CONTENUTO
La fascistizzazione dello Stato durante il primo governo Mussolini
Durante quello che viene ricordato come il suo primo governo, attraverso l’utilizzo dei poteri costituzionali, Mussolini tra il 1922 e il 1925 svolge un sistematico processo di fascistizzazione dello Stato, delle sue strutture e del suo ordinamento. Vengono poste le basi per la futura dittatura attraverso un progressivo indebolimento delle prerogative del Parlamento e un conseguente rafforzamento del potere esecutivo. Fin dal “movimento fascista” (termine apparso per la prima volta nel 1915) i fascisti infatti disprezzano il parlamento sostenendo l’utilizzo della violenza e della “politica della piazza” per appoggiare le rivendicazioni irredentiste.
La forza del totalitarismo risiede nel seguire un unico “credo”, motivo per cui Mussolini, fin da subito, favorisce la riduzione del pluralismo politico per poter poi imporre il partito unico fascista. Vengono eliminate tutte le libertà costituzionali come quelle di stampa, di associazione e di sciopero.
Nel 1922 viene istituito il Gran consiglio del fascismo, organo di partito a cui vengono affidati importanti funzioni costituzionali, un po’ il punto di contatto tra lo Stato (guidato da Mussolini ma avente la struttura esterna del vecchio stato monarchico) e il Partito Fascista. Le strutture militari e politiche del fascismo vengono integrate nell’apparato statale come accade alle squadre fasciste che, nel 1923, vengono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, così che Mussolini può sia servirsene contro i nemici politici sia avere un controllo diretto sul braccio armato del suo stesso movimento che, altrimenti, può risultare problematico.
Nello stesso anno viene varata la legge Acerbo, una legge elettorale che elimina il sistema proporzionale; il premio di maggioranza prevede infatti che 2/3 dei seggi vadano alla lista che ottiene più del 25%. Grazie a questa legge e al clima di violenza instaurato la lista fascista (a cui aderiscono anche la maggior parte dei liberali) ha la meglio nelle elezioni dell’aprile del 1924.
Questa situazione viene denunciata da Giacomo Matteotti, politico e giornalista nonché segretario del PSU, e alle sue dichiarazioni segue il suo rapimento e assassinio da parte di una squadra fascista probabilmente sotto le direttive di Mussolini. Nessuna azione di opposizione viene lasciata impunita.
Dopo il famoso discorso alla Camera del 3 gennaio del 1924 vengono censurati i giornali di opposizione, sciolte 25 organizzazioni “sovversive”, chiusi 35 circoli politici e 150 esercizi pubblici e arrestati 111 oppositori oltre alle innumerevoli perquisizioni compiute nelle abitazioni.
Tra il 1925 e il ‘26 vengono varate le “leggi fascistissime” che oltre a sottoscrivere le precedenti disposizioni istituiscono: il confino di polizia per gli antifascisti, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato con il compito di reprimere i reati politici (cioè gli oppositori del fascismo) istituendo anche la pena di morte per i reati che minano la sicurezza dello Stato, e l’OVRA ovvero la polizia segreta i cui uffici speciali si occupano di investigazioni e repressioni.
Negli stessi anni Mussolini scioglie tutti i partiti ad eccezione ovviamente di quello fascista, sopprime i giornali antifascisti, decreta il licenziamento di migliaia di impiegati statali, toglie la cittadinanza agli esuli politici, abolisce le amministrazioni locali di nomina elettiva e la figura del sindaco viene sostituita da quella del podestà nominato dal governo. La trasformazione dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia nel regime fascista si compie nel 1939 quando la Camera dei deputati viene sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni che ormai esclude dal potere legislativo il re ed il Senato.
Ma per arrivare al compimento del progetto totalitario non è sufficiente rendere fascista lo Stato, contemporaneamente l’ideologia fascista deve permeare tutta la società italiana in tutti i momenti della giornata e della vita pubblica.
La fascistizzazione della società
«Quela te dà la mano a chissessia
nun è certo un’usanza troppo bella:
te po succede ch’hai da stringe quella
d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.
Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
quann’ha toccato quarche porcheria.
conti er bacillo d’una malatia,
che t’entra in bocca e va ne le budella.
Invece a salutà romanamente,
ce se guadambia un tanto co l’iggiene,
eppoi nun c’è pericolo de gnente.
Perché la mossa te viè a dì in sostanza:
“Semo amiconi…se volemo bene…
ma restamo a ‘na debbita distanza”»
Il poeta romano Trilussa in questo sonetto dal nome “La stretta de mano” ironizza sulla scelta poco igienica della stretta di mano dal momento in cui il regime vieta questa forma di saluto per favorire invece il “saluto romano”. Mai realmente usato nell’antica Roma questo saluto prevede il braccio destro alzato, il palmo della mano rivolto verso il basso e le dita unite. Immaginiamo in questa posizione e con indosso una camicia nera un “perfetto cittadino fascista” a seguito della fascistizzazione, così prescrive Mussolini.
Una funzione importante nella fascistizzazione della società viene svolta dalle organizzazioni “collaterali” al partito: nel 1925 infatti viene istituita l’Opera nazionale dopolavoro con il compito di gestire il tempo libero di milioni di lavoratori attraverso l’organizzazione di attività ricreative e le attività sportive non sono più controllate da organismi privati ma dal Coni (Comitato olimpico nazionale). Le attività sportive sono incoraggiate non solo per la salute ma anche e soprattutto per i valori di cameratismo e obbedienza alle regole che queste possono veicolare.
Per questo motivo lo sport viene tenuto in grande considerazione, in ogni comune vengono costruiti impianti sportivi che presentano inequivocabili elementi fascisti come l’icona del fascio littorio o scritte murali che veicolano parole d’ordine e concetti basilari propugnati dal regime, inoltre, le cronache sportive vengono trasmesse via radio insieme ai discorsi del Duce.
Mussolini utilizza qualsiasi tipo di propaganda per accrescere il consenso e la radio risulta il mezzo principale per diffondere l’ideologia fascista per cui, visto che non tutti possono permettersi l’acquisto di una radio, ogni paese viene obbligato ad averne una.
La stampa subisce una forte censura nel corso degli anni e viene controllata direttamente dal Minculpop (ministero della cultura popolare fondato nel 1935) che sequestra i documenti ritenuti pericolosi e diffonde le veline (gli ordini stampa). Viene censurata anche la cronaca nera così da presentare un’utopica età dell’oro sotto la guida del Duce.
I giornali devono celebrare la figura del capo del governo, le sue imprese e le sue idee a volte anche difficili da identificare. Spinosa scrive infatti che Mussolini «Nelle sue trasformazioni, mirate di volta in volta a soddisfare la voglia di comandare è stato rivoluzionario e conservatore, repubblicano e monarchico, ateo e credente […] Ciò che contava era l’esercizio del comando e non la difesa delle proprie idee che, se diventavano un ostacolo venivano rimosse e cambiate».
La fascistizzazione dei giovani
Anche i giornali per bambini sono impregnati dell’ideologia fascista in quanto proprio i giovani costituiscono l’obiettivo principale dell’indottrinamento. Nascono infatti organizzazioni collaterali per ogni età: i Figli della lupa per i bambini fra i 6 e i 12 anni, l’Onb (Opera nazionale Balilla) per i ragazzi fra gli 8 e i 18 anni a cui viene fornita anche un’istruzione premilitare, i Fasci giovanili e i Guf (Gruppi universitari fascisti).
Le bambine dopo essere state “figlie della lupa” vengono indirizzate in altre associazioni femminili, nelle Piccole italiane prima e nelle Giovani italiane poi. La formazione giovanile femminile comprende l’addestramento ad essere delle buone mogli, madri e massaie. Una figura centrale nella propaganda fascista infatti è proprio quella della donna relegata alla figura tradizionale di madre. A questo proposito il regime nel 1925 istituisce l’OMNI (Opera nazionale della maternità e dell’infanzia) riorganizzata poi nel 1933.
