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Felice Orsini: ritratto di un italiano romantico
Ci sono personaggi nella storia dell’Ottocento che hanno lasciato tracce tangibili della propria esistenza attraverso idee, azioni, opere, gesti rivoluzionari. Uno di questi è Felice Orsini, che appartiene, a tutti gli effetti, alla storia principale del Risorgimento, a quella parte che narra di uomini che si fanno viva testimonianza dell’ideale romantico di una Penisola unita politicamente, senza condizionamenti stranieri, che trova compimento nell’ultima guerra d’indipendenza, meglio conosciuta come Prima guerra mondiale.
Felice Orsini: una vita ardita
Felice nasce a Meldola, una cittadina romagnola degli Stati della Chiesa sull’Appenino forlivese, il 10 dicembre 1819. All’età di nove anni si trasferisce nella vicina Imola affidato dal padre Andrea (ex ufficiale di Napoleone durante la campagna di Russia, iscritto alla Carboneria e per questo ricercato dalla polizia papalina) allo zio Orso, uomo austero, composto e riflessivo, l’opposto del fratello tutto fuoco, impeto e ribellione. Lo zio lo educa e forma come un figlio e come a un figlio vuole bene, sino alla fine, anche negli errori commessi.
Felice dà, sin da ragazzo, prova di audacia, con predisposizione alla vita avventurosa: nel 1831, avuta notizia della rivoluzione, insieme a suoi coetanei tenta di fuggire ad Ancona per arruolarsi con i francesi. Nel 1836, colpevole dell’uccisione di un domestico (spara a Domenico Spada, cuoco di famiglia e uomo di fiducia dello zio: nelle sue memorie scrive che si era trattato d’un incidente mentre si esercitava con la pistola, ma in realtà si era invaghito di una serva e insofferente alla presenza dell’uomo gli sparò volontariamente), è condannato.
Viene liberato dopo sei mesi di reclusione, avendo manifestato l’intenzione di diventare prete: grazie al vescovo di Imola, il cardinale Mastai Ferretti (il futuro Pio IX), i giudici, infatti, accettano la versione del colpo partito accidentalmente. La parentesi religiosa dura pochissimo: lascia dopo pochi mesi il seminario e si trasferisce a Bologna, dove prende la laurea in legge, esercita l’avvocatura e si iscrive alla Giovine Italia.
Di padre in figlio
Di carattere assomiglia al padre Andrea: i cromosomi non tradiscono, si tramandano di padre in figlio e la memoria racchiusa in loro fa sì che una parte del genitore riviva nella progenie. Insieme cospirano nei moti del 1843: scoperti, vengono arrestati e condotti alla fortezza di San Leo, legati alla stessa corda. Dopo la condanna alla galera a vita, Felice viene condotto nel Forte di Civita Castellana dove, rinchiuso insieme a centoventi detenuti politici (in maggioranza giovani della Romagna), si dimostra subito, come riporta un rapporto delle guardie carcerarie, «indomitamente ribelle».
Tenta addirittura di scappare, come si apprende dai Ricordi diretti di Tommaso Mariani di Cesena, pubblicati sul periodico locale il Cittadino (anno XX nr. 11 del 15 marzo 1908): «il giorno 18 settembre 1845 dominavano le febbri e per conseguenza chi voleva farsi visitare poteva farlo, seguendo i custodi fuori, sei dei nostri compagni uscirono (dottor Felice Orsini di Meldola, Ferdinando Porta di Roma, Giovanni Rossi di Vergato, Tommaso Marini di Cesena, Eusebio Barbetti di Russi e Pietro Leoni di Roma): non appena furono tolti alla nostra vista vennero sopresi da venti Carabinieri; legati per bene, i Carabinieri se gli fecero addosso con delle bastonate».
Ottiene l’amnistia dal nuovo Pontefice, il liberale vescovo cardinale di Imola, amico personale dello zio Orso, salito al soglio petrino con il nome di Pio IX nel 1846, in omaggio ai due pontefici che soffrirono le pene durante il dominio napoleonico. L’amnistia, dunque, rimette in libertà Felice il quale, con tutto il suo carattere indomito, si sente sostenuto persino dal Papa nel desiderare l’indipendenza italiana. Pio IX, del resto, era universalmente salutato come vero italiano, convinto della necessità di una prima unificazione territoriale della Penisola, passando da un’unione doganale con Granducato di Toscana e Regno di Sardegna.
Verso il 1848
Il Quarantotto è quel periodo tempestoso che squassa l’ordine stabilito dal Congresso di Vienna e che dà il via alle guerre d’indipendenza; un anno importantissimo, al punto tale che l’espressione è utilizzata per definire situazioni ingarbugliate, complesse, esplosive; un anno in cui prendono il via una successione di eventi rivoluzionari. Molte le città interessate ai rivolgimenti.
A Palermo, il 12 gennaio, gli insorti rinchiudono i soldati borbonici in carcere e costringono re Ferdinando II ad annunciare la Costituzione. A Torino, il 4 marzo, Carlo Alberto di Savoia promulga lo Statuto Albertino. A Firenze, il 22 febbraio, il Granduca Leopoldo concede la Costituzione.
A Roma, il 14 marzo, Pio IX firma la concessione dello Statuto e mette per la prima volta la coccarda tricolore alla bandiera pontificia (il 3 maggio, inoltre, scrive all’imperatore d’Austria: «Noi confidiamo che la nazione tedesca, onestamente altera della nazionalità propria, non metterà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la Nazione italiana, ma lo metterà piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella come entrambe sono figliuole nostre ed al cuor nostro carissime riducendosi ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore»).
A Milano, il 18 marzo, iniziano le famose ed epiche Cinque Giornate che la principessa Cristina Trivulzio Belgioioso, ne L’Italia e la Rivoluzione Italiana nel 1848, così descrive: «Il 18 marzo scoppiò la rivoluzione in Milano. Tutte le città dell’alta Italia risposero a quel segnale. Senza asilo, cacciati in fuga da una popolazione inerme, i soldati austriaci si rinserrarono nelle loro fortezze, già d’avanzo provviste. Ferveva la lotta nelle strade di Milano; e Genova, e Torino insorgevano»). Il popolo milanese, armato alla bell’e meglio, riesce a cacciare per cinque mesi gli austriaci.
A Parma, Piacenza e Modena i duchi fuggono a gambe levate. A Venezia, il 22 marzo, la Guardia civica occupa l’arsenale e Daniele Manin instaura la Repubblica di San Marco. E ancora una volta a Torino, il 23 marzo, Carlo Alberto, il “Re Tentenna”, finalmente, dichiara guerra all’Austria e valica il Ticino dando il via così alla Prima Guerra d’Indipendenza.
