CONTENUTO
di Giuseppe Esposito, nato a Napoli nel 1955, è laureato in Scienze della Sicurezza (con una tesi sulla “Sindrome di Stoccolma”), in Scienze Internazionali e Diplomatiche (con una tesi sulla “Genealogia delle ideologie terroristiche”) e in Beni Culturali (tesi sui “Rapporti tra Egeo ed Egitto nel Bronzo Tardo”). Appassionato di egittologia e di storia è autore di un romanzo, “Complotti a Tebe”, pubblicato nel 2006, finalista al “Premio Letterario internazionale Archè”, e di molti articoli di storia e storia dell’arte.
Le piramidi egizie sono state costruite da schiavi?
Le piramidi! L’unica delle Sette Meraviglie del mondo antico (se ci riferiamo alle più conosciute di Keops, Khafra e Menkaura) che ancora si possono ammirare e che campeggiano nella piana egiziana di Giza. Una prima precisazione appare necessaria, da cosa deriva il termine “piramide”? La “pyramis” era, in realtà, un dolce di farro e miele, di forma vagamente tronco-conica o piramidale, che i soldati greci offrivano in memoria dei commilitoni morti in battaglia.
Autori più recenti, come Stefano di Bisanzio (VI secolo) fanno derivare il nome da “pyros”, ovvero frumento, e indicano le piramidi come “i granai di Giuseppe”, il biblico fanciullo venduto dai fratelli, oppure (Appiano Marcellino, IV secolo), ugualmente, dal greco “pyr” che vuol dire fuoco poiché, in qualche modo, assomiglierebbero a una fiamma, più larga alla base e più stretta al vertice.
Colui, tuttavia, che viene considerato “il padre della storia”, Erodoto, che visse nel V secolo a.C., scrisse sulle piramidi qualcosa di più, anche se estremamente lacunoso e decisamente fuorviante che è, tuttavia, alla base della comune credenza che le piramidi siano state costruite da schiavi.
È d’obbligo rammentare alcuni particolari che pongono i testi di Erodoto in una luce di minor certezza storica: l’autore scrive a 2500 anni dalla costruzione delle piramidi, ed egli stesso, nelle sue “Storie”, Libro II, 123 e sgg., chiarisce che “A queste cose raccontate dagli Egizi prestino pure fede coloro per i quali faccende del genere risultano credibili; ma per me in tutta la narrazione è dato per sottinteso che scrivo, per averle sentite narrare…”.
Appare chiaro, leggendo i resoconti erodotei sull’Antico Egitto (paese che girò “turisticamente” e in cui restò solo quattro mesi), che gli stessi “intervistati” avessero ben scarsa conoscenza della storia delle piramidi e, ancor meno, delle tecniche costruttive: il sollevamento dei massi immani usati per realizzarle, ad esempio, viene liquidato con una frase che ancora oggi appassiona egittologi e ingegneri: “per sollevare le pietre, scrive Erodoto, usarono legni corti”. In verità un po’ poco per capire come funzionasse il sistema.
Altra precisa incongruenza citata da Erodoto, e dai suoi interlocutori, il sistema di realizzazione secondo cui prima sarebbero state realizzate delle “montagne” di massi e poi questi sarebbero stati scolpiti, dall’alto verso il basso, per realizzare la forma piramidale talché la base sarebbe stata realizzata per ultima. Tale ipotesi è decisamente irrealizzabile, specie là ove si consideri che anche un minimo errore di pochi millimetri alla sommità avrebbe comportato una rotazione del solido di parecchi gradi alla base.
Dando per scontato, quindi, che le piramidi siano state costruite dalla base verso la cima, e con pietre già squadrate, appare chiaro che il lavoro non possa essere stato svolto da “schiavi”, ma solo da maestranze ben preparate e ancor meglio dirette. È inoltre interessante notare che presso gli egizi non esisteva il concetto stesso di schiavitù e che se pure era presente servitù, questa aveva diritti ben precisi e poteva aspirare anche ad ascendere la scala gerarchica come si dirà nel paragrafo seguente.
La schiavitù nell’Antico Egitto
Per parlare della schiavitù dobbiamo tornare per un attimo al paragrafo precedente e confermare che le piramidi non sono state costruite da schiavi, o per meglio dire, non è escluso che tra gli operai vi fossero anche schiavi, o prigionieri di guerra, ma la gran parte della manovalanza doveva essere specializzata e degna di fiducia data la precisione di alcune lavorazioni.
Un tale incarico non poteva perciò essere esclusivamente affidato a mano d’opera che non fosse motivata da qualcosa di ben superiore che non svolgere un semplice lavoro di manovalanza, come il convincimento di lavorare per la gloria di un Dio, poiché tale era il Re.
Erodoto, in questo fuorviato dalle persone da lui “intervistate” dopo oltre duemila anni dalla costruzione delle grandi piramidi, quantifica la mano d’opera in centomila unità; studi recenti, basati sugli spazi di manovra utili per costruire i monumenti, nonché sui documenti ancora esistenti o sulle tombe dei lavoranti (nei dintorni delle piramidi più famose), ridimensionano tale numero a dieci-ventimila.
La stessa presenza di tombe di operai nei pressi delle piramidi testimonierebbe che non si trattava di gente d’infimo rango, come gli schiavi, giacché la vicinanza alla tomba del Dio era sintomatica di una qual forma di concessione e prova ne sono le numerose mastabe dei Funzionari di Corte che venivano autorizzati dal Re a godere della sua vicinanza dopo la morte (un’idea del resto ancora viva nel medio evo in cui i personaggi di alto rango facevano di tutto per essere sepolti il più vicino possibile all’altare maggiore o al sepolcro del santo).
Il concetto di schiavitù, per come lo intenderanno i greci, o i romani, era praticamente sconosciuto nell’Antico Egitto dove i “morti vivi”, ovvero quelli che noi chiameremmo “schiavi”, erano quasi esclusivamente prigionieri di guerra, o condannati o, più raramente, persone che “vendono” se stesse per un periodo limitato di tempo.