Vista l’attenzione all’infanzia non può mancare un’intromissione del regime nella scuola. La riforma Gentile varata nel 1923 definita da Mussolini “la più fascista delle riforme” comprende una serie di atti normativi per il sistema scolastico tra cui l’insegnamento della religione nelle scuole elementari, l’introduzione di un esame di stato al termine di ogni ciclo di studi e il divieto dell’utilizzo della lingua slovena e croata nelle scuole e negli uffici (ma su questo argomento torneremo più avanti).
Con la legge N.5 del 7 gennaio 1929 viene introdotto il libro unico limitando così di fatto l’autonomia didattica degli insegnanti impedendo loro ogni libertà di scelta. Il testo unico diventa obbligatorio sia nelle scuole pubbliche che private dall’anno scolastico 1930-31 e viene compilato da una commissione nominata dal Ministero dell’Educazione Nazionale e poi rinnovato ogni tre anni. Pubblicato e distribuito dalla Libreria dello Stato il libro riporta delle tematiche ricorrenti come la religione, la famiglia, il Re Imperatore, l’esaltazione del Duce attraverso brani, filastrocche e storie dal grande valore propagandistico. Il libro unico non viene introdotto anche nelle scuole secondarie ma i testi sono ugualmente controllati e i programmi di insegnamento allineati alle esigenze del regime.
Gli studenti inoltre sono chiamati a partecipare a tutte le cerimonie fasciste di cui il governo si avvale per la costruzione del consenso, questo si evidenzia anche dai registri di classe dove gli insegnanti annotano ricorrenze e relative partecipazioni.
Un’ulteriore svolta scolastica avviene nel 1939 quando il ministro Giuseppe Bottai fa approvare la “Carta della Scuola” con la quale, attraverso 19 dichiarazioni, vengono stabiliti principi, fini e metodi per la realizzazione integrale dello stato fascista che mira soprattutto alla formazione della coscienza umana e politica delle nuove generazioni. Gli obiettivi sono quelli di creare una stretta connessione tra la scuola e le corporazioni e di dislocare gli alunni nelle direzioni consone alla loro situazione sociale e alle esigenze economiche e politiche dell’Italia fascista. Lo stesso Bottai inserisce provvedimenti antisemiti nelle scuole: gli insegnanti e gli alunni ebrei vengono espulsi e vengono create delle scuole elementari distinte.
Non tutti i provvedimenti presenti vengono attuati a causa dello scoppio della guerra, solamente l’istituzione della scuola media unica entra ufficialmente in vigore dal 1940.
Il tesseramento
Un ulteriore controllo da parte dello Stato viene messo in pratica dal tesseramento, nel 1931 infatti il regime richiede obbligatoriamente ai docenti delle università italiane un atto di formale adesione al fascismo: il giuramento di fedeltà. Rifiutare il giuramento significa perdere la cattedra e solo una quindicina su 1251 docenti universitari non si piega alla richiesta mussoliniana.
Ricordiamo infatti che già dall’anno precedente il tesseramento fascista da almeno cinque anni è un requisito fondamentale per ricoprire incarichi scolastici di alto livello (presidi e rettori) e dal 1933 anche per accedere ai concorsi per gli incarichi pubblici. Dal 1938 la mancanza di iscrizione al partito tramite tesseramento comporta l’impossibilità di accesso al lavoro e pesanti sanzioni per coloro che decidano di assumere un dipendente che ne è sprovvisto.
Le tessere del partito o delle confederazioni ormai definite “Tessere del pane” per i motivi sopracitati sono stampate su cartoncino e recano all’interno i dati del tesserato, i timbri della Federazione o del Fascio di appartenenza e la formula del giuramento:
«Nel nome del Dio e dell’Italia giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con
tutte le mie forze e se è necessario con il mio sangue la causa della Rivoluzione fascista».
Nell’ultima pagina sono stampati gli spazi per i rinnovi, mensili o annuali.
Il “fascismo di pietra”: la fascistizzazione urbana
I valori del Regime vengono espressi anche attraverso la costruzione di monumenti, gli interventi urbanistici e la fondazione di nuove città, a tal punto che Emilio Gentile conierà l’espressione “fascismo di pietra” per identificare questo processo.
