altra parte.
La storia della Guerra del Vietnam o Guerra americana _ come viene chiamata in Vietnam _ si può riassumere nella visione di due muri. Nel caso degli Stati Uniti si tratta del muro del Vietnam Veterans Memorial a Washington, inaugurato nel 1982, dove sono elencati i nomi delle vittime americane durante il conflitto. Nel caso invece del Vietnam, si tratta del murales del Museo Storico di Hanoi, dove è rappresentata la millenaria storia del Vietnam e tutte le guerre che sono state combattute sul territorio: alle invasioni cinesi sono dedicati 15 metri del murales, ai 150 anni di occupazione francese solo 30 centimetri.
Alla Guerra americana – o dir si voglia Guerra del Vietnam – 5 centimetri. Solamente 5 centimetri. Questo ci offre uno spunto per comprendere la portata che la guerra ha avuto per il Vietnam a fronte di ciò che è stato invece per gli Stati Uniti con i suoi 58.318 caduti: pochissimi rispetto all’oltre un milione di vietnamiti; una cifra nemmeno tanto alta se si considerano dieci anni di guerra e si compara ad altri più sanguinosi conflitti.
Ma è un dato disarmante se si tiene conto che quel ragazzo ideale è figlio di una società sostanzialmente ricca e dell’America che porta degli uomini a camminare sulla Luna. Uno di quei ragazzi, amareggiati, ingannati, disillusi e tornati a casa mutilati non solo nel corpo è Ron Kovic, che nella sua autobiografia Nato il 4 luglio, scrive di se stesso e della sua vita prima di essere spezzata – come quella di un’intera generazione – dalla guerra in Vietnam:
“Ricordo che era un bellissimo giorno di primavera ed eravamo giovani e pieni di vita e l’aria profumava di fresco. Suonavamo quella canzone e io, immerso nella musica, colpivo la palla con la mia mazza e mi sentivo come se avessi potuto vivere per sempre.”
Consigli audiovisivi:
- Lettere dal Vietnam: https://youtu.be/9Nm1TBYVo9g?si=xPTTJ_iYccVEQQOb
Consigli di lettura: clicca sul titolo e acquista la tua copia!
- Michael HERR, Dispacci. L’orrore del Vietnam, BUR Rizzoli, Milano, 2016.
- Harold G. MOORE, Joseph GALLOWAY, Eravamo giovani in Vietnam, Casale Monferrato, 2002.
- Harold G. MOORE, Joseph GALLOWAY, Nessuno ha lasciato il Vietnam, Milano, 2009.