Gli “schiavi” egizi erano protetti anche dai soprusi dei loro padroni che potevano essere puniti severamente per eventuali maltrattamenti; erano inoltre titolari di diritti, potevano possedere proprietà e sposare, addirittura, membri delle famiglie presso cui lavoravano (nel c.d. “Papiro dell’adozione” si legge: “…Comprammo la schiava Dienihatiri che mise al mondo tre figli, un maschio e due femmine. Io li ho adottati, nutriti ed educati, e fino al giorno d’oggi essi non mi hanno mai arrecato danno; al contrario, mi hanno trattato bene, e io non ho altri figli né figlie che loro. […] Ecco, io li ho liberati, e se ella metterà al mondo un figlio o una figlia, essi saranno liberi…”).
L’Esodo: l’uscita degli Ebrei dall’Egitto
E restiamo ancora nel campo della schiavitù poiché il racconto biblico ci narra dell’intera popolazione ebraica, schiava in Egitto per la costruzione di intere città come Pi-Ramses e Pi-Tom, che dopo diverse peripezie, e dopo dieci piaghe che convinsero il “faraone” a lasciarli andar via, abbandonarono il Paese.
“Gli Israeliti partirono da Ramses [ndr: si intende Pi-Ramses] alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero.” (Esodo, 37,38)
Quel che colpisce, subito, è il numero di “seicentomila uomini capaci di camminare”; prendendo per vero questo numero, e calcolando ogni nucleo familiare di almeno 4-5 persone, si giunge al considerevole numero di oltre tre milioni di unità cui si dovrebbe aggiungere “…una grande massa di gente promiscua…”. Appare chiaro che un tale episodio non avrebbe potuto passare inosservato in un Paese come l’Egitto, anche considerando che gli antichi egizi erano dei veri e propri grafomani che ne avrebbero di certo lasciato traccia cosa che, a oggi, non esiste.
In un altro passo dell’Esodo, tuttavia, si legge:
“Il re d’Egitto parlò anche alle levatrici ebree, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua…“ (Esodo 1, 15)
Due levatrici… anche considerando le sole donne fertili, tra 2-3 milioni di persone, appare chiaro che il numero è di certo insostenibile e poco credibile.
Studi più recenti, ricavati pur sempre dal racconto biblico, indicano l’eventuale numero di fuggiaschi in un numero compreso tra le sei e le dieci mila unità. Ciò perché l’antico termine con cui in ebraico si indicavano le migliaia, potrebbe essere tradotto anche con “gruppo di famiglia”. Se ciò fosse vero, si ridimensionerebbe considerevolmente il numero dei fuggiaschi riportando i fatti, quindi, a un episodio che non gravò eccessivamente sull’economia del Paese.
Ma quando avvenne l’Esodo?
Abbiamo sopra visto che nella sconfinata letteratura egizia non esiste traccia di un evento che si possa neppure lontanamente assimilare all’Esodo biblico; purtuttavia, studi anche esegetici hanno preso in considerazione un antico papiro contenente le cosiddette “lamentazioni di Ipwer” databile alla XIX dinastia (1291-1185 a.C.).
Il testo, tuttavia, appare a sua volta derivato da scritti ancor più antichi risalenti al burrascoso Secondo Periodo Intermedio (circa 1790-1540 a.C.) e, segnatamente, alla XII Dinastia. Il ragionamento, però, si sposta dal fatto in sé, l’Esodo, alla sua datazione per cui vengono prese in considerazione le 10 “piaghe d’Egitto”: tramutazione dell’acqua in sangue; invasione delle rane, delle zanzare e delle mosche; morte del bestiame; ulcere; pioggia di fuoco e grandine; invasione delle cavallette; le tenebre, la morte dei primogeniti.
Se si escludono i racconti, come il “romanzo di Sinhue”, ad esempio, o gli scritti encomiastici e biografici, due sono le tipologie letterarie maggiormente rappresentate nella letteratura egizia: gli “ammaestramenti” (ad esempio “l’ammaestramento di Kagemni”), e le “lamentazioni” (si vedano anche “le lamentazioni di Khakheperreseneb” risalenti al Medio Regno sotto il re Sesostri III). Nel secondo caso, si tratta normalmente di scritti di carattere politico che tendono a sottolineare periodi di particolare disordine sociale e, in questo quadro, rientra proprio il papiro di Ipwer (maggiormente noto come Leiden I 344 recto) in cui si narra del Grande Fiume (il Nilo) divenuto rosso come sangue, ipotesi tuttavia giustificabile con piene del fiume particolarmente intense, con maggior proliferazione di alghe di colore rosso.
Le “lamentazioni” (simili peraltro ad analoghe tipologie letterarie di altre civiltà medio orientali) erano, perciò, anche strumenti di propaganda del regnante di turno che ad una situazione cupa e disastrosa, opponeva quindi il suo potere nel risolvere i problemi dei sudditi, anche i più gravi e disperati, ristabilendo così l’ordine cosmico su cui si basava la vita stessa del Paese (la c.d. Maat).
Altra piaga pure sfruttata per tentare una datazione dell’Esodo è quella delle “tenebre” (Esodo 10, 21-29). In questa, alcuni studi hanno voluto vedere i tragici risultati dell’eruzione dell’isola egea di Thera (oggi Santorini) classificata a livello 6-7, su 8, della scala VEI (Volcanic Explosivity Index), con un’emissione di materiale compresa tra i 10 e i 100 km3, e un’altezza della colonna eruttiva superiore ai 20 km (ceneri di tale esplosione sono state rinvenute in Canada, Irlanda, Germania, Svezia).
Tale catastrofe avrebbe creato un oscuramento del sole che, in funzione dei venti predominanti, ben potrebbe aver offuscato il cielo in Egitto anche per alcuni giorni. Ma in base a tale ipotesi, i fatti narrati nell’Esodo dovrebbero essersi verificati intorno al 1620-26 a.C., cioè ben 400 anni prima dell’avvento al trono del faraone Ramses II che, sempre secondo la narrazione biblica, sarebbe colui che avrebbe ordinato la costruzione della città che avrebbe poi dovuto portare il suo nome: Pi-Ramses.
Da ciò potrebbe derivare un altro discorso sul chi fosse il “faraone dell’Esodo”, ma questo ci porterebbe ad altri complessi ragionamenti che potrebbero essere argomento di altri articoli.