Il 1848 è un anno che trascina il popolo italiano nella lotta per l’indipendenza dal giogo straniero, al punto tale che anche le teste coronate legate all’Austria (pentendosene poi) abiurano il legame di sangue. Addirittura il Granduca di Toscana rinuncia ai titoli asburgici e con un incredibile proclama invita i toscani a combattere contro la nativa Austria: «Toscani, la Santa Causa dell’Indipendenza d’Italia si decide sui campi della Lombardia! Toscani, già i milanesi si son conquistati la libertà col proprio sangue, già i piemontesi muovono alla gran tenzone! Italiani ed eredi di antiche glorie, non potete cullarvi in ozio vergognoso!».
Felice Orsini abbandona il papa
Deluso dalla mancata dichiarazione di guerra agli austriaci, Orsini abbandona il Papa e va a combattere aggregato al Corpo dei Cacciatori dell’Alto Reno, uno dei numerosi Corpi di formazione spontanea in cui si manifesta l’incontenibile slancio degli italiani a correre alle armi per la libertà e l’indipendenza.
Il Corpo era uno dei più conosciuti, stante le tendenze radicali e repubblicane dei suoi membri e per il comportamento tenuto in battaglia in Veneto, dove è inviato a sostenere la prima linea di difesa sul Po, che attraversa il 3 aprile per dare battaglia agli austriaci prima a Treviso (il 10) e, poi, a Vicenza (il 12). Il Corpo fa rientro a Bologna e, alla fuga di Pio IX a Gaeta, con l’adesione della città alla Repubblica, è incorporato nell’esercito regolare repubblicano per essere definitivamente sciolto alla restaurazione del governo pontificio.
Felice Orsini Comandante della 6^ Compagnia dei Cacciatori dell’Alto Reno
Come comandante della 6^ Compagnia, Orsini dimostra in guerra il suo valore militare (i fogli matricolari, per lui e per i suoi uomini, testimoniamo un comportamento improntato a «ordine, disciplina, fermezza e spirito veramente militare»).
L’ingegnere Agostino Antolini, militare alle sue dipendenze, in una lettera a il Cittadino di Cesena (anno XX nr. 11 del 15 marzo 1908) così ricorda i fatti accaduti nei giorni 19, 20, 21 Maggio 1848 quando «il nostro Battaglione si trovava a Vicenza e precisamente alla Porta Santa Lucia ove doveva respingere gli Austriaci che in varie volte tentarono di forzare il passo per entrare in città […]; il giorno 20 l’attacco si mostrò più forte, si era cominciato fin dal mattino un fuoco di fucileria difensivo, ma ad un certo punto l’Orsini, che comandava la nostra compagnia, s’impazienti e mondando sulla barricata con la sciabola sguainata gridò: Meldolesi avanti! Tutti noi obbedimmo […] Circa un’ora durò il duello, durante quel periodo l’Orsini con la spada sguainata proseguiva a dar coraggio e a dar ordini, mostrando un sangue freddo e un coraggio singolare, fino a tanto che gli Austriaci dovettero ripiegare e allontanarsi dal teatro della lotta, lasciando alcuni morti e feriti».
La prima guerra d’indipendenza: il racconto di Giobatta Cantini, avo di Oriana Fallaci
Non meno significativo il racconto di un avo di Oriana Fallaci del quale, nel libro Un cappello pieno di ciliegie, la scrittrice riporta ampi stralci di lettere dal fronte, ricolme di parole infuocate alla moglie Mariarosa. Il suo nome è Giobatta Cantini. Lettere che fanno risaltare lo spirito patriottico del tempo attraverso la storia di 3.161 volontari toscani, che, nel giro di poche ore, senza il benché minimo addestramento, armati di spade arrugginite e di miseri schioppi a pietra focaia, dopo un lungo e duro viaggio a piedi per raggiungere il teatro di guerra lombardo via Appennini (Pontremoli, Fivizzano, Reggio Emilia), con non poche defezioni, arrivano in Lombardia «dinanzi a Mantova e al completo: due battaglioni di fiorentini, due di livornesi e di viareggini, uno di senesi, uno di lucchesi, uno di studenti pisani con 4615 dell’esercito regolare che erano partiti per conto suo» per affrontare gli austriaci.
La Prima Guerra d’Indipendenza termina con una sonora sconfitta, ma è preludio, pagato a caro prezzo, di quello che sarebbe accaduto decenni dopo e che fa scrivere al Cantini: «Speriamo che (le future generazioni) si rendano conto di quanto costò unire l’Italia, renderla libera, indipendente» – inevitabile il riferimento, in termini di vite, alle battaglie di Montanara e Curtatone (definite dalla stampa del tempo: «un orrendo massacro») – «quando gli austriaci a gran vociare Porca Italia, Porca Italia! Briganta, briganta! si videro uscire dai campi di grano dove s’eran nascosti, a centinaia, centinaia, eppure non ci si scoraggiò. Perché a sentirci insulare la Patria e chiamare briganta ci andò il sangue al cervello, si salì sulla cresta dell’argine dietro il quale si stava acquattati e replicavamo Figli di Puttana, W l’Italia, Figli di Puttana, e gli si scaricò addosso i fucili a pietra focaia».
Deluso dagli accadimenti lombardi, Orsini torna a Firenze, città natale della madre, e il 28 giugno si sposa con Assunta Laurenzi dalla quale avrà due bimbe, Ernestina e Ida.
L’impegno di Orsini nella Repubblica Romana
A Roma, il 15 novembre viene assassinato Pellegrino Rossi, primo ministro pontificio, cui segue una sommossa in cui cinque guardie svizzere vengono trucidate e monsignor Palma, il segretario di Pio IX, si becca una pallottola al cuore. Orsini partecipa attivamente ai moti che portano alla Repubblica romana: viene eletto deputato all’Assemblea costituente nel collegio di Forlì e svolge incarichi di commissario in situazioni difficili, in Ancona e nella valle del Tronto.
Era solito affermare: «non transigo con alcun partito e con alcuna opinione: punisco il delitto ovunque appare». Repubblica, quella Romana, che nasce in seguito alla delusione dei patrioti che, inizialmente affascinati dal Papa liberale, si sentono traditi perché il Pontefice non dichiarò guerra all’Austria cattolica; che sperimenta la circolazione cinque milioni di scudi di carta moneta attraverso l’incetta delle monete d’oro e d’argento, con cambio alla pari; in cui vengono confiscati tremila oggetti preziosi; in cui si assaltano beni della Chiesa dichiarati proprietà nazionale con decreto; in cui il clero è rimosso dalla direzione di ospedali e ospizi; in cui si proibisce alle chiese e agli istituti religiosi ogni acquisto di beni sotto qualsiasi titolo; in cui sono confiscate le campane superflue per fondere cannoni e le chiese spogliate di ori e di argenti per coniare moneta repubblicana: insomma una Repubblica che si distingue per l’animo anticlericale e che fa del saccheggio una missione (non sono risparmiate nemmeno le cappelle Sistina e Paolina e la Santa casa di Loreto la quale deve recuperare il tesoro della Madonna con una contribuzione di 30 mila scudi); che in nome del popolo permette il saccheggio di conventi e lo stupro delle religiose; che per decreto dichiara nulli i voti religiosi ed espelle le suore di carità dagli ospedali, sostituite da donne della casa di correzione di San Michele.
