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L’8 settembre: la confusione intorno a un armistizio
Dal 25 luglio, quando cade Mussolini, all’8 settembre, data in cui si annuncia l’armistizio firmato cinque giorni prima con gli Alleati, in Italia regna il caos. Ne “i quarantacinque giorni” il nuovo governo temporaneo guidato da Badoglio deve scegliere quale posizione adottare nei confronti della Germania: decretare la fine dell’alleanza, portarla avanti chiedendo all’alleato di non opporsi a una pace separata, oppure fingere di voler continuare a combattere a fianco dei tedeschi e avviando nel mentre trattative con gli Alleati.
La situazione è paradossale: Badoglio tarda a intavolare le trattative per l’armistizio con gli Alleati per non insospettire i tedeschi, mentre questi sono convinti che le trattative siano già in atto. I comandi militari italiani sono però orientati a continuare la guerra a fianco della Germania.
Hitler, già dalla primavera, manifesta di non avere intenzione di perdere l’Italia. Il 26 luglio, emana una direttiva che ordina il passaggio sotto comando tedesco di tutte le truppe italiane di occupazione nell’Egeo. In pochi giorni, le truppe tedesche sulla penisola sono raddoppiate. Per il primo di agosto il Comando superiore della Wehrmacht ha pronto un piano di occupazione (operazione Achse). Roosevelt, nel mentre, condivide le considerazioni di Churchill nei confronti nel nuovo governo:
“Ora che Mussolini se n’è andato, io aprirò le trattative con qualunque governo italiano non fascista”.
Da parte italiana, le prime direttive, con carattere non più che difensivo nei confronti di una possibile aggressione tedesca, non vengono diffuse che ad agosto. Tra il 10 e il 15 si emana l’ordine “111CT” seguito, tra il 2 e il 5 settembre, dalla “Memoria O.P. 44”, che arriva però solo ai comandi stanziati su territorio italiano. Soltanto il 6 settembre Ambrosio decide di diramare il “promemoria n. 1” e il “Promemoria n. 2”, con le direttive della “Memoria O.P. 44”, ai capi di Stato maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione e alle forze nei Balcani e nell’Egeo.
Il guaio è che gli italiani confidano erroneamente in uno sbarco alleato a nord di Roma o nei Balcani e sopravvalutano le loro forze. Inoltre, il testo definitivo dell’armistizio, redatto sulla base dell’accordo tra il presidente americano e il prime minister britannico nella conferenza in Quebec, prevede la resa e il disarmo totale. Il re e Badoglio non sono preparati e temono reazioni tedesche. Solo il capo di Stato maggiore, il generale Ambrosio, spinge per una trattativa con gli angloamericani.
Gli italiani avrebbero notificato l’armistizio in cambio della promessa di un aviosbarco. Solo il 6 settembre, quando l’ordine di operazioni arriva a Roatta, è chiaro che per gli alleati “le truppe italiane avrebbero dovuto prendere l’iniziativa delle operazioni contro i tedeschi”.
Quello che sembra è in realtà che il re e Badoglio abbiano tenuto aperta la possibilità della cooperazione con i tedeschi fino all’8 settembre e che Badoglio non ha mai considerato l’eventualità di prendere iniziativa nei loro confronti. Ancora il giorno della firma dell’armistizio si tenta di convincere Eisenhower a posticipare l’annuncio. Questo non avviene solo perché il generale Rossi, che deve portare il promemoria di richiesta ad Algeri arriva troppo tardi, ad annuncio fatto.
Durante il Consiglio della Corona, la riunione alla quale partecipano il re, il duca d’Acquarone, il generale Carboni, Guariglia, Ambrosio e Badoglio, la maggioranza appoggia l’idea di sconfessare l’armistizio. A riportare tutti alla realtà è Marchesi. Alle 19 e 45 Badoglio è alla sede dell’EIAR per l’annuncio.
