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Franco Serantini: il figlio di NN
Nel luglio del 1951 al brefotrofio di Cagliari viene abbandonato un neonato. Gli viene dato il nome di Franco Serantini. Dopo due anni nell’istituto, una coppia lo prende in affidamento. Sono la guardia di sicurezza Giovanni Ciotta e la moglie Rosa Alaimo, di origine siciliana, nell’agrigentino, dove i coniugi nel 1955 con il figlio adottivo che ci rimane con nonni e zii adottivi perché Rosa muore di tumore e Giovanni chiede trasferimento a Caltanissetta.
Vi resta fino al 1960, quando la famiglia si sfalda: i figli partono e i vecchi muoiono e Serantini viene affidato all’istituto Buon Pastore di Cagliari, nel degradato quartiere de “il Giorgino”. Qui finisce le elementari e le medie, dove ripete la seconda. Il padrino che gli viene affidato per la comunione e la cresima, Orazio Ancis, è proprietario di una scuola privata, e offre al figlioccio di andare a studiare lì, ma il giovane rifiuta. Vive con indolenza e diventa sempre più chiuso.
A quindici anni le amministrazioni cessano di pagare la retta per il mantenimento di orfani negli istituti e Franco Serantini, come tanti altri, viene cacciato con la scusa di un carattere ingestibile. Si scopre che non ha un tutore, non è mai stato nominato. Non ha niente e nessuno. Viene, sebbene incensurato, indirizzato a un riformatorio, come previsto dalla legge fascista del 1939 per i giovani che “(..) appaiono bisognosi di correzione morale”.
Lo imbarcano su un traghetto per Civitavecchia, da dove si sposta a Firenze, dove viene esaminato all’istituto per l’osservazione dei minori e giudicato dotato intelligenza superiore alla media. Viene destinato all’istituto Pietro Thouar di Pisa, soprannominato dai cittadini il San Silvestro. Si tratta di un istituto immenso, ricco di arte e decorazioni religiose nelle parti comuni e di poster di donne nude nelle camere dei ragazzi, che sembrano celle delle carceri, diretto da Sauro Santarelli.
La vita è ben regolata: sveglia comune alle 7.30 e pasti alle 12.30 e 19.30. Serantini, che qui divide la stanza con Alfredo, riceve, come gli altri, 200 lire al giorno, aiuta nella costruzione e decorazione del carro per il carnevale di Viareggio. Ma i tentativi di suscitare nei ragazzi degli interessi per tenerli legati alla struttura sono spesso vani. Del resto gli educatori qualificati sono veramente pochi in Italia: nei 40 istituti statali solo 154, gli altri 800 addetti sono semplici agenti di custodia. Il giovane Serantini qui è triste insonne, angosciato e l’unica cosa che apprezza è il mantenimento:
“Siccome lo stato mi ha chiuso qui desidero avere tutto ciò che mi è dovuto.”
Se è sfuggito alla delinquenza non è merito del lavoro del personale dell’istituto e dell’educazione ricevutavi, ma della passione politica che dilaga per Pisa (e non solo) dopo il maggio francese. Nella città toscana il sentimento socialista ha radici tardo ottocentesche, ma si concretizza solo a inizio ‘900, subendo una battuta d’arresto dal fasciamo locale, particolarmente duro e reazionario, sostenuto dagli aristocratici.
Nel dopoguerra, quando pur le amministrazioni locali sono per elezioni a maggioranza di centrosinistra, i centri del potere socioeconomico sono nella mani della moderata aristocrazia che ha trovato nei decenni precedenti un terreno fertile per il proprio radicamento. Le difficoltà delle vecchie industrie pisane e il declino al quale va incontro la città però, portano a licenziamenti che innescano una dura battaglia politica dal basso come dall’alto.
Franco Serantini e la Pisa di fine anni ’60
Nel frattempo arriva il ’67 e nel febbraio di quell’anno gli universitari italiani partoriscono quel testamento ideologico, denominato “Tesi della Sapienza”. Sotto l’impulso delle Tesi, a Pisa, la lotta universitaria si fa lotta di classe, e lo slogan “Potere studentesco” si fonde sempre più con quello di “Potere operaio”. Dai giovani ideologizzati si formano, proprio a Pisa, movimenti destinati ad avere un seguito in tutta la nazione. Nasce “Il Potere Operaio”, che nell’arco di un anno raccoglie diversi consensi presso la federazione giovanile del PCI.
