CONTENUTO
L’esodo è un particolare tipo di spostamento forzato di popolazione, diverso nelle modalità di attuazione rispetto alla deportazione o all’espulsione, ma che giunge al medesimo risultato. Per esodi nella letteratura scientifica (“L’età delle migrazioni forzate” Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola) si intendono
“quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati). In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo iniziale del governo in questione, né tantomeno quest’ultimo la organizzò; il risultato finale fu comunque l’emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi vanno senza dubbio compresi nel novero delle migrazioni forzate, anche se furono gli unici in cui la scelta di migrare fatta dai singoli o dalle singole famiglie ma estesasi fino ad acquisire una dimensione di massa, ebbe un ruolo attivo nello spostamento. Essi furono inoltre gli unici in cui le condizioni di arrivo (per esempio la concessione della cittadinanza nel paese di accoglienza) furono un fattore importante”.
La scelta degli italiani di Fiume e dell’Istria di optare per la cittadinanza italiana (come previsto dal Trattato di pace) trasferendosi nella Penisola, non può dunque essere considerata una decisione libera da costrizioni.
Le ondate dell’esodo
L’esodo dei giuliano-dalmati non è un evento unico ma un processo di abbandono lungo l’arco cronologico 1943-1956. I distacchi sono diversificati per motivazioni e tempistiche, ma accomunati dall’esito: il crollo della popolazione italiana nei suoi insediamenti storici.
L’esodo da Zara è il primo in ordine cronologico: iniziato già nel 1941 con una prima ondata di 10.000 partenze, prosegue nel 1942, al ritmo delle devastanti incursioni aeree alleate, si intensifica con l’ingresso delle truppe jugoslave nell’ottobre 1944, per concludersi nei primi anni ’50. Nell’intero periodo la città perde il 70% della popolazione residente nel 1942, circa 43.670 persone (vittime incluse).
Il 1° maggio 1945, le truppe vittoriose dell’esercito jugoslavo entrano a Trieste e Pola, il 3 Fiume. All’occupazione fa seguito l’insediamento dei Comitati popolari di liberazione e dei Tribunali del popolo, incaricati di sommarie epurazioni. A Fiume inizia l’esodo per più di 20.000 italiani, entro il gennaio 1946, parte di un totale di circa 36.000 abbandoni.
A Pola, nel luglio 1946, su 31.700 residenti, 28.058 dichiarano di voler lasciare la città in caso di definitiva cessione alla Jugoslavia. La strage di Vergarolla del 18 agosto (l’esplosione dolosa di una ventina di bombe posizionate sulla spiaggia fa 65 vittime e una quarantina di feriti) è vissuta dalla popolazione come strategia terroristica jugoslava per mettere in fuga gli italiani. A dicembre si apre un movimento di massa che coinvolge circa 30.000 persone. Ai residenti nella città si aggiungono infatti migliaia di istriani lì confluiti per prender posto sui piroscafi messi a disposizione dal Comitato esodo dal Governo italiano. Le immagini dell’imbarco sul piroscafo Toscana in quel gelido inverno diventeranno icona di tutto il movimento dell’esodo. Una città desertificata passa formalmente alla sovranità jugoslava il 15 settembre 1947.
Con il Trattato di pace e la conseguente apertura del diritto di opzione, gli esodi legali costituiscono la maggior parte del flusso migratorio. Dal 1943 se ne sono andate circa 80.000 persone, in prevalenza dalla Dalmazia e da Fiume. A seguito del Trattato di pace, nel 1947 abbandonano l’Istria e il goriziano circa 50.000 persone. Nell’anno successivo gli optanti giuliano-dalmati sono circa 80.000. Mentre i maggiori centri urbani dei territori ceduti – Zara, Fiume, Pola – sono abbandonati dalla popolazione in modo concitato e plebiscitario, le partenze dalle campagne procedono in tempi più lunghi.
Tra gennaio e aprile 1951, la riapertura dei termini per opzioni consente l’espatrio a 6.580 persone. Dopo, chi vuole abbandonare la Jugoslavia può farlo solo attraverso l’onerosa procedura dello “svincolo”, che interessa 5.238 soggetti.
Nei distretti di Capodistria e Buie, parte della zona B del Territorio Libero di Trieste, provvisoriamente amministrati dall’autorità militare jugoslava (VUJA), le partenze hanno una prima impennata nel 1950 (un migliaio) in relazione con le violenze che si verificano in occasione delle elezioni amministrative del 16 aprile. Prima della nota bipartita di Stati Uniti e Gran Bretagna – con la quale si annuncia la volontà di ritiro dalla zona A per affidarne l’amministrazione al Governo italiano (8-10-1953) – risulta abbiano lasciato la zona B già 17.000 persone.