Tutto ciò strappa dalla bocca del Papa un grido di dolore: «Uomini senza onore e senza fede giunsero a tal punto di crudeltà verso i poveri infermi che ne tennero lungi ogni conforto religioso, costringendoli a rendere lo spirito fra le braccia delle prostitute».
Nelle provincie della Repubblica regna l’anarchia: a Jesi spadroneggia la cosiddetta Lega Sanguinaria, ad Ancona la Lega degli Accoltellatori, a Imola la Squadraccia, a Senigallia la Compagnia infernale degli Ammazzarelli che pubblica un manifesto: «Vendetta a Dio! É giunto finalmente il giorno della tua ira!….Or qual meraviglia se per la via si veggono ad ora ad ora gli stessi spaventevoli cadaveri degli assassini? É ira di Popolo! É ira di Dio!».
La nuova vita di Felice Orsini in Costa azzurra
Caduto il regime repubblicano per l’intervento dei francesi di Luigi Napoleone, Orsini decide di stabilirsi nel Regno di Sardegna, a Nizza, dove apre un’attività sotto copertura per la vendita della canapa prodotta e commerciata dallo zio Orso e conosce l’esule berlinese Emma Siegmund, che, come vedremo poi, giocherà un ruolo decisivo nella sua vita.
La copertura dura poco perché nel 1853 è alla testa di un tentativo insurrezionale (fallito) nelle città di Sarzana e Massa che Orsini racconta, senza celare la delusione per il mancato appoggio del popolo, nelle sue Memorie; racconto arricchito dalla testimonianza del Cavaliere Fantini: «Quando i soldati sardi irruppero nella Lunigiana e più specialmente nella località dove erano comparsi i pochi rivoluzionari, questi presi da timor panico e veduta vana ogni resistenza si sbandarono quasi tutti; e l’Orsini poté trovar rifugio per parecchio tempo nella Villa Ollandini di Pertusola in una grotta ivi esistente. Certo Savione Eugenio ricorda di aver più volte accompagnato suo padre Gioacchino, di nascosto, portare alimenti all’Orsini che poté scendere al Promontorio Calandrello di Pertusola e di lì, poi, imbarcarsi per Genova, di dove poi passò su di un vapore a Marsiglia».
Sconfortato, decide di emigrare a Londra sotto la protezione di Giuseppe Mazzini, lasciando la famiglia in Costa Azzurra. L’anno seguente decide di riprovare di nuovo a sollevare il popolo con altri tentativi sempre in Lunigiana e in Valtellina, senza riuscirci. Non domo, si reca in Ungheria dove cerca di far disertare alcuni soldati dell’esercito imperiale; scoperto, viene arrestato e condotto nelle carceri mantovane del castello di San Giorgio, dalle quali riuscirà a fuggire il 29 marzo del 1856, con l’aiuto della Siegmund.
La detenzione di Orsini nella fortezza mantovana di San Giorgio
Il castello di San Giorgio è una fortezza, un poderoso maniero eretto alla fine del XIV secolo, ai tempi circondato sui quattro lati da un fossato malsano, covo di fastidiosissime zanzare, da cui è praticamente impossibile evadere. Come racconta nelle Memorie, la sua cella è «una segreta otto passi su quattro di lunghezza: due grosse sbarre di ferro alla finestra con una grata all’esterno». Sempre dai suoi scritti, del periodo della reclusione mantovana, meritano di essere riportati i dialoghi con il giudice Sanchez, innanzi alla Corte Speciale di Giustizia di Mantova la quale decreta che Orsini è reo «di alto tradimento in primo grado» che «aveva reso confessione delle proprie colpe e che la pena per tale delitto era la pena di morte».
Ascoltata la lettura del decreto, Orsini interrompe con forza Sanchez e dice: «Confessioni? Colpe? Ho ammesso e riconosciuto dei fatti, che sarebbe stato assurdo rigettare, come per esempio, delle istruzioni scritte tutte da me; e non sono venuto a confessare od accusare: tali ammissioni non le tengo per colpe, e la prego di cancellare queste parole». Il giudice: «Quello che è scritto non si può cancellare […] Ammette egli di avere contravvenuto alle leggi austriache?». Orsini: «Sì, signore!». Controbatte Sanchez: «Dunque ha delle colpe in faccia al nostro governo!». Orsini nelle memorie continua così il racconto: «mi morsi le labbra, e stetti quieto. Quindi per tre giorni consecutivi (Sanchez) venne esaminandomi di nuovo su tutte le circostanze più insignificanti di una vita; mi recò innanzi le prove di ogni sua affermazione; e ben mi avvidi che non vi avea scampo».
Quando il giudice gli chiede del perché preferisce arruolarsi per l’Austria anziché la Francia (in realtà si arruola per l’Austria per far subordinare le truppe), la risposta è chiara e preludio di quando accade a Parigi qualche anno dopo: «Non sotto i francesi: primo, perché sarei stato cacciato in una legione straniera, considerata come carne da macello; secondo, perché non avrei mai servito sotto lo stendardo di Napoleone, di un uomo (omissis: frasi censurate) come lo ha dimostrato in Francia nella sua condotta politica, e nella uccisione della Repubblica Romana…Se la Francia spedisse di nuovo contro l’Italia un’armata per conquistarla e derubarla una seconda volta, io mi batterei per l’Austria in tutti i casi; perché il dominio francese tende a corrompere letteratura e carattere nazionale, il che è facile per la grande somiglianza tra le due nazioni; laddove tra noi e i Tedeschi serravi sempre totale distacco d’indole e di costumi».
La fuga da Mantova per raggiungere l’Inghilterra, passando da Pizzighettone
L’evasione avviene nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1856 con la complicità della Siegmund, di Pietro Cironi di Prato, di due poveri mantovani e altri giovani lombardi che espongono la loro sicurezza personale per la causa italiana, tra cui il codognino Luigi Folli, e «con l’aiuto della Provvidenza». La fuga è avventurosa; Orsini stesso la definisce «quanta fatica per non farmi impiccare». Si cala giù dalla fortezza dopo aver segato le sbarre della cella, ma si rompe una gamba nella discesa; viene soccorso e salvato da Giuseppe Sugrotti detto Tofìn e da un suo amico.
