CONTENUTO
La fondazione dell’Istituto San Filippo Neri per la prima infanzia di Portogruaro
L’Istituto San Filippo Neri per la prima infanzia, inizialmente denominato “Ospizio dei figli della guerra”, viene fondato a Portogruaro il 2 dicembre 1918, da mons. Celso Costantini, per accogliere ed allevare tutti quei bambini nati da donne vittime di stupri nell’anno di occupazione o che hanno avuto delle relazioni sentimentali durante l’assenza dei propri mariti impegnati al fronte.
Il fondatore Don Celso Costantini, il quale rimane presidente dell’Istituto fino al 1922, era nato il 3 aprile 1876 a Castions di Zoppola in provincia di Udine. Ordinato sacerdote il 28 dicembre 1899, dall’8 luglio 1915 aveva assunto la reggenza della parrocchia di Aquileia, dove, tra le tante cose, si era fatto promotore del restauro della basilica, e subito dopo la fine del conflitto era stato nominato vicario generale della diocesi di Concordia[1].
Con l’apertura di questa struttura di ricovero si tenta di dare una risposta immediata e pratica al problema dei “figli del nemico e della colpa”, altrimenti esposti al rischio di maltrattamenti e, nella peggiore delle ipotesi, di infanticidi. Come sottolineato, infatti, dallo statuto dell’Istituto, l’obiettivo è quello di “ricoverare, mantenere, educare” e allevare tutti quei fanciulli bisognosi di assistenza e vi possono essere ammessi bambini appartenenti a qualsiasi comune del Regno, anche se viene ben specificato che la preferenza è rivolta alle creature concepite durante la guerra e nate nelle terre liberate.
Il San Filippo Neri, nelle sue prime settimane di attività, viene sovvenzionato da diversi enti statali e locali e da singoli privati, ma è chiaro che per poter sopravvivere ha bisogno del riconoscimento e dell’aiuto economico della Stato.
Il 7 febbraio 1919 la Direzione Generale degli affari civili, oltre a proporre al Consiglio dei Ministri un progetto di decreto-legge nel quale è previsto che lo Stato si faccia carico dei fanciulli nati da donne italiane durante i mesi di guerra e li educhi a puri “sentimenti italiani”, inizia a sollecitare il governo affinché si interessi seriamente e concretamente alla vicenda:
Durante l’occupazione nemica donne italiane sono state vittime di violenze. Lo Stato non può disinteressarsi della sorte di tanti bambini, quando le madri non abbiano la forza morale o la possibilità di mantenerli presso di sé ed allevarli, né può non preoccuparsi del grave turbamento che la presenza di tali bambini produrrebbe nell’ordine delle famiglie, specialmente quando si tratti di figli di donne coniugate. Se il delitto che colpisce anche uno dei più nobili sentimenti umani non può essere riparato, è doveroso provvedere almeno per le conseguenze di esso, e per eliminare la possibilità di maltrattamenti, allontanando gl’innocenti, prova vivente, continua, dolorosa del delitto. Salvo ad esaminare in seguito, se e quali altri provvedimenti sia il caso di adottare, appare manifesta l’urgenza che lo Stato assuma, quando le madri lo richiedano, la protezione dei fanciulli e la spesa per il loro allevamento[2].
Il mese successivo, precisamente il 18 marzo 1919, il Segretario Generale per gli affari civili del Comando Supremo, invia la sua relazione alla Presidenza del Consiglio dei ministri per spingere ulteriormente lo Stato ad interessarsi del destino delle gestanti e dei figli illegittimi di guerra, la nascita dei quali rappresenta contemporaneamente un fenomeno di carattere politico e sociale.