Con il Memorandum d’intesa finisce l’amministrazione militare delle due zone del Territorio Libero di Trieste e la linea di demarcazione viene di poco modificata a favore della Jugoslavia, concedendole parte del territorio del comune di Muggia, dal quale 2.748 abitanti su 3.492 decidono di trasferirsi in Italia. Inizia il “grande esodo dalla zona B» che si conclude ufficialmente nella primavera 1956, con circa 40.000 partenze, pari ai 2\3 della popolazione.
Le stime più attuali indicano un flusso complessivo di 280.000 – 300.000 anime, di cui 201.440 i nominativi censiti all’epoca dall’Opera di Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati.
Cifre piuttosto attendibili propongono 243 mila persone escludendo i non nativi, 279 mila escludendo solo le persone dell’entroterra del goriziano, triestino e fiumano, 301 mila comprendendo tutti, di cui è ipotizzabile un 15% di croati e sloveni. Secondo il censimento jugoslavo del 1961, comprendente anche la Zona B, nei territori annessi permane solo un 44% della popolazione residente nell’anteguerra (186.450), se n’era andato più del 55% (232.994), erano giunte 144.505 nuove presenze a seguito delle politiche migratorie avviate dal governo jugoslavo dopo le partenze degli italiani.
Le motivazioni
Nonostante il binomio foibe-esodo si sia saldato nel senso storico comune, diventando la più popolare chiave interpretativa del fenomeno, l’indagine storico sociale ha da tempo evidenziato un’ampia gamma di accadimenti e motivazioni.
Certamente le foibe istriane nell’autunno del 1943 gettano il seme della paura e continuano a rappresentare la mancanza di tutela cui la popolazione italiana si sente esposta. La foiba esprime l’angoscia per il ribaltamento delle gerarchie, la paura dell’annullamento individuale, comunitario, nazionale.
A partire dal 1945 una persistente conflittualità con il potere popolare jugoslavo viene vissuta in ogni ambito dell’agire quotidiano, a causa delle confische (abitazioni, botteghe, officine, proprietà agricole, strumenti di produzione, tecnologie anche minime), delle collettivizzazioni, dei rifornimenti di beni di prima necessità, delle politiche culturali, scolastiche e religiose, della formazione dei giovani, del lavoro volontario e coatto.
I maggiori picchi di violenza si hanno con la visita in Istria di una commissione interalleata, incaricata di studiare la futura linea di confine (1946), con l’apertura delle prime e delle seconde opzioni (1948-1951), la repressione anticominformista (dal 1948), le elezioni del 1950, le manifestazioni contro l’Italia del 1953-1954. Le “pressioni ambientali” sono però costanti e comportano una percezione del pericolo anche per coloro che non sono vittime di maltrattamenti, ma consapevoli di vivere entro una società militarizzata e governata da polizie segrete.
Diversi possono essere i livelli di intimidazione, violazione dei diritti e repressione vera e propria: dai licenziamenti, sfratti, reclutamenti forzosi, alle bastonature, carcerazioni, torture, sparizioni. Controllo e vigilanza si insinuano in tutti i segmenti della società attraverso una rete di delatori capace di minare consolidati vincoli di amicizia e parentela. I più esposti a tale condizione sembrano essere i ceti urbani, borghesi e operai, impegnati in un’insistente mobilitazione, più controllati sotto il profilo dell’opzione filojugoslava, più ricattabili in riferimento alla qualità e alla stabilità dell’occupazione.
Buona parte di un mondo contadino fatto di piccoli proprietari, oppone resistenza ad una politica agraria che sembra ignorare le precedenti culture materiali e voler estendere il sistema di fabbrica all’agricoltura. Le nuove condizioni di lavoro nelle campagne risultano semplicemente incomprensibili per gli anziani, ma poco attraenti anche per i giovani, esposti alle continue chiamate al lavoro volontario o all’arruolamento. La loro partenza destabilizza le organizzazioni produttive tradizionali e in linea generale non è sostenibile per delle economie familiari di sussistenza.