Il clima di protesta e lotta si fa sempre più acceso e si registrano episodi di repressione da parte delle forze dell’ordine. il 1968 si chiude, al locale la Bussola di Marina di Pietrasanta, a suon di pomodori e uova lanciati dai militanti recitanti slogan come “Borghesi, il’69 non sarà il vostro anno!” alla borghesia bene in procinto di festeggiare il capodanno. La pacifica manifestazione contro sperperi e opulenza si chiude in tragedia: la polizia spara sulla folla per un’ora. Un ragazzo di 16 anni resta paralizzato. Il PCI stesso si dimostra non in grado di accogliere queste voci e, impaurito dalle potenziali derive dei movimenti nascenti, ne condanna le azioni.
Questa è l’atmosfera nella quale si trova a vivere a Pisa il giovane Serantini che, forse non per merito del San Silvestro, trova uno stimolo nei confronti di qualcosa che mai lo aveva interessato: la scuola. Prende la licenza media e si iscrive all’Istituto professionale di Stato per il commercio. La cultura diventa un modo per lui di cercare un riscatto e nel tentativo di trovarlo inizia a leggere e studiare in modo confuso ma assiduo. Insieme all’entusiasmo acquista anche sicurezza ed esuberanza, qualità considerate eccessive e potenzialmente pericolose dalla direzione dell’istituto, come dimostrano le parole di Santarelli:
“Quando cercavo di frenare la sua irruenza e il suo entusiasmo, dicendogli che avevo paura per lui,
mi rispondeva che non aveva nulla da perdere e che la vita non gli interessava in sé e per sé, ma
che la voleva spendere per l’affermazione dei suoi ideali.”
Il suo rinnovato entusiasmo si sfoga però soprattutto nella politica. Dopo essersi avvicinato alla FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) e alla FGSI (Federazione Giovanile Socialista Italiana) e diventa frequentatore assiduo della sede di Lotta continua con il suo amico e compagno di classe Sauro Ceccanti, fratello del ragazzo ferito alla Bussola. Serantini inizia a frequentare casa Ceccanti e il Cep, il loro quartiere popolare di periferia.
Si affeziona al Cep e insieme ai fratelli e altri ragazzi è tra i protagonisti dell’organizzazione dell’iniziativa del Mercato rosso, idea nata durante una riunione di Lotta continua. Una colletta, mille lire a testa, per comprare in campagna e portare in piazzale Giovanni XXIII pollame, frutta e verdura da vedere a prezzi calmierati al sabato mattina, dal momento quelli dei bottegai locali, contro i quali i ragazzi organizzano picchetti, sono troppo alti.
Anche in questa occasione il PCI si schiera dalla parte del sistema e tra i delusi per l’atteggiamento del partito questa volta c’è anche il giovane Serantini. Gli interessati a sabotare l’iniziativa sono diversi. La polizia inizia a fare visita al piazzale del Cep e un sabato di novembre del 1971 si assiste a un susseguirsi di resistenze e cariche.
Franco Serantini, dopo il Cep: da Lotta continua agli anarchici
Dopo l’esperienza del Cep Serantini si radicalizza. Sta sempre con ragazzi dei gruppi della sinistra extraparlamentare. Frequenta la Sapienza e piazza Garibaldi con i suoi bar. È sempre in giro e quando passa su corso Italia la sera sembra conoscere tutti. In realtà, anche se l’infanzia da figlio di NN sembra essere acqua passata, resta sempre un lupo solitario, come ricorda una sua conoscente, Valeria:
“(..) nessuno gli voleva bene veramente. Conosceva tutti ed era amico di pochi, un cane randagio
con un patrimonio di umanità da donare (..)”.
Tra le sue frequentazioni ci sono anche nomi della Pisa borghese, persone colte e illuminate. Lo invitano a cena, dove Serantini trova quello che cerca più di tutto: amicizia e supporto nello sviluppo del proprio bagaglio culturale acerbo e disorganizzato.
A scuola continua a ottenere discreti risultati ed è sempre alla ricerca di confronti e dibattiti su qualsiasi tema. Parla di storia, di fascismo e di Resistenza con la professoressa di italiano e di società con il cappellano del riformatorio. E mentre si giostra tra lo studio e la ricerca della sua identità inizia a lavorare, nelle ore serali, in un ufficio di perforazione schede.
Il suo obbiettivo principale è conoscere e dare, alle persone e alla politica. Legge moltissimo, soprattutto gli autori anarchici, scrive e ritaglia e colleziona articoli di giornale. Ma la sua pulsione è pericolosa. Gli dice una volta l’ing. Podio-Guidugli, suo amico, mentre parlano di Valpreda, il cui caso rappresenta l’ossessione del giovane Serantini: “Tu sei un Valpreda, una vittima predestinata, stai attento”.
In questa fase Serantini, che inizia a guardare con sospetto di volontà egemonica i compagni di Lotta Continua, con i quali aveva maturato e mai appianato alcuni screzi dai tempi del Mercato rosso, si avvicina sempre di più ai movimenti anarchici e, alla fine del 1971, si unisce al Gruppo anarchico Pinelli, autonomo dalle diverse componenti del movimento, divenuto protagonista della cronaca italiana dal ’68 in poi.