L’architettura diventa una delle forme più invasive ed evidenti della propaganda in cui convivono tendenze diverse fra loro: la predilezione per le dimensioni monumentali, la prevalenza di uno stile razionale, l’uso del marmo ad imitazione dei fasti imperiali. Un esempio di come Mussolini utilizza i monumenti per la sua propaganda è il Monumento alla Vittoria costruito a Bolzano tra il 1926 e il 1928 su un progetto dell’architetto Marcello Piacentini. Questo sorge sulla piazza ubicata sul lato occidentale del fiume Talvera dove dieci anni prima era iniziata la costruzione di un’opera in onore dei Kaiserjager caduti in guerra, per cui il Monumento alla Vittoria viene considerato dai tirolesi una provocazione e un’umiliazione.
Per il Duce questa installazione celebra un’Italia eroica e nazionalista in contrapposizione ai valori del socialismo e del pacifismo. Un esempio grandioso del piano di rinnovamento urbano è quello proposto per Roma nel 1931 in cui ad un programma di stampo razionale si affianca una chiara intenzione di monumentalizzazione del centro storico. Questa sintesi tra elementi neoclassici e razionalisti viene efficacemente realizzata negli edifici del quartiere Eur.
Lo stile utilizzato nelle costruzioni che verrà poi definito “littorio” è geometrico e privo di decorazioni ritenute inutili, nel complesso l’impressione generale deve essere di estremo ordine sia architettonico che sociale.
Particolare è invece il caso della Gola del Furlo in cui si può utilizzare letteralmente la formula “fascismo di pietra”. A ridosso della gola negli anni ’30 la Guardia Forestale locale e gli operai delle miniere con un’opera di scavi e costruzione di muretti riproducono nella roccia il volto di Mussolini. L’opera minata e distrutta dai partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale oggi è ancora parzialmente riconoscibile.
La fascistizzazione degli ambienti artistici: il cinema e la fotografia
La fascistizzazione avviene anche per il cinema, sostenuto dal governo come strumento di propaganda politica. Viene fondata l’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) con il compito di educare e formare gli italiani secondo l’ideologia fascista e, negli anni ’30, sorgono gli studi di Cinecittà. Nasce il Cinemobile che, proiettando le pellicole nelle piazze, favorisce la diffusione di massa dei messaggi fascisti. Prima della proiezione di qualsiasi film è obbligatoria la trasmissione dei cinegiornali che, fra una notizia internazionale e un approfondimento culturale, elogiano l’opera del governo Mussolini.
Gli stessi film sono soggetti al controllo del Duce e sono incentrati sulle tematiche favorite al regime: celebrano i valori del fascismo e la figura di Mussolini, esaltano il mondo rurale, le imprese coloniali e militari, l’Impero Romano sottolineandone il legame e la continuità con il fascismo, rappresentano la grandezza dell’Italia e di Roma e narrano le biografie dei più importanti personaggi italiani esaltandone la superiorità in base alla “razza”.
Anche le foto ritraggono un’Italia fascistizzata immortalando gli eventi ufficiali del regime, le sue organizzazioni, le esercitazioni paramilitari e, più in generale, tutti i momenti della vita fascista.
La fotografia assume anche il compito di celebrare la figura del Duce rappresentandolo come l’incarnazione di tutte le virtù del “buon italiano”. Mussolini viene fotografato con inquadrature dal basso per mascherare la sua bassa statura, in ambienti sportivi (mentre nuota, guida auto sportive, scia), in ambienti rurali (mentre è occupato a trebbiare un terreno) o mentre accarezza bambini o sostiene vedove e mutilati.
La fascistizzazione della lingua
Ciò che contribuisce in maniera netta alla mitizzazione del personaggio di Mussolini è il suo linguaggio che si caratterizza per la forte allusività e l’utilizzo di strumenti linguistici densamente comunicativi, dotati di una intensa carica emotiva. Lo scopo della retorica di Mussolini è infatti quello di suscitare un notevole coinvolgimento emotivo nelle masse di uditori, implicando una reazione passionale in maniera immediata. Già precedentemente all’instaurazione del regime Mussolini si dimostra consapevole di quanto la parola sia importante in politica e a questo proposito afferma:
«La potenza della parola ha un valore inestimabile per chi governa. Occorre solo variarla continuamente. Alla massa bisogna parlare imperioso, ragionevole avanti a un’assemblea, in modo familiare a un piccolo gruppo».