I due, a fatica, lo nascondono in mezzo ai canneti. Lì rimane sino alle nove di sera quando al calar della notte i due complici ritornano con un carretto. Fingendosi ubriaco per eludere i soldati di guardia in capo al ponte di San Giorgio (la cronaca della fuga è supportata da fotografie donate nel 1903 al Museo del Risorgimento, oggi conservate nell’Archivio storico comunale di Mantova), Orsini riesce a farsi trasportare in un luogo nascosto dove rimane otto giorni per riprendersi e per tornare in forze. Poi, con una carrozza affittata dalla Siegmund si dirige, in sua compagnia, verso Cremona, senza incontrare problemi.
Superata la città del violino, all’altezza di Pizzighettone, una bellissima cittadina murata sull’Adda al confine tra Cremonese e Lodigiano, accade che il timone della carrozza si rompe proprio davanti a un posto di polizia. Vengono subito soccorsi dai soldati i quali addirittura provvedono a sostituire il timone con uno nuovo preso dai magazzini della fortezza. Allora, la Siegmund, si presenta con un nome di fantasia per lasciare una somma per pagare il pezzo di ricambio, ma il regolamento militare non lo prevede.
Successivamente, il responsabile della contabilità della roccaforte doveva comunque imputare la spesa e per questo scrive a Mantova descrivendo l’accaduto: così le autorità austriache scoprirono il tragitto che fece il fuggitivo e da chi era accompagnato.
Nelle Memorie racconta con dovizia di particolari gli avvenimenti precedenti, concomitanti e successivi all’evasione ed ha dolci parole per «i giovani lombardi, il cui nome porto scolpito nel cuore, che nel lasciarmi mi dissero che quanto avevano fatto era per l’Italia, a cui sentivano che sarei stato utile ancora. Sì, io mi quieterò mai fino a che l’Italia non sia libera; ma quando dico di ciò fare, non intendo, e lo dichiaro altamente, di essere cieco strumento di un partito o di un individuo: l’Italia, la sua indipendenza, la sua libertà: ecco gli oggetti per cui darò il mio sangue».
Felice Orsini ricercato da tutte le polizie europee
Le polizie europee, attraverso apposite circolari, danno la notizia, unitamente alla descrizione dell’evaso. Quella dello Stato della Chiesa, con la nota datata 4 aprile 1856, così recita: «Nella notte del 29 al 30 Marzo prossimo scorso evase dalle Carceri dell’I.R. Corte speciale di Giustizia in Mantova Felice Orsini, alias Tito Celso, di Meldola, uno dei più attivi Emissari del Mazzini, e dei più importanti inquisiti per titolo politico. Parla il dialetto Romagnolo, e le Lingue Francese e Inglese, ha voce sottile, di maniere educate e di gentile aspetto. Rendo intesa di ciò la V.a. Sig, Ill.ma affinché disponga l’opportuna vigilanza per l’arresto dell’Orsini, che dovrebbe in caso essere immediatamente tradotto a queste Carceri centrali, e trasmettendole pel migliore effetto i connotati personali del medesimo».
«Connotati personali di Orsini Felice alias Tito Celso, nativo di Meldola, domiciliato (omissis), professione (omissis), statura alta, anni 34, capelli scuri, un po’ grigi, ciglia (omissis), fronte un po’ calva e altissima, occhi neri, naso aquilino, bocca (omissis), barba nera e folta con lunghi favoriti, mento regolare, viso id, carnagione (omissis), corporatura complessa».
Dopo la rocambolesca fuga è di nuovo in Inghilterra e si accorge di essere diventato una celebrità.
La lettera di Felice Orsini a Cavour
Non antepone mai i propri progetti, il proprio successo a quello dell’Italia, tanto che, nel 1856, scrive una lettera a Camillo Benso conte di Cavour che la dice lunga sulla sua disponibilità a mettere da parte persino l’orgoglio:
«Illustrissimo signore, siccome il mio patriottismo non consiste nelle parole ma nei fatti; siccome io combatterò sempre dove è guerra contro gli stranieri che tengono schiava la mia infelice patria, così prego la S.V.I. a volermi concedere un passaporto sardo per entrare in Italia.
Io credo che sia venuto il momento in cui il Governo Sardo dovrebbe togliersi dalla incertezza. Ciò che gli consigliano l’onore e la dignità sua, ciò vogliono i doveri ch’egli ha contratti in faccia all’Italia dall’istante che ha dato ad intendere di volerne la Indipendenza. Se il Governo Sardo piega alle rimostranze austriache, egli è perduto, se osa, l’Italia si leverà come un uomo solo, l’Italia sarà per esso. Conquistata la indipendenza sta alla Nazione il giudicare della forma politica di reggimento; ma la Nazione deciderà in favore di chi le diede unità e indipendenza, di chi la costituì nazione in fatti.
Su di ciò non vi ha dubbio. I miei principii inalterabili sono repubblicani. Ma il mio primo pensiero si è la salvezza della patria. Senza la indipendenza, la libertà è un sogno. Fuori l’aggressore, fuori lo straniero. Del resto io non ho diritto di oppormi alla volontà nazionale, io sono un semplice individuo e non altro.
Convinto di questa verità, convinto per triste esperienza che senza grandi mezzi non si può cacciare dall’Italia un nemico potentemente organizzato, convinto che i parziali e meschini movimenti valgono soltanto a smembrarci, a farci deboli e a dar luogo a recriminazioni, per dovere altamente sentito io sono pronto a dar mano a quel Governo Italiano (che non sia Papato), il quale metta a disposizione della nazionale indipendenza i suoi mezzi e la sua armata. Come vero Patriota io sento questo dovere.
Il Governo Sardo si tolga una volta dall’incertezza, si ponga all’altezza delle circostanze, abbia un po’ di quella audacia che distingue il genio dalla mediocrità. Chiami gli italiani alla indipendenza e proceda con mano ferrea, se non fa ciò è un governo nullo. Rammenti che sfuggita l’occasione non più torna, rammenti che oggi gli italiani guardano a lui, rammenti che l’opinione straniera gli è favorevole, non stia adunque nel dubbio degno soltanto dei codardi. Se il Governo Sardo ha vera intenzione di incominciare la lotta della Indipendenza Italiana, bisogna che faccia insorgere i ducati e le Romagne, non bisogna perdere tempo, ciò gli darà l’immediata occasione.
Se a ciò egli è disposto io gli consacro fin d’ora quella forza di volontà e quel coraggio che a Dio piacque di concedermi e se mi crede utile ad alcun che se ne valga, che io mi reputerò felice di poter prendere di nuovo le armi contro coloro che un anno fa si apprestavano a darmi la morte, contro coloro che opprimono la mia patria. Sia cortese di darmi un relativo riscontro, e il più sollecito possibile … Devotissimo servitore
Felice Orsini
La vendetta
Grazie alla conoscenza con il chirurgo francese Simon Francois Bernar viene a conoscenza dell’idea di organizzare un attentato a Napoleone III: si fa convincere che l’uccisione dell’Imperatore sarebbe fondamentale per togliere al Papa la protezione francese agli Stati della Chiesa. Anche perché è l’occasione buona per vendicare la promessa non mantenuta fatta da Luigi Napoleone ai Carbonari mentre viveva esule in Italia con la madre e il fratello. Promessa che constava in: «Se un giorno salirò sul trono di Francia, l’Italia sarà».