Nella desolata miseria del dopoguerra istriano, a fronte di una pianificazione economica che evidenzia forti incongruenze, progressivamente vengono cancellati i tradizionali punti di riferimento – possidenti, funzionari dello stato, insegnanti, sacerdoti – accelerando la disgregazione comunitaria. Le prassi di snazionalizzazione introdotte con la slavizzazione del cognome, la chiusura di scuole e circoli, impongono di apprendere una nuova lingua e di inserirsi in un universo culturale sconosciuto.
La ruralizzazione dei centri storici pare indicare una rivincita della campagna slava sull’urbanesimo italiano, mentre anche il proletariato avverte il tramonto di una particolare civiltà che ha saputo abbinare le culture contadine con le identità cittadine, parlare le lingue dell’industria, della marineria e del commercio. L’intolleranza religiosa, già prima dell’annessione, si manifesta con varie forme di ostilità verso le consuetudini religiose popolari: il clero italiano e croato è bersaglio di intimidazioni, aggressioni, arresti e uccisioni. Nella zona B a ciò si aggiunge lo smantellamento delle attrezzature industriali, la riduzione dell’estrazione del sale, la fine della libertà degli scambi con Trieste.
In tali condizioni, l’opera di sostegno agli istro-italiani esercitata dal CLN dell’Istria su delega del governo italiano, fallisce nel suo intento di trattenimento delle comunità. Cadono nel vuoto gli appelli dell’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume diretti a mantenere in loco i connazionali. Fallisce anche la propaganda del potere popolare jugoslavo tesa a stigmatizzare chi se ne va. Le stesse restrizioni nel vaglio delle domande di opzione, lungi dal sanare il crollo di consenso, alimentano l’esasperazione e la pulsione all’abbandono divenuta ormai di massa.
La strategia delle autorità
La politica ufficiale del regime comunista jugoslavo nei confronti degli italiani è quella della “fratellanza italo-slava”: si tratta di una politica di integrazione selettiva. In primo luogo, non si rivolge a tutti quelli che si considerano italiani, ma solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima. Gli italiani di origine slava (anche remota) devono venir ricondotti alla loro nazionalità originaria. In secondo luogo, si rivolge solo agli italiani “onesti e buoni”, cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo.
Gli altri sono considerati “residui del fascismo”, “imperialisti”, “sciovinisti” e “nemici del popolo”, ai quali è riservata la repressione. In terzo luogo, ha per interlocutore le “masse popolari”, proletarie e contadine e non i “borghesi” per i quali non vi è posto in uno stato socialista.
La politica della “fratellanza” quindi è limitata ad una minoranza della componente italiana, mentre la maggioranza non rientra nei suoi parametri di accettabilità. Per di più, tale politica, elaborata dai vertici del partito, viene gestita sul campo dalla classe dirigente locale, formatasi durante la guerra di liberazione contro tedeschi ed italiani, considerati questi ultimi un tutt’uno con i fascisti. Si tratta quindi di una classe dirigente politicamente e nazionalmente estremista, propensa all’autoritarismo ed alla repressione, diffidente per principio nei confronti degli italiani e quindi del tutto inadatta a gestire una politica di mediazione.
Ne segue una serie infinita di abusi, prevaricazioni e violenze, che colpiscono duramente quanti dalla “fratellanza” sono esclusi (per le ragioni più sopra indicate), ma anche individui e gruppi che possono rientrarvi, come i ceti popolari urbani non proletari ed i piccoli coltivatori. Tutti questi soggetti, chi prima chi dopo, finiscono con il ritenere il regime di Tito come un nemico da cui difendersi, perché intento a distruggere la loro identità e compromettere le loro condizioni di vita.
I limiti intrinseci alla politica della “fratellanza”, sommandosi alle sue modalità di applicazione, provocano una situazione di invivibilità, che colpisce in primo luogo le comunità italiane, ma suscita disaffezione verso il regime anche in alcuni ambienti slavi, soprattutto croati, che durante la guerra hanno attivamente sostenuto il movimento di liberazione e la lotta per l’annessione alla Jugoslavia.
Il diritto di opzione
Gli esodi legali costituiscono la maggior parte del flusso migratorio e sono legati all’esercizio del diritto di opzione per la cittadinanza italiana, con il conseguente obbligo di trasferirsi in Italia: sono previsti dal Trattato di pace del 1947, dagli accordi per la riapertura nel 1951, dal Memorandum di Londra del 1954. L’accertamento del requisito fondamentale della lingua d’uso italiana è di competenza delle autorità jugoslave che inizialmente accolgono le domande di un numero limitato di persone d’indubbia origine italiana.