Mentre il Comando supremo si rende conto che il “Promemoria n. 2” non è arrivato e trasmette per radio l’ordine n. 24202, con le disposizioni per le reazioni alle violenze tedesche, un’ora dopo l’annuncio di Badoglio inizia l’offensiva di Berlino. La mattina del 9 settembre Roma è in mano tedesca (e lo rimane per 9 mesi) mentre vengono occupati i punti vitali in Italia e nei Balcani. In questo frangente il re e Badoglio continuano con la loro politica della “prudenza”, nell’illusione che la Wehrmacht, se non attaccata, si sarebbe forse ritirata. Sono sempre gli alleati a esortare gli italiani a combattere contro i tedeschi.
Mentre sulla penisola i soldati che non vengono presi dai tedeschi sono allo sbando e vengono invitati a ritornare a casa, fuori dai confini nazionali questo non può accadere. Per le 35 divisioni, per un totale di 600mila uomini, che occupano Grecia, Albania e Jugoslavia la scelta è tra consegnarsi ai tedeschi o combattere. Qui la disgregazione dell’esercito è dovuta in primo luogo alla mancanza, all’incompletezza e ai ritardi delle direttive del comando e alla disorganizzazione degli ufficiali.
Le truppe di stanza in queste aree tentano un approccio di mediazione con gli alleati già da molto prima dell’armistizio. Stanchi della guerra, della diffidenza nei confronti dell’alleato e delle offensive dei partigiani, oltre che logorati da una condizione di endemica scarsità di mezzi e viveri, nell’estate del 1943 alcuni comandanti di unità presenti in Grecia, nelle isole e in Jugoslavia stabiliscono contatti con gli inglesi. Ma l’offerta di collaborare con loro contro i tedeschi non è sufficiente: Churchill e Roosevelt vogliono solo rese incondizionate.
Le divisioni italiane nei Balcani e nell’Egeo vengono a conoscenza dell’armistizio dalla radio. Le ultime direttive ricevute ufficialmente sono quelle del “Promemoria n. 2”, che non sono però arrivate nella maggior parte dei posti, dal momento che si preferisce comunicarle a voce, a Roma, dove i capi di Stato maggiore sono convocati e dove apprendono in diretta la notizia dell’armistizio. Nel frattempo la notte dell’8 settembre, per tamponare, il Comando supremo invia per radio un riassunto del promemoria, l’ordine n.24202/Op. L’ordine di attaccare i tedeschi, emanato su pressione di Eisenhower solo l’11, arriva nei Balcani e nell’Egeo giorni dopo. Nel frattempo, le forze di Marina e quelle aeree si ritirano in Patria o nell’Egeo su indicazione del promemoria. Diverse divisioni, disorientate e senza appoggio aereo e navale, si arrendono all’ex alleato.
La Grecia
La dominazione italiana in Grecia e nelle isole inizia nel 1941, in seguito alla disastrosa campagna che ha un esito positivo per il Duce solo grazie all’intervento tedesco. Qui è stanziata l’XI armata che ha sede ad Atene, al comando del generale Carlo Vecchiarelli, che sostituisce Geloso a maggio del 1943. Il giorno stesso della comunicazione della firma dell’armistizio, Vecchiarelli invia un telegramma a tutte le truppe di sua competenza, rimandando a niente più che un oramai fuori posto tentativo di neutralità:
“Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno le armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con i ribelli, né con le truppe angloamericane che sbarcassero. Reagiranno con forza ad ogni violenza armata. Ognuno rimanga suo posto con compiti attuali.”
Ci pensano i tedeschi a far prendere posizione al generale che già il giorno dopo, il 9, dà l’ordine di disarmo. Le divisioni della Grecia continentale obbediscono a Vecchiarelli, a eccezione della Pinerolo stanziata in Tessaglia, il cui generale Infante avvia una collaborazione con i ribelli dell’Eam (Fronte di liberazione Nazionale ) e dell’Elas (l’Esercito nazional-popolare di liberazione) e con i rappresentanti della missione inglese. Purtroppo un mese dopo i partigiani comunisti rompono l’accordo e attaccano la Pinerolo rubandone le armi, forse per necessità di equipaggiarsi contro i monarchici. Infante, soccorso dagli inglesi, viene rimpatriato.