Faraoni dell’Esodo (parole 764)
Parlando dell’Esodo biblico, ci siamo posti il quesito del “quando” l’esodo sarebbe avvenuto e, parallelamente, chi fosse quello che nella bibbia viene indicato semplicemente come “faraone”:
“…Mosè e Aronne vennero da Faraone e gli annunziarono: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!»…” (Esodo, 5, 1)
“…Faraone rispose: «Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele?…»” (Esodo, 5, 2)
Come già per le “piramidi”, delle quali abbiamo precedentemente rammentato la derivazione etimologica, soffermiamoci sul termine “faraone” che abitualmente usiamo per indicare il sovrano d’Egitto. A ben guardare, anche questa è una sorta di fake-news egittologica. Il termine faraone deriva, infatti, dalla grecizzazione dei termini “Per-Aa”, ovvero “Grande Casa” con cui solo a partire dalla XVIII dinastia, e sotto Thutmosi III, si iniziò a indicare il re che, precedentemente, era indicato con i termini “Nefer Netjer”, ovvero “Grande (o Buon) Dio”.
A voler perciò sottilizzare, tutti i re antecedenti alla XVIII dinastia non potrebbero essere chiamati “faraoni”, ma noi faremo uno strappo e con tale termine indifferentemente li indicheremo. E non stupisca neppure il fatto che il re venisse indicato come “Grande Casa”: non è forse quello che ancora oggi facciamo quando per indicare, ad esempio, la figura del Presidente della Repubblica citiamo il Quirinale, o la Santa Sede a indicare il Papa?
Ma torniamo al quesito di partenza: chi fu il faraone dell’Esodo? E già in premessa, chiariamo che al termine di quest’articolo… non scopriremo chi è “l’assassino” e non avremo la risposta conclusiva, ché troppi e complessi sono gli studi che hanno interessato, nei secoli, e interesseranno per chissà quanto ancora, questo appassionante argomento.
Un primo “indiziato” è stato a lungo il grande Ramses II (regno 1279-1213 a.C) della XIX dinastia (per inciso, ben undici furono i re che portarono tale nome), e questo per il preciso riferimento alla costruzione di una città che avrebbe portato il suo nome: Pi-Ramses, ovvero “Città del figlio di Ra”, giacché questa è la traduzione del nome Ra-Mses.
Dagli inizi del secolo scorso, tuttavia, l’attenzione si spostò su uno degli innumerevoli figli di Ramses II (la tomba KV5, nella Valle dei Re, riconducibile a sepoltura proprio dei figli del grande Faraone vissuto oltre 80 anni, conta, ad oggi, oltre 150 locali e ha portato all’individuazione certa di 52 nominativi di figli), ed esattamente il suo tredicesimo figlio e successore sul trono, Merenptah (regno 1213-1203 a.C.).
Nel 1907, infatti, nel corso di un’autopsia cui la mummia (scoperta nel 1898) fu sottoposta, si rilevò nei tessuti del corpo gran quantità di sale che convinse gli studiosi dell’epoca derivasse dall’essere annegato nell’inseguimento degli Ebrei e nell’attraversamento del Mar Rosso. Peccato che quegli studiosi, peraltro grandi (tra questo Gaston Maspero, fondatore del Museo Egizio del Cairo), avessero dimenticato che la mummificazione prevedeva un’immersione del corpo per 70 giorni nel natron… ovvero nel sale!
Ma quando trattammo della datazione dell’Esodo biblico, puntammo la nostra attenzione su una delle sette piaghe e, segnatamente, sulle “tenebre” indicando, quale possibile causa l’eruzione dell’isola egea di Thera/Santorini il cui “fungo” esplosivo avrebbe raggiunto e notevolmente superato i 20 km di altezza se è vero che tracce di questo cataclisma sono state rinvenute in aree lontanissime come la Svezia o il Canada.
Orbene, tale eruzione, da analisi anche dendrocronologiche (ovvero degli anelli di accrescimento di alcuni olivi sepolti vivi nei tefra, i prodotti dell’eruzione, di Santorini) si sarebbe verificata intorno al 1620-26 a.C. ovvero ben 400 anni prima della XIX dinastia cui Ramses II, e il suo successore Merenptah, appartenevano.
Altri studi, tuttavia non esaustivi e basati su complesse valutazioni comparate e analisi storico-archeologiche, hanno ipotizzato altri re; tra gli altri Ahmose, primo re della XVIII; Thutmosi III cui, si rammenterà, si deve l’istituzione del termine “faraone” e che, soprannominato “il Napoleone d’Egitto” per la sua indole guerriera, verrebbe indicato come il “re oppressore”, a cui successe il figlio Amenhotep II da individuarsi, perciò, come il “faraone dell’Esodo”.
Particolare attenzione, più che altro per valutazioni di ordine romantico-religioso, è stata posta sulla figura di Amenhotep IV, il faraone che cambiò il suo nome in Akhenaton, e che istaurò il culto enoteistico del dio Aton preminente su quello degli altri dei e per questo, erroneamente, indicato come monoteista.
Avevamo premesso, e manteniamo purtroppo fede alla promessa, che non avremmo scoperto l’“assassino” di quest’appassionante giallo storico-biblico. Speriamo tuttavia sia stato un buon trampolino per approfondire l’argomento così dimostrando che il “misterioso Egitto” é già affascinante di suo, e non c’è perciò bisogno di alcuna…
La maledizione del faraone bambino (parole 1.279)
“La morte verrà su agili ali per chi profanerà il sonno del faraone” …il giallo s’infittisce, ma per fortuna c’è Sherlock Holmes e vedrete che scoprirà chi ha scritto questa frase, sottolineando tutto con il suo… “Elementare Watson”.
Già! Due frasi ormai famose, la prima, vi diranno con certezza, era scritta su un muro della tomba del faraone fanciullo, Tutankhamon, mentre la seconda è forse la più famosa della giallistica mondiale. Eppure queste due frasi hanno decisamente una cosa in comune: NON sono mai esistite!