Il 27 marzo, invece, il Direttore Generale dell’amministrazione civile, facendo riferimento alle richieste del Segretariato Generale e ritenendo la relazione di quest’ultimo superficiale e poco chiara su alcuni punti, avanza un proprio consiglio su come impostare e risolvere la questione. Riprendendo l’appellativo “figli della guerra” utilizzato precedentemente avanza le seguenti proposte:
L’espressione non è molto chiara, né sembra che il detto Segretariato stabilisca la questione nei suoi veri termini; in tal modo non riuscirebbe facile una soluzione. A parere invece di questa Direzione Generale la questione dovrebbe essere impostata differentemente; distinguendo:
1° il caso delle donne italiane rimaste vittime della VIOLENZA della soldatesca, nonché dei nati o nascituri da tale violenza
2° e quello delle donne che VOLONTARIAMENTE abbiano avuto rapporti illegittimi con soldati
Le prime meritano tutta l’attenzione del Governo; per le seconde invece non occorrerebbe emanare alcuna disposizione. Ma se dal punto di vista teorico tale distinzione è possibile, nella pratica invece le indagini dirette a tale scopo riuscirebbero difficoltosissime e molte volte assolutamente impossibili; si potrebbe anzi ricorrere a criteri di approssimazione, a presunzioni; ma non si potrebbe mai distinguere il caso di violenza dal caso di unione volontaria[3].
Vista la situazione, è necessario prendere provvedimenti riguardanti l’assistenza alle gestanti ed ai piccoli nascituri, ma anche in questo caso bisogna fare una distinzione tra le donne sposate e le nubili:
Invece bisogna bene distinguere i provvedimenti in materia di diritti privati da quelli d’indole amministrativa. Per quanto riguarda lo stato civile dei nati o nascituri, non pare che sia opportuno emanare norme speciali; vi sono disposizioni nel codice civile che regolano l’azione di disconoscimento delle paternità ed in genere le condizioni dei figli naturali ed adulterini; in tale materia sarebbe ben difficile emanare norme speciali nel caso presente senza venire a turbare l’ordine delle famiglie. Per quanto riguarda invece la materia dell’assistenza alle gestanti e dai nati da dette unioni illegittime occorre distinguere l’unione delle donne che trovavasi (sic) già legate in matrimonio dalle altre.
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Per le prime ci si può richiamare alle norme ordinarie, che consentono l’ammissione delle povere gestanti negli ospedali in caso di imminenza di parto, nonché le disposizioni relative agli esposti; al più le disposizioni della legge 17 luglio 1890 potrebbero essere applicate in modo più largo, e cioè consentire il ricovero delle gestanti anche se abbiano una casa di abitazione ed anche per un periodo più lungo anteriore al parto; per le istituzioni che accoglieranno con tali maggiori facilitazione dette povere donne ed i loro nati il Ministero potrebbe concedere un sussidio.
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Per quanto riguarda invece le donne già legate al vincolo di matrimonio sembra preferibile lasciare al riguardo piena libertà alle madri di trovare modo per risolvere la loro difficile condizione, seguendo la propria coscienza; uno dei mezzi e forse il più opportuno per sottrarsi alla manifestazione palese del proprio stato doloroso sarebbe quello del ricovero in istituti di maternità per il periodo di avanzata gravidanza e di puerperio. A quelle istituzioni che intendano di accogliere tali povere derelitte, quando queste non si trovino in condizioni economiche di provvedere a sé stesse, il Ministero potrebbe corrispondere un congruo sussidio[4].
Poiché le varie sollecitazioni inviate al governo rimangono senza risposta, nel senso che non viene preso nessun provvedimento specifico in merito alla questione, il 12 giugno 1919 Don Celso Costantini scrive personalmente al Ministero dell’interno. Dopo aver illustrato il problema dei figli nati dalla violenza nei suoi molteplici aspetti, ed aver rivendicato, allo stesso tempo, con orgoglio, la singolarità dell’azione svolta dalla sua Opera pia, sottolineando che sino a quel momento sono stati ricoverati 168 bambini, il sacerdote chiede degli aiuti economici allo Stato e l’erezione dell’Istituto in Ente morale:
Appena avvenuta la liberazione delle terre del Veneto, si è affacciato il problema dei figli di guerra, cioè di quegli infelici bambini – frutto della violenza o della colpa – nati durante la dominazione nemica da donne maritate mentre i loro mariti erano nelle file dell’esercito italiano. Il problema aveva due aspetti; uno d’indole morale e sociale che domandava una soluzione pratica e immediata: cioè l’allontanamento degli intrusi dalle famiglie oltraggiate, per salvaguardare l’incolpevole esistenza degli infelici e per rendere meno difficile la ricomposizione dell’istituto famigliare.