Già nei primi mesi del 1948 viene trasformata in senso restrittivo la procedura relativa alla verifica della lingua d’uso, affidata esclusivamente agli Affari interni, quindi agli organi di polizia. Prescindendo da una libera identificazione del soggetto, si parte dal presupposto che in epoca fascista i cognomi slavi sono stati italianizzati, quindi si diffonde la pratica di restituirli all’originaria grafia slava, ritenendo che la gran parte delle identità percepite avesse seguito un analogo processo di ridefinizione e riscoperta di radici più lontane e autentiche.
Di fatto per alcuni così avviene, certo non per coloro che si vedono negato il diritto di opzione in quanto considerati slavi, a seguito della riscrittura del cognome. In particolare nei territori ceduti già nel 1947, i richiedenti sono esposti a ritorsioni e persecuzioni, a prolungate incertezze, alla segmentazione delle parentele, indotta dall’accoglienza selettiva delle domande e dal protrarsi degli impedimenti.
Le autorità jugoslave tentano a loro modo di frenare l’esodo, in base a diversi presupposti: il timore di uno svuotamento dell’Istria e il conseguente smacco politico che ne deriverebbe; la convinzione che la maggior parte dell’italianità istriana sia fittizia, frutto di processi di snazionalizzazione che vanno corretti; la necessità di mantenere le piccole e grandi professionalità possedute dagli italiani; l’utilità di trattenere “italiani onesti”, che sostanziano le parole d’ordine della fratellanza italo-slava.
La crisi del Cominform
Nel giugno 1948 scoppia la crisi che vede la rottura dei rapporti politici fra la Jugoslavia guidata da Tito e l’Unione Sovietica guidata da Stalin. La politica jugoslava è ufficialmente condannata dal Cominform. Stalin si aspetta che gli elementi a lui favorevoli all’interno del partito comunista jugoslavo prendano il sopravvento, ma avviene il contrario. In tutta la Jugoslavia una feroce repressione si abbatte sui sospettati di cominformismo.
I comunisti italiani in Istria hanno inizialmente aderito al regime jugoslavo per ragioni ideologiche e non nazionali. Molti però sono rimasti delusi da quello che considerano il “nazionalismo” dei comunisti croati ed alcuni hanno iniziato ad esodare, specie da Fiume. Fra Stalin e Tito gli italiani non hanno dubbi a scegliere Stalin, ma così di colpo divengono anch’essi “nemici del popolo”, oggetto di ogni sorta di angherie. Di conseguenza, chi non è ancora partito si unisce al Grande esodo. Quando ci riesce.
La sventurata sovrapposizione tra la questione delle opzioni e la crisi del Cominform, inasprisce le prassi di controllo e repressione. L’esasperata ricerca del nemico interno comporta che, nella dilatata definizione di reakcija, entra una pletora di presunti traditori, spioni, provocatori, sciovinisti, profittatori, opportunisti, “tentennanti”, “decadenti”, in definitiva tutti nemici del popolo. Il sospetto che lo strumento delle opzioni venga usato per eludere la caccia ai cominformisti, induce a ulteriori restrizioni, dal momento che è nota la decisa tendenza filosovietica dei comunisti italiani.
Il corto-circuito che si crea tra optanti dichiarati e cominformisti sospetti induce a un’estensione dei provvedimenti persecutori: licenziamenti, sfratti, pestaggi, lavoro coatto, colpiscono prima delle retate della primavera 1949 e della messa a punto dell’arcipelago carcerario che ha il suo centro più noto in Goli Otok. Le prassi staliniste di “conversione e rieducazione” avvengono all’interno di veri e propri gulag, come quello sulla ferrovia istriana Lupogliano-Stallie, o nelle cave di bauxite, nelle miniere carbonifere di Arsia, nella costruzione della Fužine e Skrad nel Gorski kotar.
Il gruppo nazionale italiano è colpito da più di 2.000 arresti tra il 1949 e il 1952. L’evidenza che il meccanismo delle opzioni può coinvolgere anche sostanziosi gruppi di croati bilingui, induce a intervenire con “ogni sorta di misure repressive aggiuntive”. Le proteste del governo italiano fanno sì che i termini delle opzioni vengano riaperti nel gennaio-aprile 1951. Nonostante nuove illegalità e violenze, attraverso tale varco riescono a transitare 6.580 persone, tra le quali un forte contingente di comunisti italiani.