Lascia, quindi, Mazzini e si mette in proprio: decide di organizzare seriamente l’attentato con il duplice intento di innescare una rivoluzione in Francia e una sollevazione popolare in Italia. Per questo progetta e confeziona cinque bombe a mano riempite di chiodi e pezzi di ferro con innesco a fulminato di mercurio: ordigni rudimentali ma molto efficaci che, successivamente, altri terroristi utilizzeranno e che prenderanno il nome di Bombe Orsini.
L’attentato di Orsini a Napoleone III
Si trasferisce a Parigi dopo aver reclutato altri congiurati. La sera del 14 gennaio del 1858 verso le ore 20.30, lui e i suoi complici lanciano tre bombe contro la carrozza dell’Imperatore mentre sta raggiungendo l’Opéra per assistere alla rappresentazione del Guglielmo Tell di Rossini. La folla è numerosa. E’ una carneficina: dodici morti e centocinquantasei feriti. L’Imperatore e la consorte rimangono illesi, protetti dalla blindatura della carrozza.
Gli attentatori riescono a dileguarsi, ma sono arrestati poco dopo dalla polizia, data l’inesperienza di uno di loro (Antonio Gomez) che, tradito dall’emotività (singhiozzi, frasi senza senso), confessa e fa i nomi degli altri: di Felice Orsini (il capo), del lucchese Giovanni Andrea Pieri e del nobile bellunese Carlo di Rudio. L’ultimo ad essere scovato è proprio Orsini che, ferito ad una guancia, rientra in albergo e si mette a dormire.
Si sveglia solo all’arrivo della polizia che l’arresta nel letto ancora mezzo addormentato. L’attentato lo rende famoso ancor di più, al punto che sue biografie sono pubblicate (la prima ottiene un grande successo con ben trentacinquemila copie) e le sue Memorie politiche, scritte a Londra, nel giro di cinque mesi, hanno tre edizioni.
Il processo contro Felice Orsini
Il processo attira grande attenzione. Merita di essere raccontato riportando un estratto dell’articolo scritto dall’avvocato Raffaella Bonsignori (InLibertà, 2017 https://www.inliberta.it/felice-orsini-e-lattentato-a-napoleone-iii/ ): «Il 25 febbraio 1858 Orsini ed i suoi complici comparirono dinanzi alla Corte di Assise della Senna. […] Il volto su cui si focalizzò l’attenzione di tutti fu uno solo, quello di Orsini, il più noto e carismatico degli attentatori. Era difeso dall’avvocato Jules Favre, il migliore penalista di Francia, nonché uomo politico di chiara fama, militante antibonapartista, il quale, tuttavia, aveva assunto la difesa non solo per comunione ideologica con Orsini, ma anche su richiesta dello stesso Napoleone. Di questo fatto, contraddittorio e non poco singolare, ne erano a conoscenza solo pochi fedelissimi dell’impero. Sul motivo che aveva mosso Napoleone a garantire la migliore difesa dell’imputato aleggia ancora oggi una densa nube di incertezza.
Era ammirazione per il rivoluzionario intrepido, la sua, oppure era interessato ad averlo al suo fianco in un eventuale scontro con l’Austria? Il valore dell’Orsini combattente era indubbio, del resto; inoltre aveva dimostrato d’essere anche una valente spia, la qual cosa rende lecito pensare che fosse a conoscenza di un segreto che Napoleone voleva tenesse per sé. In questo caso lo avrebbe favorito finché fosse stato in grado di parlare, ben sapendo che il suo favore non sarebbe arrivato a risparmiargli la ghigliottina, e, dunque, il silenzio eterno. L’atto di accusa sembrava una biografia di Orsini: ripercorreva la sua lunga “carriera” di ribelle e rivoluzionario, e fu una perfetta introduzione ai serrati interrogatori della fase istruttoria. Gomez insistette nel dire d’essere un domestico e di aver creduto fino all’ultimo che Orsini fosse davvero mister Allsop; tuttavia cadde più volte in contraddizione ed emerse chiaramente il suo coinvolgimento diretto nell’attentato, avendo egli scagliato una delle bombe.
De Rubio, invece, tentò di discolparsi puntando sulla povertà e sulla disperazione in cui versava: sull’orlo del pianto disse che non era nella condizione di rifiutare un lavoro che avrebbe assicurato cibo a se stesso ed alla moglie. Neppure l’interrogatorio di Andrea Pieri brillò particolarmente. Non fornì elementi fondamentali sul fatto se non sue vaghe scuse, tentativi maldestri e poco temerari di discolparsi. Anche il suo passato pesò, ovviamente. Era il più anziano del gruppo e, dunque, aveva partecipato a molte campagne belliche, tra cui quella del 1848 in Toscana. Separato da una moglie francese, aveva incontrato Orsini in Inghilterra, unendosi a lui nel progetto dinamitardo. Figura scialba, dopo tutto.
L’interrogatorio di Orsini, ovviamente, svettò sopra ogni altro e non deluse le aspettative del pubblico: un vero e proprio capolavoro di teatralità ed oratoria politica. Era calmo, lucido, misurato nelle sue parole, con un tono crescente nei punti salienti. Ripercorse egli stesso le tappe “criminali” della sua vita, ma solo per dire quel che l’accusa aveva tralasciato: le motivazioni, i fervori patriottici, l’ingiusto giogo nemico. Non risparmiò nessuno, neppure i francesi, nelle mani dei quali era la sua stessa vita. Mossa autolesionista ma di grande effetto.
Raccontò, infatti, di quando fu stilata la tregua tra i francesi ed i combattenti della Repubblica Romana: gli italiani, che fino ad allora avevano valorosamente sbaragliato il nemico, onorarono tanto la tregua da liberare i prigionieri; i francesi, invece, si limitarono a violare i patti: “Come hanno risposto i francesi alla nostra generosità? Hanno sospeso le ostilità per un mese, ma solo per aspettare rinforzi. Allora sono tornati all’attacco, mille contro dieci. Signori! Siamo stati giuridicamente assassinati, il fiore della gioventù italiana è stato immolato”, esclamò Orsini. Mormorio in aula. Il Presidente lo rimproverò per cotanta offesa, ma Orsini non si piegò. Proseguì a parlare delle sue ragioni, minimizzando la responsabilità altrui per addossarla tutta su di sé.