L’utilizzo di metafore e di un lessico mistico-religioso, che si inserisce nella volontà del fascismo di rivestire la propria “missione” di un’aurea di sacralità, comporta l’acquisizione di termini dannunziani di cui viene accentuato ancor più il carattere spiritualistico.
Per perseguire lo scopo della fascistizzazione anche linguistica del Paese la politica linguista del fascismo sviluppa come presupposto fondamentale l’imitazione della “lingua del Duce” aspirando la creazione di una lingua nazionale. Prende avvio la “purificazione” da tutti gli elementi fuorvianti rispetto alla norma avvertiti come veri e propri elementi linguistici “disturbanti”, che prevede il riconoscimento della sola componente linguistica “nazionale” all’ interno dei confini politici del territorio italiano.
Nel corso dell’Ottocento nasce in Italia una corrente definita “Purismo” fondata sul rifiuto di accogliere neologismi e parole provenienti da lingue straniere; a partire dai primi decenni del Novecento si sviluppa il “Neopurismo” che, data la presenza di sentimenti nazionalistici accesi dopo le guerre d’indipendenza ottocentesche, attua un vero e proprio connubio con il mito dell’italianità della lingua ponendosi come obiettivo quello di eliminare dal lessico tutti i termini avvertiti come esotismi.
Il regime fascista rende sua la corrente neopurista estremizzandola e macchiandola di una forte componente xenofoba. La lingua può essere inserita in prima linea tra le componenti utilizzate dalla politica e dalla propaganda fascista per controllare e plagiare le coscienze ancora prima dell’avvento del totalitarismo. Infatti, le prime avvisaglie dell’involuzione xenofoba della politica linguistica fascista possono essere riscontrate nel decreto n. 352 emanato l’11 febbraio del 1923: con questo intervento legislativo viene aumentata l’imposta sulle insegne e sulle vetrine che presentano parole in lingua straniera utilizzate per pubblicizzare le attività commerciali.
Un’operazione notevole per favorire l’italianizzazione è compiuta nell’ambito della toponomastica. Mussolini con il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923 incarica una Commissione, divisa al suo interno in due sottocommissioni una per il Trentino-Alto- Adige e una per la Venezia Giulia, di italianizzare i toponimi nelle province di nuova annessione.
In questo modo ad esempio, la città di Wolkenstein prende il nome di Selva con l’adattamento alla fonologia italiana, Montiggl diventa Monticolo riprendendo l’etimologia Monticulum e italianizzandola. Nel 1939 il Consiglio della Reale Accademia d’Italia nomina una nuova Commissione con lo stesso compito di quella istituita nel ’23 per i relativi nuovi territori.
“Bonifica linguistica” e fascistizzazione al confine orientale
A subire le conseguenze maggiori dei provvedimenti di fascistizzazione linguistica è la popolazione di lingua tedesca o slava che abita il confine orientale. In questa circostanza non si parla solamente di rendere fascista la popolazione allogena locale ma di assimilarla completamente a quella “di pura razza italiana” distruggendone così la cultura. La politica del fascismo, in accordo con gli ideali di unificazione e di standardizzazione culturale, impone alle minoranze etniche una serie di provvedimenti liberticidi in base a principi razzisti e di “superiorità della civiltà italiana”. Mussolini in uno dei suoi discorsi infatti afferma:
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà
lo zuccherino, ma quella del bastone».
La rigida ideologia razzista di Mussolini diventa legge: vengono eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, precedentemente rinnovate dai governi liberali dopo la guerra, vennero sciolte anche tutte le associazioni politiche, culturali, sociali, economiche, sportive e professionali slovene e croate.