L’eccidio di Cefalonia
Su alcune isole dell’Egeo gli inglesi riescono a far sbarcare rinforzi per le truppe italiane che si sono opposte all’ordine di Vecchiarelli, come accade a Lero, Simi, Santorini e Samo.
Lo stesso non accade per esempio invece nel caso della strategica Rodi, dalla quale è garantito il controllo dell’area con le sue basi aeree e infatti, non a caso, viene occupata quasi subito dai tedeschi. Nonostante l’appello di Churchill a valutare un intervento per prendere l’isola, gli americani si oppongono.
Il caso più eclatante è però quello di Cefalonia, che fa parte, insieme a Corfù, delle isole ioniche, a metà strada tra la Penisola e il Peloponneso, dunque ideali per un eventuale sbarco alleato. Nelle due isole sono stanziate le truppe della divisione di fanteria Acqui, che a Cefalonia contano più di undicimila uomini al comando del generale Antonio Gandin, mentre a Corfù rispondo al colonnello Luigi Lusignani. Una così numerosa presenza di soldati si spiega con il fatto che le truppe tedesche invadono l’isola di Cefalonia già nell’estate, quando la caduta del Duce fa pre-odorare ai nazisti profumo di svolta delle alleanze, e quindi l’area viene rinforzata.
Gli ex alleati qui compiono un eccidio di massa dei soldati italiani, non preparati perché anche loro informati dell’armistizio solo a cose fatte, nel tardo pomeriggio del giorno dell’annuncio, dalla radio. Un’ora dopo vengono raggiunti dalle indicazioni di Vecchiarelli di ribellarsi nel caso in cui i tedeschi usino le armi e, come i loro colleghi di stanza sulle altre isole e sul continente, la sera seguente ricevono l’ordine di arrendersi e consegnare le armi.
Gandin rifiuta di obbedire a un ordine che considera contrario a quanto stabilito a Cassibile e tenta un accordo con il tenente colonnello Hans Barge, al comando delle truppe tedesche a Cefalonia. Lusignani pure rifiuta, senza tentare nemmeno una mediazione.
A Cefalonia i tedeschi lasciano a Gandin la scelta tra una collaborazione o una resistenza. E mentre il generale cerca di mettersi in contatto con il governo cercando di chiedere rinforzi, dalla Patria giunge un ordine alle unità navali di fare rotta verso il Sud Italia. La divisione Acqui resta sull’isola ionica sguarnita e con poche speranze di soccorso.
Il 10 settembre Gandin riunisce e interpella i comandanti sul da farsi e di questi solo i comandati della marina e dell’artiglieria (reparto di cui alcuni ufficiali hanno già dichiarato dall’annuncio dell’armistizio di voler combattere i tedeschi) si dicono favorevoli alla resistenza e non alla resa. Ma questi sono reparti numerosi e che godono di popolarità, animati da sentimenti antitedeschi e persino antifascisti e molto determinati alla resistenza.
Amos Pampaloni e Renzo Apollonio, i primi ufficiali a dichiararsi dissidenti rispetto all’ordine di non attacco alle truppe del Reich, hanno inoltre distribuito ai partigiani locali armi per la resistenza nei giorni precedenti. Questi elementi, insieme alla vicinanza alla Penisola, per quanto sia palese che possa dare pochi frutti, e alla maggioranza numerica, anima le speranze delle truppe della Acqui.
Gandin tenta di prendere tempo perpetuando i tentativi di trattare. Nel frattempo il generale Lanz, comandante del XXII corpo d’Armata tedesco, arriva a Cefalonia ed è immediatamente animato dai sospetti. Così commenta poi la situazione:
“Avevo l’impressione che il generale Gandin cercasse un pretesto per non cedere le armi (…) dava continuamente nuove ragioni (…) nonostante che sapesse benissimo quale fosse la situazione.”