Arrivò ad affermare la totale estraneità dei tre inglesi, che, a sua detta, avevano assemblato le bombe ritenendo che fosse un nuovo tipo di apparecchio a gas. Dopo lo sfilare di testimoni, tutti dell’accusa, a volte interrotti e corretti da Orsini stesso in un costante rimprovero della Corte a fronte di opposizioni urlate dal Procuratore in un sonoro vociare del pubblico, fu la volta dell’aspra requisitoria del Procuratore e dell’arringa difensiva di Favre, il quale dipinse Orsini come un fervente patriota, un eroe. Parlò di un “voto espresso in un testamento supremo” inviato all’imperatore, uno scritto che chiese al giudice di poter leggere in aula, avendo già ottenuto il permesso di farlo dall’imperatore stesso. Sonoro brusio in aula. Tanta partecipazione imperiale alla difesa dell’imputato stava facendo travalicare l’interesse di Napoleone per Orsini oltre gli argini del segreto di Stato.
La giuria si ritirò per più di due ore ed uscì con la condanna a morte di tutti i congiurati tranne Gomez, al quale vennero riconosciute circostanze attenuanti tali da comminargli i lavori forzati. I condannati ricorsero in Cassazione. Orsini non avrebbe voluto, ma lo fece per non penalizzare i suoi compagni. Come previsto, la Cassazione respinse il ricorso, confermando la condanna a morte. Orsini scrisse, allora, una seconda lettera a Napoleone invocando la grazia non per se stesso, ma per i propri compagni. Era una lettera che faceva rabbrividire per il coraggio e l’altruismo che conteneva. Napoleone stesso ne rimase tanto colpito da trasmetterla personalmente a Cavour affinché la pubblicasse sulla Gazzetta Piemontese: quel fervore, quel patriottismo non dovevano andare persi. Subito dopo, l’imperatore, propenso a concedere la grazia ai condannati, riunì il Consiglio Privato, ma molte furono le opposizioni, soprattutto quella dell’arcivescovo di Parigi, cardinale Morlot, ed, alla fine, solo Carlo de Rudio beneficiò di un qualche favore, vedendo commutata la pena di morte in ergastolo».
La lettera di Orsini all’imperatore
Poco dopo le prime dichiarazione, Felice Orsini scrive una lettera significativa a Napoleone III, pubblicata sulla Gazzetta di Genova il 2 Maggio 1858.
«Le deposizioni da me fatte contro me stesso in questo processo politico intentato in occasione dell’attentato del 14 gennaio, sono sufficienti onde mandarmi alla morte, e la subirò senza domandare grazia; perché non mi umilierò mai innanzi a quello che ha ucciso la libertà nascente della mia disgraziata patria, e perché, nella condizione in cui mi trovo, la morte è è per me una fortuna. Sul punto di terminare la mia carriera, voglio nulladimeno tentare un ultimo sforzo onde accorrere in aiuto all’Italia, la di cui indipendenza mi ha fatto fin qui disprezzare tutti i pericoli e sottopormi a tutti i sacrifici. Ella fu sempre l’oggetto costante di tutte le mie affezioni, ed è quest’ultimo pensiero che voglio deporre nelle parole che indirizzo a V. M.
Onde mantenere l’equilibrio attuale dell’Europa, fa mestieri rendere l’Italia indipendente, o limitare le catene dell’Austria. Devo io domandare che il sangue dei Francesi sia sparso per liberare l’Italia? No; non vò fin là. L’Italia domanda che la Francia non intervenga contro di essa; domanda che la Francia non permetta alla Germania di appoggiare l’Austria nella lotta che sarà forse impegnata fra poco. Ora ciò che io domando; V. M. può farlo se vuole. Da questa volontà discendono la prosperità o le sciagure della mia Patria, la vita o la morte di una nazione alla quale l’Europa deve in gran parte la sua civiltà. Tale è la preghiera che dalla mia prigione oso fare a V. M., sperando che la mia debole voce sarà sentita … Scongiuro V. M. di rendere alla mia patria l’indipendenza che i suoi figli hanno perduta nel 1849 per colpa dei Francesi. – V. M. si ricordi, che gl’Italiani, fra i quali trovavasi mio padre, versarono con gioia il loro sangue per Napoleone il Grande, ovunque li piacque di condurli; ella non dimentichi che gli Italiani sono stati fedeli fino alla sua caduta; si ricordi pure che fintantoché l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella di V. M. saranno una chimera. V. M. non respinga la voce suprema d’un patriotta che sta per salire al patibolo. V. M. liberi la mia patria, e le benedizioni di 25 milioni di cittadini lo seguiranno nella prosperità».
Dalla prigione di Maras 11 Febbraio 1858
Felice Orsini
Si capisce dalla lettura il coraggio di cui dispone. Napoleone ne rimane affascinato: favorevolmente colpito e forse attratto dalla possibilità di passare alla storia come il liberatore dell’Italia, ne autorizza la pubblicazione e se ne serve per creare intorno alla guerra contro l’Austria un largo consenso nazionale. Cavour sfrutta a sua volta la situazione per aumentare la sua pressione politica sulla Francia affinché aiuti il Piemonte e non lasci nelle pericolose mani dei rivoluzionari l’iniziativa.
La morte di Felice Orsini: un bicchiere di rhum e poi la ghigliottina
Felice Orsini viene ghigliottinato a Parigi subito dopo Pieri, alle sette di mattina del 13 marzo 1858, nella piazza della Roquette: muore con coraggio e fiero gridando Viva l’Italia! Viva la Francia. Prima di morire brinda all’Italia con un bicchiere di rhum. Viene gettato nella fossa comune del cimitero di Montparnasse a Parigi.
La morte di Felice Orsini conduce ai celebri accordi (verbali e segreti) di Plombieres che Napoleone III e il Capo del Governo piemontese stipulano nella nota stazione termale francese il 21 luglio 1858 e che sono alla base dello scoppio della Seconda guerra d’indipendenza, confermati formalmente nel gennaio del 1859 dall’alleanza franco-piemontese.
Un sacrificio vano?
La Seconda guerra d’indipendenza è voluta, cercata ed è una guerra che tutti mette d’accordo, fuorché Mazzini che dal suo esilio dorato tuona con: «La libertà non si conquista con gli aiuti stranieri!». L’umore è alto. Il vento è cambiato: i volontari a decine di migliaia vogliono combattere per i Savoia. Provengono da tutta Italia: dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana, dall’Emilia, dall’Umbria, dal meridione.
Il 19 aprile, Cavour riceve l’ultimatum dell’imperatore d’Austria per un disarmo immediato del Piemonte con congedo dei volontari arruolati e rottura dell’alleanza con i francesi. Il 27 aprile accade il casus belli: insorgono Massa e Carrara, seguite da Firenze con Leopoldo Asburgo-Lorena costretto ad abbandonare la Toscana e il governo provvisorio che chiede l’annessione al Regno di Sardegna.