Il secondo aspetto del problema riguarda la figura giuridica di questi bambini, che hanno una falsa paternità. Ma esso non ha carattere di urgenza. Io mi sono adoperato a risolvere la parte pratica del problema, che non consigliava dilazioni. Poiché i bambini per la loro pseudo-legittimità non potevano essere accolti nei brefotrofi, ho aperto a Portogruaro un apposito Istituto, chiamandolo Ospizio dei figli della guerra.
Ho ricoverato a tutt’oggi 168 bambini e inoltre 47 gestanti, che fuggirono da casa temendo l’ira del marito reduce dalle armi. L’accertamento del loro stato civile risulta da precisi documenti. L’Ospizio è l’unico Istituto del genere e ha accolto bambini da tutte le Provincie liberate. Si appresta ad accogliere pure i figli della guerra delle terre redente; e a tal uopo si stanno prendendo gli opportuni accordi col Comando Supremo (Affari Civili) che già si è mostrato largo di aiuti a questo Ospizio. Esso è vissuto fin’ora dell’assistenza datagli dal Comando Supremo e con le offerte del Ministero delle Terre Liberate, delle Provincie e della carità privata. Ma è tempo di pensare a dargli una consistenza sicura, perché possa adempiere con mezzi adeguati ai suoi alti fini umanitari e civili.
Per la pratica fatta credo di poter indicare con una cifra abbastanza approssimativa il numero dei figli della guerra delle terre liberate; dedotta la inevitabile mortalità, essi, sommeranno a duecento (in questo numero non sono compresi quelli delle terre redente). Essi comportano una spesa annua, comprese le nutrici e le infermiere. Ora io domando che il R. Governo, interessandosi come si interessa a questo grave problema etico, sociale e politico, assegni per dieci anni un contributo annuo di L. 50 mila. Nel frattempo verrà risolta anche la questione giuridica di questi orfanelli della patria, che verranno a trovarsi nella condizione degli esposti. Allora converrà mescolarli ad altri trovatelli, perché non serbino in faccia al pubblico il marchio della loro triste origine. Ma noi non li abbandoneremo. Mettendoci d’accordo con altri Istituti affini, creeremo delle colonie agricole allevando i bambini all’arte sana dei campi, istruendoli ed educandoli in modo da formare buoni cittadini, finché, raggiunta la maggiore età, trovino un posto onorato nella vita[5]
Esattamente tredici giorni dopo il parroco invia una breve missiva anche al re Vittorio Emanuele III di Savoia chiedendogli di elevare l’Ospizio in “Opera nazionale” poiché, “accogliendo tutti i bambini delle terre liberate e redente che non potevano essere ricoverati nei brefotrofi”, l’Istituto, con temerarietà ed impegno assoluto, si sta occupando di “un doloroso postumo della guerra” che rappresenta “un problema nazionale”[6].
Dopo il parere favorevole espresso dal Consiglio di Stato, sulle tante richieste avanzate in quei mesi, con un decreto legge del 10 agosto 1919, firmato dal sovrano Vittorio Emanuele III e dal Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, l’Istituto di Don Celso Costantini viene definitivamente riconosciuto quale Opera pia ed eretto a “Ente morale”.