Se è vero, infatti, che in nessuno degli oltre cinquanta racconti di Sherlock Holmes questi pronunci la frase per cui è invece famoso, è altrettanto vero che la frase relativa alla maledizione di Tutankhamon non è mai stata scritta, né tantomeno letta. Come vedremo più avanti, anche un altro particolare legherà il “padre” dell’investigatore per eccellenza, alla tomba del bambino che, salito al trono all’età di forse nove anni con il nome di Tutankhaton, morirà a diciotto con quello di Tutankhamon.
Del resto, a costo di diventare antipatico a chi ama Sherlock Holmes, occorre sfatare anche un altro mito: non ha mai indossato un deerstalker, il famoso cappello a doppia falda tipico dei cacciatori di cervi inglesi. Può essere triste scoprire che, già allora, la pubblicità occulta era l’anima del commercio, ma fu una scelta del disegnatore che illustrava le storie del detective per lo “Strand Magazine” per… pubblicizzare il negozio di cappelli di un amico.
Ma torniamo a quel 4 novembre 1922 in cui l’archeologo Howard Carter, sovvenzionato dal Quinto Conte di Carnarvon, Lord George Edward Stanhope Molyneux Herbert, scopre quello che si rivelò essere il primo dei sedici gradini che lo avrebbero condotto alla più grande scoperta egittologica di sempre: la tomba KV62 del faraone Tutankhamon.
E anche in questo caso, siamo costretti a tornare sull’importanza della pubblicità come anima del commercio giacché, per quella scoperta eccezionale, il nobile sponsor britannico pensò bene di dare l’esclusiva di tutto quanto riguardava la scoperta stessa a un unico giornale “The Times” di Londra per la cifra, astronomica per l’epoca, di 5.000 sterline oltre il 75% di ogni introito derivante dalla vendita di notizie ad altri giornali.
E quando si dice “esclusiva”, visto peraltro il giro di danaro conseguente, s’intende proprio che nessuno, nemmeno il Governo egiziano, poteva avere notizia alcuna se non… comprando proprio quel giornale! Cosa che, come s’intuisce, in un’epoca in cui tutto dipendeva dalla carta stampata, creava da un lato suspense, ma dall’altro suscitò astio e gelosia nei confronti degli artefici della scoperta (si consideri che, per violenti dissapori con il Governo locale, Carter fu costretto a lasciare per un certo periodo – aprile 1924/gennaio 1925 – gli scavi) e dell’unico giornale in grado di aumentare le proprie tirature all’inverosimile. Si tenga presente, che i lavori di svuotamento della KV62, la tomba di Tutankhamon, durarono ben otto anni, fino al novembre 1930, e si avrà una buona idea di quale “guerra” si sviluppò attorno alla scoperta del secolo.
A farne le spese, più di tutti, erano proprio i cronisti che i giornali di tutto il mondo, sostenendo ingenti spese, avevano inviato sul posto per informare i propri lettori e che dovevano accontentarsi di poche briciole, assolutamente insufficienti a garantire loro non solo la permanenza sul posto, ma anche lo stesso posto di lavoro.
Fiorì così una congerie di false notizie tra cui, appunto, la frase con cui abbiamo iniziato questo articolo che, in qualche modo, vide coinvolto proprio Sir Arthur Conan Doyle, medico, scrittore, ma anche famoso e convinto spiritista e occultista che, nel 1892, aveva scritto un romanzo breve dal titolo “Lot 249”, poi ribattezzato, proprio in concomitanza della scoperta, con il più attraente titolo di “Mummy number 249” in cui una mummia egizia, risvegliata magicamente dal suo sonno presso l’Università di Oxford, semina il terrore nella cittadina.
Per avere idea di quanto Conan Doyle fosse permeato di occultismo e spiritismo, si consideri che, in principio grande amico del “mago” ed escapologo Harry Houdini, giunse poi ad accusarlo di voler nascondere al mondo i suoi veri poteri sovrannaturali, giacché le sue strabilianti performance artistiche non potevano in assoluto essere solo frutto di trucchi di scena.
Il “padre” di Sherlock Holmes, peraltro, non era nuovo alla creazione di fake-news egittologiche: nel 1907, ad esempio, alla morte –per peritonite- dell’amico giornalista, del “Daily Express”, Bertram Fletcher Robinson, che stava svolgendo un’inchiesta sul coperchio di un sarcofago egizio ospitato dal British Museum di Londra (noto come “Unlucky Man” e inventariato con il n.ro EA22542), ne attribuì la causa a uno spirito…intrappolato nel coperchio stesso.
Per comprendere quale presa ebbe questa notizia sul mondo di allora, si consideri che, nel 1912, dopo l’affondamento del Titanic, si sparse la voce che a bordo si trovasse proprio “Unlucky Man”. Il reperto si sarebbe salvato perché, caricato in una scialuppa di salvataggio la tragica notte dell’affondamento, sarebbe stato restituito alla Gran Bretagna non prima, s’intende, di aver contribuito all’affondamento di un’altra nave, la “Empress of Ireland” che lo stava riportando in patria.
Proprio rifacendosi alla morte di Robinson, e allo “spirito elementare” intrappolato nel coperchio di “Unlucky Man”, Conan Doyle nel corso in un’intervista, unendo la sua alla voce di molti esoteristi e spiritisti, parlò espressamente di una maledizione che di certo esisteva per chi avesse profanato la tomba del faraone Tutankhamon.
Fu così che, anche per le scarsissime notizie derivanti dalla scoperta, per i motivi sopra visti, proliferarono sulle prime pagine titoli cubitali sensazionalistici, su quattro colonne, sulla maledizione del faraone e nacque la frase con cui abbiamo iniziato questo articolo e che rimbalzò di colonna in colonna: “la morte verrà su agili ali per chi profanerà il sonno del faraone”.
Nacquero, di conseguenza, le notizie più tragiche sulla sorte stessa di coloro che avevano preso parte alla scoperta egittologica: morti misteriose, malattie incurabili, suicidi ed altre amenità simili che, per i corrispondenti “a secco” di notizie autentiche, facevano lievitare le vendite dei giornali per cui lavoravano e consentivano di salvare il proprio posto di lavoro.