Non conosce molto della storia del movimento e delle sue teorie, a partire da quelle bakuniniane, ma si sente a suo agio in questo gruppo di “vittime della violenza dello stato”. Porta ai nuovi compagni le esperienze di attivismo e aiuta nell’attività politica di elaborazione e distribuzione di volantini propagandistici girando per la città con il suo motorino blu.
Gli ultimi mesi di Franco Serantini
La Pasqua del 1972 Serantini la trascorre in Sardegna. Va trovare le suore del Giorgino e il padrino e rivede i
luoghi della tarda infanzia e prima adolescenza. Tutto il suo ultimo periodo in vita lo passa a fare propaganda per le elezioni del 7 maggio e si informa sulla possibilità di svolgere servizio civile. Nel frattempo il fervore del ’68 è andato scemando nella città di Pisa e al suo posto si sono instaurate tensioni e violenze squadriste. Le elezioni sono vicine.
Il 5 maggio in Largo Ciro Menotti, sono previsti i comizi di Giuseppe Nicolai del MSI e di Enzo Meucci della DC. Amministrazione comunale e parte della rappresentanza politica esprimono perplessità sulla decisione di svolgere i comizi in un luogo così chiuso e affollato perché temono disordini. Arriva da Roma il I Raggruppamento celere, diverse centinaia di carabinieri a supporto delle forze dell’ordine locale per qualche centinaio di potenziali manifestanti tra cui quelli di Lotta continua e gli anarchici.
Arriva la sera dei comizi e quando tocca a Nicolaci i manifestanti iniziano a intonare Bandiera Rossa e slogan contro la polizia. In poco tempo si scatena il caos. Un avvocato che dalla finestra della studio vede la scena, così testimonia:
“( i giovani di Lotta continua) erano su quattro o cinque file, correvano contro lo sbarramento dei poliziotti.
Mi prese una grande emozione, pareva una scena della Corazzata Potëmkin. Poi la polizia iniziò la caccia all’uomo”.
Il sostituto procuratore generale Collesano e il commissario capo della questura di Pisa testimoniano che le cariche e i rastrellamenti vengono ordinati solo dopo che i manifestanti lanciano “pietre e altri corpi contundenti” contro le forze dell’ordine. Dalle testimonianze raccolte si rileva che i rapporti di forza sono di 7 a 1. Le persone fermate sono 27 e 9 gli arrestati per manifestazione sediziosa, violenza e resistenza a P.U., danneggiamento aggravato.
Tra i manifestanti c’è anche Franco Serantini, che insieme ad alcuni compagni sta dietro a una barricata sul Lungarno, quando intorno alle 20 arrivano dal Ponte di Mezzo una quindicina di mezzi e una sessantina di uomini.
Franco Serantini: morte di un giovane anarchico
Franco Serantini può scappare prima che le camionette e i celerini raggiungano la barricata, ma non lo fa. Viene aggredito da alcuni poliziotti, picchiato, arrestato
“perché resosi responsabile di: manifestazione sediziosa, vilipendio alle forze di polizia e altro (..) in occasione di una carica effettuata al fine di respingere una violenza che i dimostranti effettuavano con lancio di pietre, bottiglie incendiarie e altro materiale, lanciava insulti ai tutori dell’ordine”.
In realtà nel verbale dell’interrogatorio al commissario di PS Giuseppe Piromente, che carica Serantini sulla jeep, aver indirizzato epiteti offensivi alle guardie è il motivo per cui Serantini viene manganellato, non ha fatto violenza su nessuno. Durante l’interrogato si dichiara non in grado di fornire le identità degli aggressori. Poco dopo il commissario Piromonte si dimette. In casa ha ancora una fotografia di Serantini.
Viene portato alla caserma Mameli insieme agli altri arrestati. Tra questi ci sono ad esempio Gilda
Benigna Greco e Tiziano Meacci, che testimoniano poi che nello stanzone con banchi nel quale li
hanno condotti tutti insieme:
“(..) Ho visto Franco che stava con la testa reclinata sul banco; sembrava che dormisse tanto che
nessuno riusciva a parlargli.”“(..) Si è seduto a terra con le spalle appoggiate ad un portone che dà direttamente sulla strada. Mi
sembrava che stesse molto male. Era giallo in faccia, non parlava mai e pareva che ogni
movimento gli costasse una enorme fatica.”