Oltre al problema dei sospetti tedeschi, il generale alla guida della Acqui, ha anche quello dell’insubordinazione che inizia a crearsi tra i suoi soldati, i quali si spingono anche ad atti di violenza contro alcuni ufficiali il cui comportamento definiscono poco chiaro e ambiguo. In questi giorni regna il caos e direttive precise da parte del Comando supremo stanziato a Brindisi non arrivano sino al 12 o 13 settembre, quando il generale Rossi si decidere a dare l’ordine di “trattare le truppe tedesche come nemiche”. Nel frattempo, la sera dell’11, giunge da Leucada (all’epoca Santa Maura), isola poco a Nord di Cefalonia, la notizia che i tedeschi non onorano la promessa di rimpatriare i militare arresi.
Gli ex alleati tentano di sbarcare ad Agrostoli, dove il reparto di artiglieria lì dislocato, comandato dal capitano Apollonio, attacca per respingerli e ripiegano dunque su Luxuri, contattando telefonicamente Gandin per avvisarlo che un ultimatum è in arrivo. Il generale si consulta con i soldati, si decide di non dare spazio alle trattative e di prepararsi al combattimento. I due schieramenti si scontano ininterrottamente dal 15 al 22 settembre, quando Gandin accetta la resa senza condizioni. Corfù cade 3 giorni più tardi.
Durante il combattimento sono morti circa in 1300. Hitler dà ordine di fucilare a tappeto. Nemmeno i soldati, in questo caso, vengono risparmiati e i condannati sono tra i 4mila e i 5mila. I pochi superstiti vengono imbarcati come prigionieri su navi dirette in Germania o in un paese occupato, alcune di queste vengono bombardate dagli americani.
Eccidio di Coo
L’8 settembre a Coo, o Kos, ci sono circa quattromila uomini del X reggimento di fanteria della divisione “Regina”, comandato dal colonnello Felice Leggio, alle dipendenza dal comando di Rodi. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre gli Alleati lanciano volantini che invitano alla resistenza contro le truppe tedesche e le poche presenti sull’isola vengono disarmate. Si scatenano combattimenti tra gli italiani di Rodi, circa 35.000, e i tedeschi, circa 7.000.
L’isola del Dodecaneso rappresenta un punto strategico per la presenza dell’aeroporto di Antimachia. I tedeschi non intendono dunque lasciarla nelle mani di nemici e “traditori”. L’11 settembre Kos è bombardata dalla Luftwaffe. Due giorni dopo, le truppe britanniche del generale Kenyon cominciano a sbarcare sull’isola con l’ordine di cooperare con l’alleato italiano.
Il 3 ottobre alcuni reparti guidati dal generale Müller, soprannominato “macellaio di Creta”, sbarcano sull’isola. La disorganizzata resistenza anglo-italiana non riesce a fermare l’attacco. Quasi 1400 britannici sono fatti prigionieri, ma con la tutela dalle convenzioni di guerra. Gli italiani vengono fucilati e in 3.145 imprigionati. I tedeschi ne escono quasi indenni: nei combattimenti perdono15 uomini e 70 restano feriti.
Inizia a Kos un lungo periodo di occupazione tedesca con gravi ripercussioni non solo sui soldati italiani, ma anche sulla popolazione, in particolare con la deportazione degli ebrei locali. Nessun aiuto arriva sull’isola. Un volantino che piove dagli aerei della Luftwaffe recitava infatti:
“ITALIANI, la resistenza che i vostri camerati, per la sconsigliatezza dei loro Comandanti, hanno fatto a Cefalonia e Corfù, contro i soldati tedeschi, è stata infranta decisamente e con perdite sanguinosissime da parte italiana. Anche a Coo, come a Cefalonia e Corfù, le truppe hanno dovuto pagare col sangue la loro vana, inconsulta resistenza”.
Le divisioni in Albania
Le truppe in territorio albanese sono sei divisioni della IX Armata, al comando del generale Ezio Rosi, di sede a Tirana. Il Promemoria n. 2, consegnato al suo capo di Stato maggiore Emilio Giglioli l’8 settembre, non arriva a Rosi che, intanto, durante i quarantacinque giorni, è costretto dai comandi a consentire contro il suo parere ai tedeschi l’occupazione delle infrastrutture:
“Tutta la rete stradale e il maggior porto dell’Albania vennero a essere posti sotto il controllo dei tedeschi, ai quali era altresì venuto a conoscenza ogni particolare relativo alla nostra dislocazione, ai nostri intendimenti e allo spirito delle truppe.”