Se si esclude Lord Carnarvon, il finanziatore della missione egittologica, morto (nel 1923) circa un anno dopo per un’infezione causata dall’aver infettato con il rasoio, radendosi, la puntura di un insetto (rammento che la penicillina sarà scoperta solo nel 1929), si può rapidamente escludere ogni magica maledizione millenaria considerando che delle ventisei persone presenti all’apertura della tomba KV62, solo sei morirono nei dieci anni successivi e che, mediamente, tutte vissero almeno 25 anni dopo la scoperta.
Carter, quello che sarebbe dovuto essere il principale “colpevole” di aver violato il sonno del faraone, morì nel 1939 (17 anni dopo la scoperta), all’età di 65 anni, e il Dr. Douglas Derry, colui che più di tutti “profanò” il corpo di Tutankhamon, avendone fatto l’autopsia nel 1925, morirà alla veneranda età di 87 anni, nel 1969. A settantanove anni, invece, nel 1980, morirà Lady Evelyn figlia del Conte di Carnarvon che non solo fu presente alle operazioni di apertura della tomba, ma fu forse, in assoluto, la prima persona a essere entrata nella tomba ancora chiusa.
Secondo alcune notizie diaristiche, infatti, pare che gli scopritori fossero così eccitati all’idea di entrare fisicamente prima dell’apertura ufficiale, da praticare un foro in basso su una parete attraverso cui poteva accedere solo un corpo molto minuto come, appunto, quello della giovanissima Lady Evelyn che, all’epoca, aveva solo 21 anni (il foro sarebbe poi stato mascherato con una larga cesta che si nota in tutte le foto d’epoca).
Avrò forse deluso qualcuno che sperava in una maledizione più “classica”? Con mummie sonnambolicamente aggirantesi per la città e fanciulle o, perché no, l’intero mondo in pericolo? Forse potrà allora alimentare la voglia di mistero legata all’Antico Egitto la storia del…
“Grigio” di Ptah-Hotep (parole 606)
«…Le immagini allegate dimostrano senza errore la presenza di “GRIGI” nell’antico Egitto…»
Cielo! penserete voi, ed è quello che pensai anch’io quando, anni addietro, scoprì nel web un articolo che, con grande enfasi, iniziava con queste inequivocabili parole e, più avanti: «…guardando attentamente l’immagine, abbiamo scorto un “alieno grigio”…».
“Vuoi vedere, pensai tra me e me, che abbiamo la prova provata della presenza di alieni che potrebbero aver costruito le piramidi”? L’articolo proseguiva precisando che l’immagine era stata ripresa all’interno della tomba del saggio Ptah-Hotep, che servì sotto il re Izevi, della V dinastia, ma che esistevano solo tre immagini del soggetto rappresentato, di cui nessuna in guide ufficiali e, concludeva l’articolista, chiedendosi “Chissà perché”.
L’immagine che corredava l’articolo, che vi riporto qui accanto, era alquanto sfocata e di scarsissima risoluzione perché dichiaratamente ricavata da una foto ben più grande, ed effettivamente mostrava un alieno grigio con grandi occhioni neri.
Si leggeva, ancora: «Il risvolto della scoperta di questa antica pittura sulla pietra, che include un alieno, è stata assolutamente grandiosa! E potrebbe essere uno dei più importanti indizi mai scoperti sull’intervento degli alieni nella nostra storia antica!»… ero perplesso, una “grandiosa scoperta” ed io, appassionato da sempre di egittologia non ne sapevo nulla? Mi dissi, presuntuosamente, che non era possibile e così, con la curiosità che mi è solita, eccomi a caccia del misterioso “grigio” della tomba di Ptah-Hotep.
Conoscevo Ptah-Hotep, poiché era esistito, effettivamente nel corso della V dinastia e sotto il re Djedkhara-Isesi (circa 2400 a.C.), un visir di tal nome. Era notoriamente l’autore forse di uno dei più antichi esempi di letteratura sapienziale nota come “Istruzioni di Ptah-Hotep”, una copia della quale è giunta sino a noi (in una trascrizione del Medio Regno 2000-1790 a.C. circa) ed è oggi conservata presso la Bibliothèque Nationale a Parigi, ma poteva essere la sua tomba (mastaba D62 di Saqqara) a conservare questo stravolgente mistero? Come sopra scritto mi accinsi, perciò, all’ardua caccia di notizie, che valessero a suffragare la “grandiosa scoperta” che avevo dinnanzi, preparandomi a passare notti insonni nell’affannosa ricerca.
Immaginate perciò il mio stupore quando, dopo soli pochi secondi di ricerca in Internet fui sommerso da ben più delle tre immagini citate dall’articolista e scoprì che il “grigio” alieno citato altro non era se non… un vaso di fiori offerto al defunto Ptah-Hotep unitamente a cacciagione e altri doni funebri, come possibile vedere nell’immagine, certamente meno sfocata che riporto qui accanto.
Vorreste sapere chi scrisse quell’articolo? Non credo corretto dirlo, ma vi dò la mia parola che non me lo sono inventato; aggiungerò solo che l’autore si presentava come «ipnologo, …certificato come ipnoterapista, …oratore internazionale» e, dulcis in fundo «…ricercatore di incontri con alieni/umanoidi…».
Non è certo questo l’unico esempio di mistificazione e fake-news egittologiche, ma credo importante, almeno ogni tanto, mettere in guardia i lettori, in generale, sulla costante necessità di una lettura critica di tutto ciò che il web, e oggi non solo quello, ci propone per salvarci dai venditori di fumo e, ancor più, da chi cerca di prenderci bellamente in giro contando sulla nostra scarsa conoscenza di un argomento o sulla voglia che abbiamo di credere anche quando le evidenze, e la logica, sono palesemente opposte.
Presso gli antichi greci esisteva una strana tassa, il blakennomion telos, che doveva essere versata da maghi, indovini e astrologi e che, in sostanza, era una “tassa sulla stupidità”, o “sugli stupidi”, ovvero coloro che si rivolgevano proprio a maghi, indovini e imbonitori.