Il controesodo
Alcune migliaia di lavoratori italiani, soprattutto operai dei cantieri di Monfalcone, abbandonano la provincia di Gorizia restituita all’Italia dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace, e scelgono di trasferirsi in Jugoslavia al fine di concorrere all’edificazione del comunismo. La maggior parte di tali lavoratori, spesso chiamati in via breve “i monfalconesi”, si insedia in prevalenza a Fiume, dalla quale gli italiani autoctoni stanno esodando.
Dopo essere stati inizialmente ottimamente accolti, in quanto proletariato d’avanguardia sotto il profilo ideologico e professionale, si trovano in grave difficoltà doppio lo scoppio della crisi del Cominform. I monfalconesi si schierano in massa per Stalin: di conseguenza i loro principali esponenti vengono imprigionati ed avviati alla “rieducazione” nel terribile campo di Goli Otok. I rimanenti fanno ritorno in Italia, dove non sono bene accolti.
L’accoglienza in Italia
La prima e principale ondata di esuli, quella relativa all’esercizio del diritto di opzione dopo il Trattato di pace del 1947, non ha per meta principale Trieste, ancora soggetta ad amministrazione militare anglo-americana, ma la penisola italiana, anche se comunque la zona A viene interessata da numerosi arrivi, che si aggiungono alla grande quantità di displaced persons provenienti dall’est Europa. Alla vigilia del Memorandum gli esuli a Trieste sono già oltre 30.000.
In Italia, l’accoglienza pubblica ai giuliano-dalmati avviene nel quadro di altre categorie di profughi, entro 92 strutture, dislocate in 43 città italiane, che giungono a essere 109, nel corso degli anni ’50. La loro gestione dipende dal Ministero dell’Interno e dall’Assistenza Post-Bellica, che cooperano con le autorità comunali. Più agevole è il trasferimento sul territorio italiano degli addetti alle Manifatture Tabacchi di Rovigno e Pola: il sistema di garanzie offerto alle maestranze consente infatti di seguire le piste del lavoro sicuro approdando alle aziende di Torino, Lucca, Modena, Rovereto, Venezia.
Altri aiuti giungono dal Comitato Assistenza Postbellica, emanazione del Ministero per l’assistenza postbellica – Direzione generale Alta Italia di Milano e dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati. Nel 1946 viene istituito un Ufficio per la Venezia Giulia, alle dipendenze del Ministero dell’Interno ed in relazione con il “Comitato giuliano” di Roma. Sorti per fornire asilo temporaneo, molti campi divengono la residenza dei giuliano-dalmati per periodi anche lunghi, nonostante le dure condizioni di vita: temperature proibitive, mancanza di igiene, epidemie, promiscuità, frantumazione delle famiglie.
Alcune migliaia di esuli non reggono un tale esperienza e prendono la via dell’emigrazione in America ed Oceania. Quanto all’accoglienza da parte della società italiana, si intrecciano gare di solidarietà ed atti di rifiuto. Questi ultimi hanno spesso matrice politica, dal momento che la propaganda comunista dipinge gli esuli come fascisti in fuga da un paradiso socialista.
Superata la prima emergenza, autorità pubbliche e soggetti privati avviano un’ampia gamma di iniziative a favore dei profughi. Particolare attenzione viene rivolta ai figli degli esuli dall’Opera profughi, del CLN dell’Istria, da singoli sacerdoti, circoli di benefattori e madrine, sostenuta da una cospicua rete di sinergie, comprendente l’UNRRA, la Postbellica, la Pontificia Opera di Assistenza, il governo italiano, singoli politici e missioni internazionali. Si concretizza nei collegi di Grado, Gorizia, Roma, Brindisi, Pesaro, Varese, Merletto di Graglia nel biellese, Volterra, San Miniato di Pisa, Fano nelle Marche, nonché in colonie e preventori.
Interventi legislativi e provvedimenti in materia di ricovero dei minori, occupazione, assegnazione di alloggi, funzionano da acceleratore ai processi di inserimento. A partire dal 1952 è varato il piano di edilizia nazionale per la nascita di borghi giuliani in 42 città italiane, mentre a Trieste entra in una fase operativa la costruzione di abitazioni nella cintura periferica cittadina e sul Carso (il “corridoio”, ovvero la fascia di territorio che collega Trieste all’Italia). La messa in opera dei nuovi insediamenti sgretola la compattezza del territorio etnico sloveno, alterando l’identità dei comuni carsici e provocando non poche insofferenze.