Quando la sera dell’8 arriva l’ordine 24202 è troppo tardi. I tedeschi si sono già mossi, l’11 hanno preso lo stesso Rosi e tutti gli ufficiali come prigionieri. Il generale Dalmazzo, comandante della IX armata, ordina il disarmo di tutte le forze del territorio albanese alle sue dipendenze e si accorda con il generale Von Bessel per la consegna di artiglieri e armi pesanti. Nell’arco di 10 giorni i tedeschi controllano i centri più importanti.
Delle sei divisioni, la Parma è comandata dal generale Lugli, che alle prime rifiuta di cedere le armi ai tedeschi, ma dopo l’ordine di Dalmazzo cede e obbedisce, condannando se stesso e i suoi alla prigionia.
La divisione Firenze e la Perugia sfuggono al disarmo e alla cattura immediata. Il generale Arnaldo Azzi, al comando della Firenze, dopo un tentativo congiunto con la divisione Brennero (o quello che ne rimane dopo che il loro generale Aldo Pallavicini, li convince a cedere alle lusinghe/minacce dei tedeschi di aiuto nel rimpatrio in caso di resa) di riconquistare Tirana, è costretto a sciogliere la divisione per problemi di approvvigionamento, ma a fine settembre firma un accordo con il rappresentante del movimento partigiano Enver Hoxha. Azzi viene rimpatriato dagli inglesi nel 1944.
Anche la divisione Perugia resiste ai tedeschi, iniziando a vagare per monti e coste albanesi e fronteggiando però, oltre all’ex alleato, anche la resistenza locale. Si arrendono ai tedeschi solo a fine settembre, quando si convogliano verso Porto Palermo in seguito a un falso messaggio che li invita a recarvisi perché una nave italiana li attende per il rimpatrio. In realtà trovano solo i tedeschi: gli ufficiali vengono uccisi e i superstiti deportati.
La divisione Bergamo in Jugoslavia
Con sede a Spalato e dislocata sulle isole di fronte, c’è la divisione Bergamo, comandata dal generale Emilio Beccuzzi e facente parte del XVIII Corpo d’armata del generale Spigo. Composta da oltre undicimila uomini la Bergamo conduce fino al momento dell’armistizio una feroce battaglia al movimento partigiano e non è ben vista dalla popolazione civile. Al generale Spigo è già noto il testo della “Memoria 44” al 6 settembre, ma all’ordine di attuazione ricevuto il 9, la modifica che prevede che non ci siano spargimenti di sangue del respingimento dei tedeschi cambia tutto. Dopo l’armistizio gli equilibri in Croazia si ribaltano: i partigiani sono ora i nuovi potenziali alleati contro tedeschi e governo collaborazionista.
Mentre Spigo sigla un accordo di resa e consegna degli armamenti con il Comando tedesco, Beccuzzi, secondo la versione resa dallo stesso generale che però non è l’unica, si oppone e si accorda con i partigiani, con la partecipazione degli inglesi agli accordi. Altre testimonianze sostengono invece che i partigiani, diffidenti verso i generali italiani, disarmano di loro iniziativa la Bergamo. I generali a Spalato non hanno comunque il coraggio di coordinare una reazione contro i tedeschi e sperano solo di tornare a casa. Solo tremila uomini ci riescono grazie a un convoglio che arriva il 23 settembre. Tra questi c’è Beccuzzi, che lascia qualche migliaio di suoi uomini sulle coste jugoslave. Di questi, circa 1500 si uniscono ai partigiani, lasciando Spalato il 25, due giorni prima dell’occupazione tedesca avvenuta il 27 settembre.
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- Elena Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, Il Mulino, 2021
- Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Il Mulino, 2006
- Elena Aga Rossi – Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2017
- Isabella Insolvibile, Kos 1943-1948. La strage, la storia, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010
- Marco De Paolis – Isabella Insolvibile, Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti, Viella, 2018