Una delle tante “leggende” sorte attorno alle piramidi più famose è legata alla…
Numerologia piramidale
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, tuttavia, credo interessante leggere questo brano tratto dal romanzo di un grande scrittore italiano, Umberto Eco:
«…l’altezza della piramide di Cheope è uguale alla radice quadrata del numero dato dalla superficie di ciascuno dei lati. Naturalmente le misure vanno prese in piedi, più vicini al cubito egiziano ed ebraico, e non in metri, perché il metro è una misura astratta inventata nei tempi moderni. II cubito egiziano in piedi fa 1,728. Se poi non abbiamo le altezze precise possiamo rifarci al pyramidion, che era la piccola piramide posta sull’apice della grande piramide per costituirne la punta. Era d’oro o di altro metallo che lucesse nel sole. Ora prenda l’altezza del pyramidion, la moltiplichi per l’altezza della piramide intera, moltiplichi il tutto per dieci alla quinta e abbiamo la lunghezza della circonferenza equatoriale. Non solo, se prende il perimetro della base e lo moltiplica per ventiquattro alla terza diviso due, ha il raggio medio della terra. In più l’area coperta dalla base della piramide moltiplicata per 96 per dieci all’ottava da centonovantasei milioni ottocentodiecimila miglia quadrate che corrispondono alla superficie terrestre. …»
Direi impressionante, non è vero? Ma il personaggio creato da Eco, nel suo “Pendolo di Focault”, non si limita certo a questo, infatti:
«…ci invitò ad affacciarci, e ci mostrò lontano, all’angolo fra la stradetta e i viali, un chioschetto di legno, dove si vendevano presumibilmente i biglietti della lotteria di Merano.
“…invito loro ad andare a misurare quel chiosco. Vedranno che la lunghezza del ripiano è di 149 centimetri, vale a dire un centomiliardesimo della distanza Terra-Sole.
L’altezza posteriore divisa per la larghezza della finestra fa 176/56 = 3,14.
L’altezza anteriore è di 19 decimetri e cioè pari al numero di anni del ciclo lunare greco.
La somma delle altezze dei due spigoli anteriori e dei due spigoli posteriori fa 190×2 + 176×2 = 732, che è la data della vittoria di Poitiers.
Lo spessore del ripiano è di 3,10 centimetri e la larghezza della cornice della finestra di 8,8 centimetri. Sostituendo ai numeri interi la corrispondente lettera alfabetica avremo C10H8, che è la formula della naftalina.”
“Fantastico,” dissi, “ha provato?”
“… Con i numeri si può fare quello che si vuole. Se ho il numero sacro 9 e voglio ottenere 1314, data del rogo di Jacques de Molay – data cara a chi come me si professa devoto alla tradizione cavalleresca templare – come faccio?
Lo moltiplico per 146, data fatidica della distruzione di Cartagine.
Come sono arrivato al risultato?
Ho diviso 1314 per due, per tre, eccetera, sino a che non ho trovato una data soddisfacente.
Avrei anche potuto dividere 1314 per 6,28, il doppio di 3,14, e avrei avuto 209.
Ebbene, è l’anno dell’ascesa al trono di Attalo I re di Pergamo…”»
Direi che il focus di questa disquisizione è in una frase: “con i numeri si può fare quel che si vuole!” ed è proprio quello che, proseguendo, vedremo è successo con l’unica tra le sette meraviglie del mondo antico ancora esistente: la piramide e, segnatamente, la piramide del re Keope (IV dinastia ~2620-2500 a.C.).
John Taylor e Charles Piazzi Smyth
“Qui giace colui il cui nome fu scritto sull’acqua”, ricordate? È lo splendido epitaffio che campeggia, nel Cimitero Acattolico di Roma, all’ombra di un’altra piramide, quella di Caio Cestio, sulla tomba di un grande poeta: non un nome, non un rimando… eppure quella tomba ospita le spoglie mortali di uno dei più grandi rappresentanti del romanticismo inglese: John Keats.
Suo editore era, in Inghilterra, John Taylor (1781-1864) che, dilettandosi anche di scrittura, pubblicò, nel 1859 un libercolo dal titolo “The Great Pyramid: Why Was It Built, & Who Built It?”, ovvero “La Grande Piramide: perché è stata costruita e da chi?”, in cui, riferendosi a Noè, scriveva: «Fra tutti gli uomini, il costruttore dell’Arca era il più competente per dirigere la costruzione della Grande Piramide».
Per sua stessa ammissione, tuttavia, Taylor non aveva mai visitato l’Egitto, né tantomeno visto la Piramide di Keope, ma si basò sulle misure prese da altri, con quale meticolosità o precisione è tutto da dimostrare. Eppure, dai numeri “di altri” e dai suoi calcoli, sostenne che nella piramide era ricorrente la costante matematica Pi (3,14…) e si riscontrava il rapporto aureo (1,61803…).
Fu l’inizio della fine, in senso numerologico, s’intende; sugli studi di Taylor, infatti, si basò un altro studioso scozzese che, in un suo lavoro, scrisse: «…le misure (n.d.r.: interne della Piramide) racchiudono in sé alcune profezie in forma cifrata, stabilendo un rapporto con gli avvenimenti che costituirono più tardi l’essenziale dell’Antico Testamento, di tutta la cristianità, fino a includere la seconda venuta di Cristo…».
E non si trattava di uno studioso qualunque giacché il suo incarico, alla Corte del Re d’Inghilterra, era quello di Astronomo Reale (titolo che conservò dal 1846 al 1888), il suo nome? Charles Piazzi Smyth (Napoli 1819-Sharow 1900). Per inciso, suo padrino, da cui il nome, fu l’astronomo italiano Giuseppe Piazzi (1746-1826), e il suo cognome, SmYth non è un errore, si chiamava proprio così e non Smith, tanto che la pronuncia inglese viene specificata come /ˈsmaɪθ/.
Pur se indicato, in alcuni lavori con “Smith”, il nome riportato sulla sua tomba conferma proprio “Smyth”.