Tra gli obiettivi dell’Istituto non appare l’interesse di indagare ed approfondire il tema relativo alle violenze subite dalle donne, soprattutto a causa di una certa riluttanza diffusa all’epoca tra gli uomini di chiesa, e non solo, nel trattare tematiche legate alla sfera sessuale. Infatti gli stupri hanno un ruolo del tutto secondario rispetto alla finalità fondamentale che è quella di venire incontro ai tanti sventurati, nutrendoli ed allevandoli in nome della carità cristiana, ed eliminando in tal modo il seme della discordia all’interno delle famiglie per permettere alla coppia di ricongiungersi sentimentalmente e prolificare di nuovo.
I figli del nemico: l’Istituto San Filippo Neri per la prima infanzia di Portogruaro
Il San Filippo Neri ricovera nei primi quattro anni di attività, 355 bambini, il primo vi entra ufficialmente il 23 dicembre 1918, mentre l’ultimo viene accolto il 9 maggio 1922[7]. La beneficienza di singoli privati è fondamentale per avviare l’attività dell’Opera pia. Una signora che aveva devolto una piccola somma di denaro in beneficienza incarnò perfettamente lo spirito caritativo dell’Istituto affermando che “i bambini non avevano diritto di nascere ma hanno diritto di vivere e noi dobbiamo fare di loro, anche se figli del nemico, dei buoni cittadini”[8].
Nel retro del piccolo opuscolo di Don Celso Costantini stampato nell’agosto 1919 ed intitolato “Figli della guerra” è rappresentato un neonato in fasce e sotto l’immagine una didascalia che recita: “Anime gentili si adoperano a procurarci un nido e un tetto. Portate anche voi un pò di pietà per questa casa del dolore e dell’amore”.
Luigi Luzzatti, uno dei collaboratori ed ispiratore insieme al Costantini dell’Istituto, afferma che ai poveri figli della guerra bistrattati e disprezzati da tutti non resta che un solo rifugio, quello della “divina pietà, rappresentata in terra dagli alti doveri dello Stato e dalla carità dei privati”, azione doverosa poiché “se la Nazione è responsabile delle loro esistenze, è anche responsabile delle loro redenzioni”[9]. Per questo motivo, egli domanda alle istituzioni, per questi sventurati, un interesse ed “un’assistenza analoga a quella stabilita per gli orfani di guerra”[10].
Il ritorno dei soldati dal fronte e i ricongiungimenti familiari, questione trattata anche, con toni molto scherzosi ma allo stesso tempo tragici, nel romanzo di Ulrico Arnaldi del 1919, intitolato “Il ritorno dei mariti”[11], sono il più delle volte traumatici e complicati. Assai significativa è la testimonianza di Don Celso Costantini riguardante lo shock ed il crollo di certezze dei soldati nel momento in cui hanno appreso la sventura che si è insinuata all’interno della famiglia:
Uomini, che avevano guardato in faccia alla morte con ciglia asciutte e con cuore d’acciaio, me li son trovati davanti come cenci, stroncati, istupiditi, disperati” che esclamavano “meglio se fossi morto al fronte. Meglio se mi fossi sentito dire che lei era morta…[12].
A volte anche gli stessi parenti delle donne vittime di stupri non vedono di buon occhio i nuovi arrivati, i quali, molto spesso, vengono allontanati dalle mura familiari per evitare che siano oggetto delle loro angherie. Significativo è lo sfogo di un anziano, residente in un paese vicino Pordenone, il quale avendo perso due figli durante la guerra, si trova nella spiacevole e dolorosa situazione di vivere con la nuora e con il bambino da essa partorito durante i mesi dell’occupazione e frutto di una violenza carnale:
Io non posso dormire. – E nella notte, quando sento piangere il bambino, penso che egli forse è figlio di colui che mi ha ammazzato i miei ragazzi. Il bambino non ha colpa; ma io non posso sentire quella voce. Bisogna portarlo via[13].