Il 29 gli austriaci scendono nella Val Padana; contemporaneamente i francesi, armati, valicano il Moncenisio per unirsi ai piemontesi. In poco più d’un mese (questa sì una vera guerra lampo) si hanno: la vittoria di Magenta, la ritirata degli austriaci, la conquista di Milano, le battaglie di Solferino e San Martino (in cui gli austriaci sono pesantemente sconfitti) e, l’11 luglio, la firma dell’armistizio di Villafranca con la cessione della Lombardia (senza Mantova e Peschiera) alla Francia.
Non al Piemonte direttamente, ma alla Francia affinché ne faccia quel che meglio preferisce. Questo causa le dimissioni di Cavour, subito rientrate. Nel frattempo, i ducati di Parma-Piacenza, Modena-Reggio con dei plebisciti a ristretta suffragio (il popolo ne è escluso) decidono di annettersi al Piemonte.
Il 24 marzo 1860, a seguito del passaggio di Nizza e la Savoia alla Francia, la Lombardia si unisce al Piemonte. Giuseppe Garibaldi, furibondo con Cavour per la cessione della nativa Nizza, decide di avviare l’impresa dei mille che in camicia rossa sbarcano in Sicilia l’11 marzo per scacciare i Borboni. Prende Palermo, tutta la Sicilia, supera lo Stretto di Messina, irrompe in Calabria, fa sua la Basilicata, la Puglia e infine Napoli. Cavour, inferocito, fa buon viso a cattivo gioco: manda le truppe piemontesi a occupare l’Umbria e le Marche (ma non Roma) e le annette. Il 26 ottobre è il giorno del famoso incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele.
Il 17 marzo 1861 si riunisce a Torino il primo Parlamento italiano ed è proclamato il Regno d’Italia, senza il Veneto, il Trentino e Roma. La legge che sanziona la nascita del Regno d’Italia si compone di un unico articolo così concepito: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia». Non mera forma, ma forma che è sostanza: il Piemonte si annette gli altri Stati.
Felice Orsini: lettere ai familiari
Le lettere che scrive ai familiari (pubblicate in appendice alle Memorie politiche di Felice Orsini scritte da lui medesimo e dedicate alla gioventù italiana – Giuseppe Fioratti tipografo – libraio, Lugano 1860) mostrano la delicatezza, la tenerezza e la bontà d’animo di Felice, fratello, nipote, padre e patriota. Alcuni stralci meritano di essere riportati (senza commento perché parlano da soli). I suoi pensieri mettono in luce l’amore per la libertà, il rispetto della civiltà, l’adesione ai principi nati nella Grecia antica, trasposti nella romanità, aggiornati dal Rinascimento, compiuti nel cristianesimo.
Allo zio Orso, nel 1854 da Ginevra, scrive: «Vi chieggo le mille volte di perdonarmi, e scusarmi per i falli ch’io possa avere commessi verso di voi, e per le noje di cui in qualsiasi modo vi fui cagione. Io parto solo; ma la mia coscienza è tranquilla: non ho mancato mai al mio dovere come padre, perente o cittadino. Ho fatto molti sacrifizj, e li ho fatti per vedere il mio paese libero […] M’allontano con dolore; parto, abbandonando ogni cosa: ma con due pensieri nella mente, le mie due bambine, mio zio, mio fratello; l’altro, la mia patria, per cui affrontai pericoli, fatiche, sacrifizj, sebbene finora senza frutto».
Al fratello Leonida, al quale affida l’educazione delle figlie, scrive: «Una parola sull’educazione. Bada che non consiste già in un eccesso di bacchettoneria; la religione bene intesa può sola fare le donne virtuose; la bacchettoneria dà negli eccessi, ed ogni eccesso è una negazione del vero, della verità […] Per ora non occorre altro, che si essere libere, correre, giocare, sviluppare le forze fisiche».
Alle amate figlie Ernestina (di tre anni) e Ida (di un anno), sempre dalla Svizzera, in data 28 settembre 1854, scrive, cosciente che da lì a poco non sarebbe stato più in vita: «Mie care figlie, queste poche linee, insieme con due piccoli cuori, che contengono due ciocche de miei capelli, vi saranno consegnate quando io non sarò più vivo […] Le vicende dell’Italia non mi consentono di vegliare io stesso sulla vostra educazione, e mi fu negata la gioia di carezzarvi nei più soavi giorni dell’infanzia […]
Due pensieri porto con me: di voi due, care bambine, e della mia diletta patria; ed ho fede, che l’opera mia, i miei sacrifizj, gioveranno ad ambedue. Se muojo presto, non sarà colpa mia che non abbia effettuati questi due disegni, sarà colpa della morte […]. Prima di finire, devo darvi qualche ammonimento […] qual memoria paterna; e vi sarà una guida utile a traverso la vita: almeno lo spero e lo desidero. 1 Credete in Dio; io sono fermamente convinto della sua esistenza. 2 Abbiate principj inalterabili d’onore. Badate non intendo già principi malleabili e materiali, no; ma quelli che sono riconosciuti universalmente per tali da tutti i popoli e nazioni, e non mutano per variare dei tempi, di paesi, di governi; intendo quei principj che sono verità eterne, assolute, immutabili, né dipendono dal capriccio di chicchessia.
Fate attenzione a questo. Ciascuno si crede onorevole; ma ciò non appare sempre ne’ suoi atti, anzi spesso troviamo in loro inganno, ipocrisia, equivoco, e astute parole per ingiuriare gli altri. […] come la base della moralità pubblica e privata; voi dovete necessariamente amare la vostra patria, essere oneste, affezionate ai vostri parenti, pure nella vostra gioventù, pure e fedeli ai vostri mariti. Infine, amate i vostri figli, e ornatevi delle più belle doti che possono desiderarsi nelle donne, le quali da Dio e dalla natura son destinate ad abbellire la vita dell’uomo, e a rendere la sua esistenza meno miserabile. 3 Acquistare quella maggiore istruzione che potete; fate d’apprendere bene quel che spetta alla maggior parte dei delitti e degli errori degli uomini proviene dall’ignoranza, questa nemica della civiltà, del progresso, dell’onore e della libertà dei popoli […]
Se vi maritate andate caute nella scelta; vedete che sia un uomo onesto, onorato, amante del suo paese; il suo cuore sia generoso, capace d’amicizia vera; e studiatevi di rimeritarlo da parte vostra con un contegno parimente nobile, un affetto egualmente puro. Siate fedeli allo sposo; il solo pensiero un’infedeltà vi agghiacci d’orrore; uccidetevi prima di cadere in tal colpa; è una colpa che nulla può mai riparare; il perdono che può concedersi, non rimedia punto al male; rimane in voi una macchia eterna, nello sposo un eterno rancore, l’eterna memoria della vostra colpa, della vostra disonestà. […] avvelena l’esistenza del marito, se ha cuore o senso d’onore, estingue la pace domestica per sempre, distrugge la domestica tranquillità, spegne l’amore e la tenerezza tra marito e moglie, raffredda e distrugge l’amore dei genitori per i loro figliuoli. […] Infine, nelle ore d’ozio coltivate lo spirito con letture piacevoli e morali che verranno a guidare la vostra mente verso il bene, a nutrirvi coi frutti della sapienza […] Addio, addio, addio, con tutto il mio cuore». Lettera scritta in un momento di grande sconforto (nota di felice Orsini nella pubblicazione delle Memorie politiche edite da Giuseppe Fioratti, Lugano 1860).