Inoltre cessano di esistere anche i partiti politici, in questo modo le minoranze etniche non hanno più una partecipazione attiva alla vita politica anche se i loro rappresentanti continuano a lottare per il riconoscimento dei diritti delle minoranze nel Congresso delle nazionalità che si riunisce periodicamente in varie città europee.
Oltre alla negazione dell’utilizzo di altre lingue diverse da quella italiana, durante il processo di italianizzazione, vengono chiuse le 541 scuole slovene e croate e gli insegnanti vengono licenziati o trasferiti. La risposta ai divieti imposti dal regime spesso è la clandestinità. In questo caso vengono create delle scuole clandestine che vengono significativamente chiamate katakombenschulen ovvero scuole- catacomba. Sorgono in Alto Adige, nella Venezia Giulia e in Valle d’Aosta.
Osservando le modifiche al decreto n. 352 del 1923 (già precedentemente citato) si può notare il graduale acuirsi dei caratteri autarchici, infatti, nel 1938, anno in cui vengono promulgate le leggi razziali, con il decreto numero 1162, le insegne con voci straniere vengono completamente bandite e il divieto viene esteso anche ai cartelli, ai manifesti e alle intestazioni delle ditte. L’italianizzazione colpisce anche le iscrizioni funerarie: in Alto Adige diventa vietato l’utilizzo del tedesco mentre nella Venezia Giulia non è più possibile commemorare un defunto attraverso l’iscrizione con parole slave.
Ma il regime arriva anche ad attuare una vera e propria spersonalizzazione delle comunità alloglotte agendo direttamente nella sfera privata dei singoli individui. Con la giustificazione di ridare ai cognomi slavi la loro veste più aulica, dando loro la gloria della presunta origine latina, spogliandoli quindi delle influenze della dominazione austriaca, con la legge n. 898 del 24 maggio 1926 Mussolini abolisce i cognomi formulati nelle lingue minoritarie. Nel primo articolo della legge sopracitata possiamo leggere infatti:
«Le famiglie della provincia di Trento che portano un cognome originario italiano o latino tradotto in altre lingue o deformato con grafia straniera o con l’aggiunta di un suffisso straniero, riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie. Saranno ugualmente ricondotti alla forma italiana i cognomi di origine toponomastica […]».
Coloro che si sottraggono a tale coercizione sono soggetti ad un’ammenda dalle cinquecento alle cinquemila lire, finendo per essere additati come nemici del regime e vedendo comunque il loro cognome sostituito secondo gli ideali di “italianità” proposti dal prefetto.
La spersonalizzazione tocca vette altissime nella Venezia Giulia quando, nel 1928, si arriva ad italianizzare persino i nomi di battesimo in quanto dal regime possedere un cognome italiano e un nome slavo viene visto come “ridicolo e vergognoso”.
Il linguista Miro Tasso dedica più di un articolo all’attenta ricostruzione di quello che lui definisce un “onomasticidio di Stato”; nei suoi scritti appare come figura centrale Aldo Pizzagalli, presidente della Commissione appositamente creata a Trieste, il quale, secondo il parere del linguista, sarebbe il vero e proprio artefice dell’“onomasticidio” nella città. Originario di Pesaro ma arrivato a Trieste per fare carriera, con il suo libro “Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste”, una sorta di manuale in cui è presente una lista di cognomi e le relative corrispondenze, indica il modello anche per le altre province giuliane, descrivendo nella parte iniziale l’iter da seguire. Tasso inoltre afferma che, dopo la legge del 1991 che garantisce il ripristino dei cognomi originali, sono pochi quelli interessati a riassumere il cognome dei propri avi, essendo effettivamente trascorse più generazioni.
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- Renzo De Felice, Mussolini il fascista II l’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, 2019
- Andrea Bacci, Lo sport nella propaganda fascista, Bradipolibri, 2002
- Giorgio Giannini, La tragedia del confine orientale. L’italianizzazione degli slavi, le foibe, l’esodo giuliano-dalmata, LuoghInteriori, 2019
- Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo, Il Mulino,1986
- Tasso Miro, Fascismo e cognomi: italianizzazioni coatte nella provincia di Trieste, Rivista italiana di onomastica