Quotidianamente presso l’Istituto si assiste a scene drammatiche e tristi di madri addolorate ed affrante, che si chinano per accarezzare le loro creature, “curve sotto un fardello di vergogna e di angoscia” col quale avrebbero dovuto convivere fino alla morte. Dal diario dell’Ospizio viene ripreso un episodio risalente al 15 luglio 1919 in cui la morte di uno dei tanti “figli della guerra” e della sventura, dopo le unitili ma amorevoli cure materne, suscita nell’animo del marito della donna un senso di liberazione misto a frustrazione:
Da due giorni il piccolo era tanto malato, da due giorni la madre dolorosa, immobile presso la culla, piangeva in silenzio e pregava. Stamane il bambino era ormai agonizzante; la madre con infinita dolcezza inumidiva le tenere labbra riarse. Il piccolo è morto. Nello stesso momento la donna era chiamata in parlatorio; il marito era giunto. La dolorosa ha avuto un attimo di rivolta, (sic) ma poi ha acconsentito ed è discesa. Il marito, cui la notizia della morte aveva dato come un senso di liberazione, ha guardato prima quasi con maraviglia (sic) gli occhi della donna arrossata dal pianto, poi l’ha investita brutalmente: – Ed hai anche il coraggio di piangere davanti a me, svergognata! – E poi tutto l’antico, crudele dolore che pareva vinto è tornato a prorompere, ed a chi le parlava di pietà, di perdono, l’uomo diceva: – Tre anni, tre anni di trincea, pensando sempre a lei ed al nostro bambino.
Quando si andava a riposo e si trovava qualche cosa, tutta la mia gioia era di comperare qualche piccolo oggetto per portarglielo quando ci saremmo ritrovati! Dio solo sa che cosa è stato l’anno di invasione, in trincea senza mai sue notizie. E poi la gioia folle della vittoria, la corsa a casa, per trovare, che cosa? Tutto, tutto mi ha distrutto la guerra: sono povero; lei preferivo trovarla morta, vede, morta per poterla piangere e ricordarla come prima. Come dovrò fare per togliere il mio nome a suo figlio? Nemmeno morto lo deve portare il mio nome…E lei lo piange, ha visto che occhi? Ma dunque gli voleva bene, ma dunque lo ha amato quell’altro? Ed io ero in trincea[14].
Don Celso Costantini e l’Istituto San Filippo Neri della prima infanzia
Seguendo sempre il diario dell’Ospizio, in esso, si fa riferimento anche ad una madre che ogni giorno si reca personalmente a verificare le condizioni di salute della sua bambina e che, come punizione per il suo incondizionato amore materno, deve subire l’abbandono del marito, il quale si porta via con sé le due figlie legittime:
Ed un bel giorno l’ha abbandonata portandosi via le due bambine legittime; le ha portate lontano, in un collegio, le hanno detto, chi sa dove. La madre non lo sa, le cerca, le cerca, ma l’Italia è tanto grande e il suo affannoso cercare è tanto grave! Per trovarle ha abbandonato questa, la piccola sua e dell’ufficiale nemico, scomparso anche lui per sempre. (…) Non ha più nessuno, perché questa, la creaturina inconsapevole senza babbo, che le ha sorriso, non potrà mai riprenderla mai. Anche se il marito non perdona, i parenti non lo permetteranno. E’ la tedesca[15].
Tale esempio rappresenta al meglio quanto il distacco sia doloroso e rende evidente che “l’allontanamento del bambino dalla famiglia non sempre riusciva a spezzare il legame madre-figlio, che si alimentava” molto spesso “attraverso brevi fughe della donna – sempre all’insaputa del marito o dei parenti e in contravvenzione delle regole dell’Istituto – per poter rivedere anche per poco il figlio perduto”[16]. Dai documenti e dalle lettere conservate nell’archivio dell’Istituto San Filippo Neri[17], è possibile cogliere inoltre tutti i timori e le paure provate dalle donne, soprattutto per l’incolumità dei neonati, che, insieme alle costrizioni dei mariti, sono la causa principale dei tanti ricoveri di bambini, frequentemente etichettati dalla comunità con termini dispregiativi quale “intruso”, “tedesco”, “tedeschetto”, “cancro”, oltre a “frutto della colpa e del peccato”[18].