Nell’introduzione alle Memorie politiche (Londra, ottobre 1857) si rivolse ai giovani cui dedica alcuni passi, molto forti, «affinché conosciate la ragione dell’odio profondo, che deve nutrire il patriota italiano contro il papato, il dispotismo interno e la dominazione straniera […] e conosciate infine gli errori, che di rovescio in rovescio hanno condotto gli Italiani nella presente schiavitù, ed i repubblicani nella discordia, nella sfiducia, nell’impotenza».
E ancora: «dovete voi stessi fare la rivoluzione, e non aspettate inerti che vi venga da noi; i quali nella maggior parte, per l’esilio di molti anni, siamo ignari delle reali condizioni dell’Italia […] che la indipendenza può bensì esservi data da una monarchia costituzionale, ma che la vera libertà politica e religiosa non può aversi se non se quando altre nazioni insorgeranno contro il dispotismo, e le une delle altre si renderanno solidali […] che le sorti della causa della libertà italiana ed europea sono riposte in voi, nella generazione che sta crescendo».
L’educazione….importante studiare perché la responsabilità della lotta per un mondo migliore non può essere fatta se non si sa leggere e scrivere, perché gli ignoranti sono tagliati fuori, deve essere preclusa loro.
I mali dell’Italia secondo Orsini
Il dispotismo interno esercitato da italiani su altri italiani per conto degli stranieri e, appunto, l’esser colonia di altre potenze europee (in fondo l’unico vero Stato preunitario indipendente era il Regno delle Due Sicilie, seppur retto da una dinastia di origini franco-ispaniche: nel Regno di Sardegna i Savoia parlavano e scrivevano in francese e in francese erano le discussioni parlamentari; il Lombardo – Veneto era parte dall’Impero austriaco; nei ducati di Parma-Piacenza-Lucca, Reggio Emilia-Modena, e nel Granducato di Toscana regnavano, rispettivamente, i rami cadetti dei Borbone di Spagna , degli Asburgo-Este e degli Asburgo-Lorena, tutti sovrani collegati a paesi stranieri): ecco i mali dell’Italia secondo Felice Orsini..
Insomma, in Italia non si muove mosca che Francia e Austria non vogliano. Anche il Papato è condizionato, non tanto nell’esercizio del potere temporale e spirituale ma nell’elezione del successore di Pietro: ebbene sì, nemmeno il papa si può scegliere liberamente nell’Italia pre-unitaria. La Penisola è una colonia vera e propria delle potenze europee, terra che considerano di loro proprietà, di poterne disporre liberamente, facendo governare i rami cadetti, mettendo un papa amico. L’Italia è di tutti fuorché degli italiani.
Felice Orsini: un terrorista?
Che dire, in conclusione, di Felice Orsini, di questo romagnolo impetuoso, generoso, sentimentale, selvatico, indomito, con un volto rude, reso severo da una barba nera, lunga, folta, da vero rivoluzionario, arricchito da due occhi vispi, intelligenti, determinati ma tristi, nel fondo dei quali si nota un’infinita dolcezza proprio come traspare dai suoi scritti?
Felice Orsini è un patriota animato da forti ideali di libertà nell’uguaglianza e indipendenza o miseramente solo il primo terrorista della storia? Quale il suo pensiero? Perché mettersi in testa che senza uguaglianza, senza giustizia sociale sia la libertà sia l’unità della Nazione sarebbero servite a poco?
Pensare al percorso umano e politico di Orsini significa comprendere la dignità morale e la forza civile che animò l’Italia nel Risorgimento, dai primi moti sino alla piena indipendenza.
Orsini è di certo rivoluzionario, cospiratore, avventuriero, patriota imprevedibile e primo terrorista italiano; ideologico, credente in Dio («io sono fermamente convinto della sua esistenza») e nella Provvidenza (alla Provvidenza, essenzialmente, pensa quando riesce a fuggire dalle famigerate carceri di Mantova); uomo tutto d’un pezzo che sa ammettere gli sbagli fatti (come fa nella lettera indirizzata in punto di morte a Napoleone III in cui giudica l’attentato un atto che «non entra ne’ miei principi, abbenchè per un fatale errore mentale io mi sia lasciato condurre ad organizzare l’attentato); un uomo coerente che, prima di morire, si rivolge agli italiani così: «miei compatrioti… che la redenzione loro deve conquistarsi coll’abnegazione di loro stessi, colla costante unità di sforzi, e di sacrifizi, e coll’esercizio della virtù verace: doti che già germogliano nella parte giovane e attiva dei miei connazionali, doti che sole valgono a fare l’Italia libera, indipendente, e degna di quella gloria onde i nostri avi la illustrarono […]muoio, ma mentre che il faccio con calma e dignità, voglio che la mia memoria non rimanga macchiata da alcun misfatto […] gl’Italiani fatti un dì indipendenti diano un degno compenso a tutti coloro che ne soffrirono danno».
La storia di Felice Orsini merita di essere conosciuta e “sentita” perché è la storia di un uomo semplice, padre attento, marito, nipote, fratello, politico, rivoluzionario innamorato della sua Patria, credente nella religione della libertà nell’eguaglianza.
Un uomo un po’ patriota, un po’ rivoluzionario, un po’ terrorista, di certo coerente, il quale caratterizzò l’Italia di metà Ottocento mettendo al servizio dell’indipendenza e della libertà del popolo italiano l’intelligenza, la temerarietà, ma anche l’incoscienza, il furore, la violenza.
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- Rinaldo Caddeo, L’attentato di Orsini (1858), Mondadori, Milano, 1932.
- Felice Orsini, Memorie di un italiano terribile, CDE, Milano, 1970.
- Felice Orsini, Vita e memorie di Felice Orsini precedute dalla storia dell’attentato e seguite dagli interrogatori e documenti del processo – volume primo: un italiano terribile, Firenze 1864.
- Emanuele Maestri, L’ideale unitario in un uomo romantico – da pag. 215 a pag. 244 Quaderno di Critica e Cultura Scripta manent. Storie di mittenti e destinatari, dicembre 2022.