Ma torniamo all’opera di Piazzi Smyth che, avendo sposato la geologa Jessica Duncan, nel 1864 decise di intraprendere una missione di quattro mesi accampandosi nei pressi della grande Piramide di Giza. Per la prima volta, furono scattate fotografie della piramide di Keope e, per la prima volta in assoluto, fu usato il “flash” al magnesio per fotografarne l’interno. Dall’ampia corrispondenza con Taylor e dalle misurazioni e calcoli eseguiti sul luogo, Piazzi Smyth ricavò “The Great Pyramid: Its Secrets and Mysteries Revealed”, in cui giunse alla conclusione che la Piramide nascondesse segreti connessi alla interpretazione della Bibbia scrivendo, tra l’altro, la frase che abbiamo sopra riportato relativa a «profezie in forma cifrata… fino ad includere la seconda venuta di Cristo».
L’elemento essenziale “scoperto” da Piazzi Smyth fu il “pollice piramidale”, equivalente a 1,001 pollici inglesi (non dimenticate questa coincidenza), con cui era possibile individuare tutte le date riportate nella Bibbia; bastava, infatti, misurare la distanza tra un punto A e un punto B, in pollici piramidali s’intende, e ottenere proprio la data voluta, assegnando ad ogni pollice il valore di un anno. Nei suoi studi ricavò, inoltre, altre misure come la “pinta piramidale”, il “cubito reale” e la “scala delle temperature piramidali”.
Quanto al “pollice piramidale” era di certo la misura divina assegnata da Dio a Sem, figlio di Noè che venne guidato, nella costruzione dell’arca, dalla mano di Dio. A conferma di tale asserto, Smyth portò il fatto che il perimetro di base della piramide (ovviamente in pollici piramidali) era pari a 100 volte il numero dei giorni di un anno, ed esisteva un rapporto tra l’altezza della piramide in pollici e la distanza tra la terra e il sole… ma questa volta in miglia.
Lavorando sulle congetture di Taylor, inoltre, giunse a individuare il popolo ebraico negli Hyksos, che avevano regnato in Egitto per circa 250 anni, e i costruttori della piramide, perciò, proprio nel popolo ebraico.
Ma, e qui si potrebbe svelare l’intento politico sotteso alle dichiarazioni di Piazzi Smyth, è bene precisare che questi fu sempre un convinto oppositore dell’introduzione del sistema metrico decimale in Gran Bretagna.
Una teoria pseudo-antropo-archeologica, detta dell’“anglo-ebraismo”, risalente al XVI secolo e ancora in auge all’epoca, infatti, voleva che gli inglesi fossero i diretti discendenti delle dieci tribù perdute di Israele. In tal senso, l’adozione del pollice piramidale, data anche la quasi uguaglianza con quello inglese (ricordate? 1 pollice piramidale = 1,001 pollici inglesi), era la dimostrazione di tale discendenza e la prova che il sistema di misurazione inglese, derivante direttamente da Dio attraverso le tribù d’Israele, era perfetto, a fronte di quello metrico decimale derivante dall’ateistica terra di Francia; un’idea, peraltro, cara a Piazzi Smyth e più volte rimarcata anche in molte delle sue opere scientifiche.
Dalle sue attività sul campo, Piazzi Smyth ricavò “Our Inheritance in the Great Pyramid” (“La nostra eredità nella Grande Piramide”), “Life and Work at the Great Pyramid” (“Vita e lavoro nella Grande Piramide”) in tre volumi, nel 1867, e “On the Antiquity of Intellectual Man” del 1868.
Inutile dire che «… la seconda venuta di Cristo…» profetizzata da Piazzi Smyth, secondo i suoi calcoli piramidali, per il 1882, non si verificò, così come a nulla valse lo spostamento che operò della data ad un imprecisato anno tra il 1892 e il 1911. Nonostante tutto, per la completezza delle misurazioni della Grande Piramide (le più complete all’epoca), e per le numerose fotografie scattate, anche in interno, Piazzi Smyth fu premiato con la “Keith Gold Medal 1865-1867” dalla “Royal Society of Edinburgh”.
Nel 1874, però, aldilà della motivazione di ordine pratico, le sue teorie numerologiche furono rigettate dal mondo scientifico, così come quelle di Taylor, cosa che contribuì, nel 1888 e unitamente al titolo sarcastico di “piramidiota” con cui venne etichettato, alle sue dimissioni da “astronomo reale”.
Flinders Petrie
Fu così che, alla fine del XIX secolo, le teorie di Taylor e Smyth caddero nel dimenticatoio, anche perché lo stesso Taylor, nel frattempo, qualche anno dopo la pubblicazione del suo saggio “piramidologico” aveva dichiarato che il suo era stato semplicemente uno scherzo e che tutti i “numeri” che aveva dato corrispondevano “a posteriori”, un po’ come le misurazioni del personaggio di Umberto Eco con cui abbiamo iniziato questo articolo.
Come succede spesso in questi casi, pensando a un ripensamento strumentale per non perdere “clienti” (oggi parleremmo anche di teoria del “complotto”, che va tanto di moda), nessuno gli credette e le legioni di “piramidologi” si ingrossò sempre di più arricchendo, ovviamente, in primis le tasche degli “esperti” a discapito di coloro che, in perfetta buona fede, credevano e credono, a queste cose!
Un improvviso ritorno di fiamma si ebbe con Sir William Matthew Flinders Petrie (1853 –1942), illustre egittologo inglese, iniziatore del metodo scientifico nella ricerca archeologica e nella salvaguardia dei manufatti, e primo titolare della cattedra di egittologia del Regno Unito. Grande estimatore, sulle prime, del lavoro di Smyth, ne restò poi fortemente deluso quando, nel 1880, eseguì, sul campo, nuove e più esatte misurazioni della Piramide di Keope scoprendo che la stessa era parecchi “piedi” più bassa delle misurazioni di Smyth, il che, ovviamente, inficiava tutte le misurazioni e le valutazioni precedenti, ivi compreso, e prima di tutto, il “pollice piramidale”.
Aldilà dei convincimenti personali, che ovviamente, come tali, possono essere differenti anche solo per partito preso, resta il fatto che, alla base dello scetticismo per la numerologia piramidale, c’è la mancanza di scientificità, ovvero di numeri fissi, o di riferimenti univoci, che proprio perché tali siano accettati, o accettabili, da chiunque voglia cimentarsi con i “numeri della piramide”.