Serantini, nonostante le sue condizioni, viene trasferito al carcere Don Bosco. Ci resta per 32 ore. Alle 12.30 del sabato viene portato fuori dalla cella numero 7, sorretto da due guardie perché non si regge in piedi, e interrogato dal sostituto procuratore Giovanni Sellaroli. Qui risponde alle domande a fatica e con la testa appoggiata al tavolo. Dice di non ricordare di aver insultato alcun poliziotto e che alla manifestazione ci era andato “perché ci si crede”. Sellaroli sostiene poi di aver ordinato per Serantini una visita medica. Antonio Cariello, avvocato d’ufficio, dice di non ricordarlo. L’accusato viene visitato solo a metà pomeriggio, 15 ore dopo l’arrivo al Don Bosco. Dice il referto del dottor Mammoli, medico del carcere:
“Ecchimosi palpebra sinistra; numerose contusioni in parte escoriate al dorso, braccia e arti
inferiori, stato si shock; Sympatol – Crtigen – borsa di ghiaccio in permanenza.”
Non viene richiesto nessun esame o un ricovero. Eppure Serantini ha una visibile deformazione fronto-temporale sinistra del cranio e chiunque è in grado di capire che si è rotto la testa. Solo la mattina della domenica una guardia, che nota che il detenuto non è uscito per l’ora d’aria, chiama gli infermieri per farlo portare, in coma, al pronto soccorso del carcere. È troppo tardi. Il 7 maggio 1972 Franco Serantini è morto.
“Non ci credevo perché la morte non esiste a vent’anni”, dice Soriano Ceccanti, che ha saputo quello che è successo. E non è l’unico: la notizia comincia presto a circolare. Lunedì 9, si svolgono i funerali. Sulla bara è stesa la bandiera rossa e nera degli anarchici. Il corteo è di migliaia di persone, viene intonata l’Internazionale e in diversi alzano il pugno.
Dopo la morte di Franco Serantini
Alle 16.30 della stessa domenica un funzionario del Don Bosco presenta la denuncia di morte, nella quale il dottor Mammoli parla di “trauma cranico” e “causa accidentale”, in Comune e chiede di poter trasportare il cadavere. L’impiegato al municipio dice no: manca il nulla osta del procuratore e non sono passate le 24 ore necessarie prima dell’inumazione.
Si scatena subito una polemica. Non solo Lotta continua denuncia un “assassinio e tentativo di seppellimento”, ma anche il PCI inizia una sua campagna volta a ottenere chiarimenti. Alle 17.30 di lunedì 8 maggio all’Istituto di medicina legale dell’università si svolge l’autopsia del cadavere di Serantini, un “corpo massacrato”.
Le indagini avviate diventano due: quella per i fatti del 5 maggio e quella, contro ignoti, per la morte del giovane anarchico, entrambe in mano a Sellaroli, fortemente attaccato da stampa e opinione pubblica per non aver agito dopo aver constatato le condizioni di Serantini durante l’interrogatorio del sabato mattina. Il sostituto procuratore si difende richiamando la relazione del dottor Mammoli e alla prescrizione di “borsa del ghiaccio”:
“Dopo si vede tutto nitidamente. Ma allora, che cosa potevo fare io? Non ebbi la sensazione della
gravità del male.”
Il procuratore Calamari chiede che per Serantini i reati vengano estinti per la di lui morte. Il magistrato Paolo Funaioli porta avanti la sua indagine e il 12 giugno deposita una sentenza istruttoria nella quale si specifica che solo il reato di oltraggio è estinto per morte, la radunata sediziosa, la resistenza a pubblico ufficiale e il lancio di oggetto contundenti perché non commessi. La sezione istruttoria della Corte d’Appello di Firenze, il 6 ottobre formula una sentenza diversa, conforme a quanto richiesto dal PG: tutti i reati sono estinti per morte.
L’inchiesta contro ignoti per l’omicidio del giovane anarchico ha invece altro decorso caratterizzato rallentamenti dovuti all’omertà e “disturbi”, come il tentativo da parte di Calamari di trasferire tre magistrati democratici (tra cui Funaioli). La perizia medico legale viene depositata nell’ottobre del 1972:
“(..) insufficienza cardio-circolatoria causata da un gravissimo quadro pluricontusivo
interessante la regione cefalica, il tronco, gli arti (..) le lesioni riscontrate sul cadavere sono tutte
dovute all’azione di corpi contundenti”.
La sentenza del giudice Nicastro, del maggio 1975, dichiara di non dover procedere perché gli autori dell’omicidio sono ignoti. Il dottor Mammoli e il maresciallo Vincenzo Lupo vengono prosciolti. Gli unici condannati, a poco più di sei mesi con condizionale, sono il capitano Amerigo Albini e la guardia Mario Colantoni per aver affermato il falso e taciuto informazioni. Vengono poi assolti nel 1977. Il dottor Mammoli, scagionato dal processo, viene punito con un attentato rivendicato dal gruppo Azione Rivoluzionaria, gli sparano alle gambe.
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- Corrado Stajano, Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini, Il Saggiatore, 2019