Per le molte famiglie “disonorate”, dunque, la decisione di affidare alle cure dell’Ospizio le creature della vergogna è un modo sia per tentare di chiudere definitivamente la dolorosa “parentesi della guerra” e sia “per allontanare lo scandalo dalla comunità”[19], evitando ulteriori scherni e prese in giro. Nei nuclei familiari in cui le giovani, non ancora sposate, hanno dato alla luce una creatura, frutto di una relazione o di uno stupro, emergono spesso contrasti e litigi con i genitori o con i fratelli che hanno combattuto per la patria e che non possono tollerare in casa una presenza tanto ingombrante ed umiliante.
L’Istituto, la cui attività di ricovero cessa nel settembre 1928, riesce a beneficiare per dodici anni di fondi e di sovvenzionamenti da parte dello Stato, che si fa carico dell’educazione dei bambini sborsando 50.000 L. all’anno. A partire dalla fine del 1928 i maschi sono “destinati in collegi artigianali e colonie agricole per completare la loro istruzione ed essere avviati all’apprendimento di un mestiere”[20], mentre le ragazzine vengono mandate in altre strutture più consone e più idonee al loro sesso. Dei 355 neonati ricoverati all’Ospizio di Don Celso Costantini si calcola che 106 vengono “riconsegnati alla madre o alle famiglie d’origine” non appena compiuta la maggiore età, “17 sono affidati per successiva adozione” e “solo 17 figli della guerra rimangono nell’Istituto”[21].
Questo angoscioso problema dei bambini del nemico in Italia venne risolto, stando alle parole di Don Celso Costantini del 1919, seguendo “criteri più generosi” e più flessibili rispetto a quello che, invece, viene fatto in Francia dove si è molto parlato della questione, ma si è concluso poco dal punto di vista pratico.
Il sacerdote ha ragione riguardo al fatto che in Francia ci si preoccupa molto di mantenere oscure le origini dei neonati; infatti, le misure, basate sull’estensione di leggi preesistenti, che sono state adottate dal Ministero dell’Interno in una circolare del 24 marzo 1915, e che avrebbero dovuto rappresentare un aiuto concreto alle donne vittime di stupri, prevedono la possibilità di trasferire queste ultime a Parigi per il parto; dopodiché esse possono scegliere “se tenere il bambino, o abbandonarlo; in questo secondo caso, il neonato veniva assegnato a un ospizio d’infanzia, mentre sulle sue origini doveva “essere conservato un assoluto segreto”[23].
Nonostante l’assenza, nel territorio transalpino, di un’apposita e specifica struttura per accogliere ed allevare queste “particolari” creature, va detto che il governo italiano prende direttamente spunto da quel che si è fatto in Francia, per i propri provvedimenti di carattere amministrativo ed economico relativi al problema delle maternità imposte dalle violenze.
Questo aspetto emerge chiaramente durante la seduta della Camera, del 28 settembre 1919, nella quale viene presentato il disegno di legge preparato dal Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Francesco Saverio Nitti, dal Ministro del Tesoro Carlo Schanzer e dal Ministro per la ricostruzione delle Terre liberate Cesare Nava, e riguardante le disposizioni da prendere per l’assistenza alle gestanti ed ai figli illegittimi nati nella zona delle operazioni belliche. Esso si articola in tre punti che di fatto prevedono il rimborso ed il contributo da parte dello Stato nella spesa per l’assistenza infantile, che però sarebbe stato corrisposto sino al dodicesimo anno di età dei bambini e non oltre.
Nella proposta e nella presentazione del decreto legge viene sottolineato il carattere inusuale della situazione che il conflitto ha generato e di cui ci si trova di fronte e l’aumento vertiginoso delle nascite nelle zone occupate, rende non più soddisfacenti e realmente utili le disposizioni risalenti alla fine dell’Ottocento che regolavano tale materia. Era necessario, dunque, l’approvazione di tale legge, ma per realizzare una totale “opera di pacificazione” e di ritorno alla normalità, sarebbe stato indispensabile e fondamentale l’indulgenza ed il buon senso della popolazione veneta e friulana nei confronti delle famiglie disonorate:
Onorevoli colleghi!