Come sopra visto, Taylor non visitò mai l’Egitto, né mai vide la piramide basandosi, per le sue elucubrazioni, su numeri dati da altri; lo stesso Smyth, che pure, invece, eseguì personali misurazioni, tanto da essere per questo premiato (da chi, tuttavia quelle misurazioni non aveva fatto, né potuto controllare), basò tutti i suoi calcoli su un numero, il “pollice piramidale”, che non molto tempo dopo, si sarebbe dimostrato inesatto.
La numerologia piramidale, visti i presupposti, consente di “scoprire” tutto e il contrario di tutto, un po’ come visto nell’iniziale brano di Umberto Eco.
Inutile dire che, come fatto del resto dallo stesso Piazzi Smyth a proposito del sistema metrico decimale, la numerologia ha avuto anche il suo sfruttamento politico diventando, ad esempio, un “cavallo di battaglia” di sètte identitarie che tendono, ancor oggi, partendo dal presupposto di una preferenza diretta assegnata da Dio, da un lato a voler dimostrare una preminenza del presunto ramo anglo-ebraico (movimento “British-Israel”) su altre culture, dall’altro, grazie alla presunta discendenza dalle tribù di Israele, a indicare i popoli celtici e anglosassoni come eletti, superiori e destinatari delle promesse di Dio.
Edgar Cayce, “il profeta dormiente”
Già in altra occasione ho rammentato che, presso i Greci, esisteva una “tassa sulla stupidità”, può sembrare strano, ma è vero. Il blachennomio (da βλακεννόμιον = sugli stupidi e τέλος = tassa), infatti, era la tassa che indovini, auguri e astrologi dovevano pagare sulle somme percepite da chi, magari in buona fede, a loro si rivolgeva credendo nelle loro potenzialità divinatorie. Appare chiaro che, ovviamente, anche nella storia della numerologia sono emersi tanti che meriterebbero di pagarla… e profumatamente.
Tra questi, forse il più “temerario” fu il “profeta dormiente”, come si faceva chiamare poiché cadeva in lunghe trance narcolettiche, Edgar Cayce (1877-1945) che, analizzando la numerologia piramidale scoprì che, in una delle sue tante vite precedenti, si chiamava Ra-Ta, era un gran sacerdote ed era stato il responsabile, con il suo aiutante Isis e con il capo dei costruttori Ermes, della costruzione proprio della Grande Piramide a cui avevano lavorato, in una sorta di consorzio internazionale, egizi, atlantidei e nomadi provenienti dall’area russa.
Nella montagna di pietra costituita dalla piramide di Keope, sempre secondo Cayce, si doveva inoltre individuare il tempio presso cui Gesù era stato istruito durante i cosiddetti “anni mancanti” (ovvero quelli intercorrenti tra l’infanzia e l’inizio del suo ministero). In base alla numerologia piramidale, e alle profezie nascoste e riservate ai soli adepti, la piramide aveva inoltre lo scopo di fungere da archivio della storia umana fino al 1998, anno in cui, secondo i suoi calcoli (come si vede ben diversi da quelli di Smyth), si sarebbe verificato il secondo avvento di Cristo …
Per ulteriore curiosità, può essere utile aggiungere che, nelle sue vite precedenti, Cayce era stato (tra l’altro) un re persiano, un guerriero troiano, un discepolo di Cristo e, addirittura, un angelo che aveva preceduto Adamo ed Eva. Altre sue premonizioni furono la scomparsa improvvisa del Giappone e del Nord Europa, l’esondazione dei Grandi Laghi del nord America con allagamento di gran parte del Midwest (che, ricordo, è costituito da almeno otto Stati, se non dodici), l’improvviso sprofondamento di California e Georgia, la deriva cristiana e democratica della Cina entro il 1968 e, nello stesso anno o al massimo nel 1969, il riemergere di Atlantide e lo spostamento dell’asse terrestre, evento che avrebbe causato la fine del mondo… nel 1998.
I libri consigliati da Fatti per la Storia
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- La Bibbia, Libro dell’Esodo;
- Erodoto, le Storie, libri II “Euterpe” (costruzione delle piramidi, usi e costumi, religione, fauna, geografia, storia, importanza del Nilo) – III “Talia” (conquista dell’Egitto da parte di Cambise);
- Alan Gardiner, La civiltà egizia, traduzione di Ginetta Pignolo, Milano, Einaudi, 1997;
- Cyril Aldred, Gli egiziani, tre millenni di civiltà, traduzione di Sergio Bosticco, Roma, Newton & Compton, 1985;
- Franco Cimmino, Storia delle piramidi, III, Santarcangelo di Romagna(RN), Rusconi, 1998;
- Franco Cimmino, Vita quotidiana degli egizi, Rusconi;
- Nicolas Grimal, Storia dell’Antico Egitto, traduzione di G. Scandone Matthiae, Bari, Laterza, 2002;
- (in inglese) Mark Lehner, The complete Pyramids, Iª edizione: 1975, Londra, Thames & Hudson Ltd., 2003;
- Alberto Siliotti e Zahi Hawass, Guida alle piramidi d’Egitto, White Star, 2001;
- Christine El Mahdy, Il costruttore della Grande Piramide, Corbaccio;
- Kurt Mendelsshon, L’enigma delle piramidi, Milano, Mondadori.
- Gina Cerminara, Edgar Cayce uomo e medium, 1975, Mediterranee
- Jess Stearn, Edgar Cayce, 1978, De Vecchi
- Fliders Petrie, “The Pyramids and Temples of Gizeh”, ed. Histories & Mysteries of Man, 1990, Londra
- (in inglese) Dale Beyerstein, Edgar Cayce. In Encyclopedia of the Paranormal. Prometheus Books 1996. pp. 146–153.
- (in inglese) Edgar Evans Cayce, On Atlantis, New York: Hawthorn, 1968
- (in inglese) Jess Stearn, The Sleeping Prophet, Bantam Books, 1967
- (in inglese) Piazzi Smyth, Life and Work at the great Pyramid during the months of January, February, March, and April, A.D. 1865
- (in francese) Piazzi Smyth, La grande pyramide, pharaonique de nom, humanitaire de fait, ses merveilles : ses mystères et ses enseignements, 1875