Tuttavia, diverse forme di ricomposizione sociale passano attraverso il ricambio generazionale, la scolarizzazione, i matrimoni misti, la chiesa, il mercato del lavoro e la valorizzazione economica del territorio. L’esodo dalla Zona B è quasi concomitante al passaggio di poteri dal Governo Militare Alleato all’Italia, e non vi sono ostacoli all’insediamento degli istriani a Trieste e – in misura minore – a Gorizia. Nel capoluogo, una lunga consuetudine di migrazioni interne, colloca l’eccezionalità del fenomeno nel solco di una tradizione rendendolo più tollerabile.
Affinità e parentele, il fatto che le parlate istriane sono affini al dialetto locale, precedenti reti di traffici e commerci, rendono la città più accogliente rispetto ad altre zone di ricezione, dove la lontananza geografica e culturale alimenta lo stereotipo dell’esule-fascista e la miseria post-bellica rende inconcepibile la richiesta di casa e lavoro da parte dei nuovi arrivati. Quella che da tempo era ritenuta “capitale dell’Istria”, diviene nel dopoguerra davvero la più grande città istriana.
Gli italiani rimasti
La permanenza degli italiani nei territori ceduti è poco visibile e comprensibile, a lungo non menzionata dalla storiografia. I “rimasti” sono due volte minoranza: rispetto alla scelta maggioritaria dell’esodo e di fatto minoranza nazionale nella Jugoslavia di Tito. Nel ventennio post bellico partecipano alla gigantesca opera di costruzione di uno stato socialista e ne vivono le contraddizioni: una legislazione di tutela e le perduranti discriminazioni, la piena occupazione e la costante miseria, il lavoro come slancio produttivo fonte di emancipazione e il lavoro coatto, privo di diritti.
Il primo censimento ufficiale jugoslavo (1948) per le zone dell’Istria, Fiume, Zara e le isole quarnerine, definisce la cifra provvisoria di 79.575 italiani, con esclusione della Zona B. Nella rilevazione statistica del 1961 diventano 25.614 (compresa la ex zona B). È cifra destinata a scendere ulteriormente: il minimo storico si raggiunge nel 1981 con circa 15.000 presenze.
La posizione della comunità nazionale italiana numericamente ridotta è ulteriormente aggravata dai dati relativi alla senescenza, dall’essere a cavallo di due repubbliche con un triplice regime: nel Capodistriano (Slovenia) e nel Buiese (Croazia) vigono le norme dello Statuto speciale allegato al memorandum, mentre al di fuori di queste aree ridotte risultano le forme di tutela.
Perché sono rimasti? Retroguardia nel movimento dell’esodo per la difficoltà di percorrere il labirinto delle opzioni, tanti sospendono il progetto di andare in Italia. Altri desistono per la concomitanza di congiunture personali: stanchezze dei reduci dalla guerra a lungo lontani dal luogo natio, pressioni e coinvolgimento nel potere popolare jugoslavo, scarsa professionalizzazione, sfiducia nelle possibilità offerte dall’Italia, responsabilità plurime verso anziani e minori, forti sentimenti di appartenenza all’habitat delle origini; alcuni fanno «prove di esodo» ma la nostalgia li induce a ritornare.
Moti di speranza nel futuro socialista coinvolgono soprattutto i giovani, formati dall’ideologia della fratellanza: rispetto ad un avvenire carico di promesse – continuamente additato – la fame e le paure, i danni e i lutti, le lacerazioni familiari e comunitarie possono esser concepiti alla stregua di miserie private, incidenti di percorso.
Le comunità italiane si adattano, imparano a vivere nei termini di normalità la scomparsa dei compaesani, la desertificazione dei luoghi, l’innesto di altre etnie, l’anomalia del passaggio da una condizione egemonica a quella di minoranza. Superano un nuovo analfabetismo linguistico e politico nel quale sono piombati; imparano nuove geografie, multiculturalità e nomenclature del potere, nuovi sistemi di produzione.
Lottano per non scomparire come identità nazionale e sono comunque capaci di produrre elites culturali. Grave e protratto è l’isolamento rispetto alla nazione madre; per una rete strutturata di scambi con l’Italia si deve attendere la metà degli anni Sessanta.
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- Raoul Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli, 2005.
- Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici, Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2008.
- Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani, Roma, Il Veltro, 2010.
- Enrico Miletto, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo, Franco Angeli, 2020
- Orietta Moscarda, Il «potere popolare» in Istria 1945-1953, CRS, 2016.
- Guido Crainz, Il dolore e l’esilio, Donzelli, 2005.