La violenza nemica nel territorio invaso e la promiscuità di vita fra la popolazione civile e le truppe, sia nazionali che straniere, nella zona delle operazioni belliche, hanno reso più grave e delicato in quelle regioni il problema dell’assistenza alle gestanti ed ai figli illegittimi colà nati, e più doverosa ed urgente la necessità di provvedervi in modo adeguato. Per le disposizioni in vigore (art. 79 della legge 17 luglio 1890 n. 6972) le gestanti, tanto legittime che illegittime, hanno diritto al ricovero negli ospedali, ospizi ed altri istituti analoghi, quando siano prive di idonea abitazione e si trovino nella imminenza del parto. La spesa relativa è a carico dei comuni. Alla assistenza degli illegittimi abbandonati provvedono in brefotrofi e in altri istituti le provincie di appartenenza dei ricoverati. Queste disposizioni, se possono ritenersi appena sufficienti ai bisogni dell’assistenza in tempo ed in ambienti normali, debbono invece considerarsi inadeguate alle esigenze create dell’invasione e dalla guerra in una nobile parte del nostro territorio. Si trattava, invero, di provvedere non solo al numero normale di donne nell’imminenza del parto, ma anche a tante altre gestanti, sia nubili che coniugate, vittime dell’altrui violenza o della propria debolezza, che avevano bisogno di celare il loro stato, per sottrarsi alla vergogna, spesso immeritata, e per evitare dissidi familiari e persino delitti. Si trattava e si tratta tuttora di assicurare l’assistenza non solo agli esposti che normalmente nascono da genitori ignoti, ma anche a tanti altri piccoli incolpevoli, frutto di esecranda violenza e di illegittimi amori, che, ove non potessero essere accolti dalla pubblica assistenza, rimarrebbero facile vittima d’infanticidi ed oggetto di maltrattamenti o di disprezzo da parte dell’ambiente familiare estraneo ed ostile, in cui sarebbero condannati a vivere. Se a questi maggiori bisogni possono tecnicamente provvedere gli istituti già esistenti, ospedali, sale di maternità, brefotrofi e simili, ed altri analoghi con filantropico slancio creati durante la guerra, alla spesa relativa non possono però essere obbligati a provvedere gli enti che vi sarebbero tenuti per le leggi in vigore. E a tali mezzi finanziari non può che provvedere lo Stato, dato che le maggiori necessità cui essi sono destinati, derivano dalla guerra e devono quindi valutarsi con criteri analoghi a quelli vigenti pei danni di guerra. Il distinguere le gestanti e gli illegittimi di guerra riuscirebbe nella pratica molto difficile, e darebbe in ogni caso luogo ad indagini lunghe e malagevoli, che ritarderebbero di molto il pagamento della spesa e quel che più importa nel caso in esame, violerebbero quel delicato riserbo che è indispensabile ad impedire umiliazioni, e gravi turbamenti nell’ordine delle famiglie. Dopo maturo studio, è sembrato pertanto più opportuno, così dal punto di vista amministrativo come da quello sociale, di partire dalla presunzione generica che il maggior numero dei ricoveri di gestanti povere e della prima infanzia in rapporto a quelli verificatisi nel 1915 sia dovuto allo stato di guerra, e che la spesa relativa debba essere sostenuta dallo Stato in tutto o in parte. (…) Onorevoli colleghi! Ai criteri suaccennati s’ispira il presente schema di legge, che pur contenendo provvedimenti di carattere amministrativo (in analogia a quanto si è fatto in materia dalla Francia e da altre nazioni alleate, che hanno patito l’onta e il danno dell’invasione) si ripromette di ottenere, in via indiretta, per mezzo di essi, risultati largamente benefici anche nell’ambiente familiare e sociale delle provincie invase e tormentate dalla guerra. Ed a compiere questa nobile opera di pacificazione, oltre che i mezzi materiali che lo Stato può fornire, molto varranno la retta coscienza e l’innata bontà d’animo delle popolazioni venete, le quali, come hanno saputo nelle ore oscure della Patria strenuamente combattere e soffrire, così sapranno, conseguita la vittoria, generosamente indulgere e perdonare. L’alto dovere che la nazione ha di risanare tutte le piaghe della guerra, ed in ispecie quelle più tristi, mi danno la certezza che al disegno di legge, che ho l’onore di presentarvi, non potrà mancare il vostro più largo suffragio[24].
Questo atto di governo, convertito in legge il 20 novembre 1919 e registrato dalla Corte dei Conti nel mese di dicembre, rappresenta la doverosa e giusta risposta data dallo Stato italiano al problema dei figli della guerra o figli del nemico. In questo modo esso non si disinteressa della faccenda, ma, anzi, tenta di andare incontro alle esigenze delle famiglie colpite da tale sciagura. Sovvenzionando i vari istituti, le istituzioni governative offrono un aiuto concreto e dimostrano che, più di qualsiasi altra cosa, il loro desiderio è quello di riportare la serenità e la pace sia all’interno delle pareti domestiche che tra le comunità cittadine.
Note:
[1] G. Bertuccioli, COSTANTINI, Celso, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 30, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1984.
[2] ACS, Ministero dell’interno, Direzione generale amministrazione civile, Opere pie (1919-1921), Busta 106, fasc. Portogruaro Istituto San Filippo Neri per la prima infanzia.
[3] ACS, Ibidem, Appunto pel Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 27 marzo 1919.
[4] ACS, Ibidem.
[5] ACS, Ibidem, Lettera di Celso Costantini al Ministro dell’Interno, Roma, 12 giugno 1919.
[6] ACS, Ibidem, 25 giugno 1919.
[7] Laura Calò, “Le donne friulane e la violenza di guerra durante l’occupazione austro-tedesca 1917-1918”, cit., p. 125.
[8] Celso Costantini, I figli della guerra, Tipografia-Libreria-Emiliana, Venezia, 1919, p. 12.
[9]Ibidem, pp. 5-6.
[10] Per saperne di più sulla legislazione a favore degli orfani di guerra si veda: B. Montesi, Le trincee hanno dolori muti, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 52, 2009.
[11] U. Arnaldi, Il ritorno dei mariti, A. F. Formiggini Editore, Roma, 1919.
[12]C. Costantini, I figli della guerra, cit., p. 9.
[13] Ibidem, pp. 9-10.
[14] Ibidem, pp. 17-18.
[15] Ibidem, pp. 20-21.
[16] A. Falcomer, Madri e figli della guerra e della violenza, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 10, 2009, p. 88.
[17] Per saperne di più sull’attività dell’Istituto e per un’analisi sulla documentazione conservata nel suo archivio si veda: A. Falcomer, Gli orfani dei vivi. Il destino dei “figli della guerra” nell’attività dell’Istituto San Filippo Neri (1918-1947), Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari di Venezia, a. a. 2006-2007.
[18] A. Falcomer, Madri e figli della guerra e della violenza, cit., p. 86.
[19] Ibidem, p. 85.
[20] Ibidem, p. 82.
[21] Ibidem, p. 83.
[22] C. Costantini, I figli della guerra, cit., pp. 39-40.
[23] A. M. Banti, L’onore della nazione, cit., p. 362.
[24] Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Assistenza alle gestanti ed ai figli illegittimi nati nella zona delle operazioni belliche, Legislazione XXIV, Sessione 1913-1919, vol. 32, Disegni di legge, pp. 1-3.
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- A. M. Banti, L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino, 2005.
- A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, Rizzoli, 2014.
- M. Flores (a c. di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, Franco Angeli Editore, Milano, 2010.